Dress code: dal biancazzurro alle All Star rosse

16 Maggio 2023

Apriamo il nostro guardaroba e diamo uno sguardo al suo contenuto: a parte l’ordine o il disordine, ci renderemo conto che nel corso degli anni abbiamo accumulato capi di abbigliamento capaci di raccontare gli eventi a cui partecipiamo, il nostro lavoro e le passioni del tempo libero. Ogni armadio presenta le tracce dei famigerati “dress code”, che no, non esistono solo come chiosa degli inviti a cerimonie diplomatiche e serate di gala. Come tutti i codici anche quelli vestimentari possono essere rispettati o meno, ma ciò non determina la loro ragion d’essere quanto le storie e le idee di cui sono manifestazione diretta. Se, come si legge sul Vocabolario Treccani, l’accezione giuridica di codice equivale a un "corpo organico e sistematico comprensivo di tutte le norme pertinenti a un ramo del diritto”, allora, nel sistema della moda, si sostanzia come una raccolta di norme dal potere legislativo che impongono di indossare certi abiti in determinate occasioni d'uso.

Dati questi elementi non è per nulla banale applicare una visione giurisprudenziale ai codici degli indumenti. In USA si è distinto il contributo di Richard Thompson Ford, docente di legge alla Stanford Law School, che si è occupato di ricostruire genesi e significati dei Dress code in un omonimo volume edito in Italia da il Saggiatore (2023). Secondo Ford, l’avere una serie di regole a cui appellarsi serve a semplificare la complessità poiché si isola un significato tra i tanti possibili e lo si attribuisce a un certo tipo di abbigliamento. I dress code descrivono regole derivate da strutture sociali e fungono da stele di Rosetta per decodificare i significati degli indumenti. Il codice è norma e chiave di lettura perché ognuno di noi ha delle associazioni sedimentate per educazione e cultura che determinano delle attese sull’univocità interpretativa di quanto vediamo indossato dalle altre persone.

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Travis Scott, noto rapper americano, offre un saggio di sagging.

Nonostante i codici siano composti da norme e non da precedenti, Ford, da bravo avvocato statunitense, adopera il metodo casistico della Common Law per argomentare come la moda dà forma alla storia. In buona sostanza cerca di analizzare un sistema di prescrizioni orientato al contenuto raccontando una serie di casi degni di nota atti a spiegare usi e consuetudini dell’esprimersi con l’abbigliamento. La connessione tra vestiti e mondanità viene definita da Roland Barthes insieme Indumento/Mondo per designare la corrispondenza tra stato d’animo e outfit scelto d’istinto, o spiegare le componenti di un ensemble da sfoggiare a un evento importante, entrambi versanti in cui la moda resta implicita “esattamente come il significato di una parola”. Lo stesso accade con la legge, che sovrintende a ogni nostra azione e comportamento pur non conoscendo approfonditamente i dettagli del Codice civile o penale.

Rispettiamo le norme perché le abbiamo presenti come componenti della categoria giusto/sbagliato, sullo sfondo dei nostri processi di scelta, che si tratti di pagare quanto acquistiamo o di decidere il look adatto a un’occasione. I dress code raccolgono in forma ordinata le relazioni di causalità tra indumenti e momento di vita, mentre la moda è volatile e arbitraria, giustificata dalle retoriche comunicative. Al pari delle mode, i codici dell’abbigliamento si stabiliscono per convenzione, però la loro cristallizzazione li rende connaturati alla pratica o all’occasione, tanto che se non vengono rispettati si crea un effetto perturbante sia per chi li infrange sia per chi assiste alla trasgressione. Moda e dress code sono promulgati da un’oligarchia che fornisce alternative e routine per dare senso a oggetti inerti come gli indumenti per trasformarli in segni e simboli.

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Vessillo SSCN.

La retorica vestimentaria fabbrica significati al pari di un sarto che confeziona gli indumenti, li elabora come concrezione ideologica, ne diffonde il senso per mezzo di un processo estetico, indirizzato dall’associazione di tratti e oggetti. Non è un modus operandi forzato: la propensione giurisprudenziale del sistema moda si evince dal suo lessico, dove i termini tecnici sono spesso innestati a espressioni come “all'ordine del giorno”, “crimini di moda”, “all’altezza”, che avvertono di non contraddire mai l’ente legiferante delle tendenze di stagione, pena sanzioni negative per cattivo gusto e volgarità. Un indumento, spiega Ford, può servire anche in tribunale per dimostrare la colpevolezza o per scagionare da un’accusa. Il problema però sembra essere sempre il senso comune che ratifica dress code pretestuosi, sessisti e razzisti. Il termine pretesto esprime antecedenza perché è composto da prae/prima e textus/tessuto, narrazione. In senso figurato ciò che precede la trama è un argomento ornamentale, non sostanziale, mera apparenza (vd. Vocabolario Treccani).

Ford ricorda che un afroamericano viene considerato all’istante un criminale se indossa una felpa col cappuccio e pantaloni a vita bassa con l’intimo in bella vista. Anticipare le intenzioni di una persona considerando unicamente gli abiti non rientra unicamente nelle pratiche di pensiero dei White Anglo-Saxon Protestant (WASP), ma afferisce anche alle “politiche della rispettabilità” propugnate da afroamericani influenti, da Bill Cosby per arrivare al più democratico Barack Obama, che nel 2008 ha esortato i suoi fratelli a rinunciare al sagging, all’abitudine di portare vestiti oversize. Dunque, l’ampiezza dei volumi corrisponde a una mancanza di misura nel comportamento? Probabilmente sì, visto che già nel 1931 la rivista americana Tailor & Cutter propugnava la “contenzione” degli indumenti, cioè l’aderenza al corpo per mantenere il tessuto sociale compatto.

La scomodità degli abiti dimostra valore e cultura, dona consistenza all’eleganza. Per una donna sono eleganti le non propriamente comode scarpe col tacco, a discapito delle ciabatte, da relegare alla casa e, forse, alla spiaggia. Tra gli oggetti di moda pretestuosi rientrano anche quelli con colori e loghi delle squadre sportive, per Ford enumerabili tra i requisiti per l'imputazione soggettiva del fatto all'agente. In questo caso il dress code dimostra le principali funzioni politico-sociali dell’abbigliamento come la comunicazione e il self-fashioning. Ford prende in prestito dallo storico Stephen Greenblatt il termine self-fashioning per esprimere il potere dell’abbigliamento di cambiare la percezione di sé, il poter e voler essere: “diventiamo ciò per cui ci vestiamo”. E allora la moda d’affiliazione, l’indossare maglie e berretti di una squadra sviluppa i principali interessi della moda, come l’espressione di status, potere e personalità. Lo abbiamo visto il 4 maggio 2023, quando la Società Sportiva Calcio Napoli ha vinto lo scudetto della Serie A italiana e in ogni parte del mondo si sono svolte le celebrazioni attese da 33 anni.

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Marissa Mayer.

Ovunque, senza alcun accordo preesistente, le persone si sono sentite in dovere di indossare qualcosa con i colori sociali della squadra (bianco-azzurro), compreso chi ha supportato la vittoria in modo “occasionale”, solo per godere della grande festa. Quella notte una sola bandiera ha unito persone di ogni nazionalità che hanno scelto un indumento azzurro per affiliarsi al popolo napoletano. L’azzurro ha atteso il codice globale del tifo per cui un colore significa vicinanza e amore incondizionato. Rivestire il corpo di azzurro è servito a estendere e assorbire l’unicità di una passione, di un tratto identitario e di appartenenza, a urlare silenziosamente che sì, anche se per una sera, si tifa Napoli a Seoul, New York, Buenos Aires, Milano e Udine. 

È pur vero che i codici di abbigliamento sportivo danno un peso eccessivo a una forma superficiale di rappresentazione identitaria. Come ricorda Ford, i codici vestimentari sottraggono potere alla moda poiché fondano l’abbigliamento su convenzioni sociali e interpretazioni standardizzate che fanno diventare una maglietta azzurra il simbolo dell’orgoglio di un popolo o una giacca con le toppe sui gomiti prova di fine intelletto. L’essere di moda ha posizioni distanti da quelle del senso comune, per cui il concetto di eleganza sembra sempre sfociare nel carnascialesco, nella mascherata, nel grottesco bachtiniano, ragion per cui, nonostante l’originalità possa costituire il fattore principale di distinzione e di stile, il “classico” resta comunque sinonimo di classe, non di obsoleto e sorpassato.

La tesi da controbattere è che nelle alte sfere, in tribunale così come in Parlamento o in Accademia, si considerano “abbigliamento e aspetto questioni triviali”. In Italia ne abbiamo avuto la clamorosa dimostrazione con l’affaire mediatico della stylist armocromista di Elly Schlein. Ford cita un caso simile, riguardante un servizio di Vogue America dedicato alla CEO di Yahoo! Marissa Mayer, rea di aver indignato i colleghi della Silicon Valley per aver sottratto tempo alle questioni aziendali per dedicarlo al futilissimo aspetto estetico. Ford, da avvocato e accademico, dissente con tutte le sue forze perché la persona di successo indifferente alla moda, o, meglio ancora, fuori moda, è uno stereotipo controproducente e obsoleto, un codice mascherato. Per il senso comune la trasandatezza è segno di autorevolezza, mentre l’essere alla moda connota una superficialità che mal si accorda all’esercizio dell’intelligenza. Lo si vede anche al cinema, dove i docenti universitari indossano giacche lise di velluto a coste.

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Rappresentazione canonica di un docente universitario.

Per Ford “un professore vestito in modo trasandato comunica la sua posizione invertendo il simbolismo sartoriale convenzionale: non si veste per far colpo perché non ha bisogno di far colpo”. Ford descrive una realtà glocalizzata, visto che, mio malgrado, nell’università italiana si presta molta attenzione al non seguire le mode. Per definizione chi si occupa di cultura dovrebbe avere una mente più aperta e non badare per nulla a faccende come l’abbigliamento o il trucco, ma in realtà la supposta indifferenza nasconde la rigidità di un dover essere e rivela la preponderanza di un dress code universitario. Da docente universitaria, nel corso degli anni, ho capito che in aula si va in giacca per ambo i generi, e si dovrebbero evitare smalti vistosi, rossetto rosso e marchi visibili. Ci sono delle norme tacite anche sui capelli, che per le donne si preferiscono più corti o acconciati con una coda di cavallo.

Badate bene, ci tengo a chiarirlo, si tratta di generalizzazioni che giovano al costruirsi una solida immagine da intellettuale, come se la densità della materia grigia si potesse stabilire in base alla consistenza del velluto delle giacche. La comunità accademica non languisce da sola nel pregiudizio, è in compagnia di quella studentesca che si dimostra assai confusa davanti a una Prof. “alla moda”, o quantomeno “curata”, sino quasi a non riconoscerla come parte della categoria. Non avete idea di quante persone, durante i miei appelli d’esame, siano entrate in aula chiedendomi se la professoressa avesse iniziato a interrogare. Ai ruoli tematici corrispondo aspettative profondamente codificate, è inutile girarci intorno. Ford ci viene ancora una volta in aiuto riportando i risultati di una ricerca di Silvia Bellezza, Francesca Gino e Anat Keinan da cui nasce la teorizzazione del Red Sneakers Effect, ovvero della propensione della comunità studentesca a individuare come tratti di autorevolezza del corpo docente le scarpe da ginnastica rosse, la t-shirt anonima o la barba incolta. In questo elenco, ovviamente, non sono contemplati elementi caratteristici della moda femminile poiché le donne sono considerate a priori meno qualificate degli uomini. Mi capita di continuo di essere scambiata per assistente di un caro dottorando che collabora con la cattedra di Semiotica, probabilmente per mere questioni di genere e di allineamento del mio look con le tendenze di stagione. L’uomo è il professore, la donna lo assiste. Vale anche per l’illuminata generazione Z, persino quando indosso le mie adidas rosso bordeaux. 

In copertina, Red sneakers effect.

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