Einaudi, 80 candeline
Nel 1933, quando comincia la sua attività d’editore, Giulio Einaudi pubblica una rivista, “La Cultura”, fondata da Cesare de Lollis. È lì, intorno al mensile, che si forma il gruppo che si trova in via dell’Arcivescovado, a Torino, al civico 7, nello stesso palazzo dove aveva avuto sede “Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci. Ci sono Leone Ginzburg, Cesare Pavese e Massimo Mila, tutti usciti dal liceo D’Azeglio. Come se non bastasse, l’anno seguente, il giovane Giulio prende a carico la rivista del padre, l’economista e futuro presidente della Repubblica, Luigi Einaudi: “La Riforma Sociale”.
Da questo nucleo di collaboratori, amici e studiosi, nasce la casa editrice che porta il suo nome, un aspetto spesso sottovalutato nella genesi del più importante editore italiano del secondo dopoguerra, di certo il più prestigioso e carico di cultura. Essere un editore di riviste vuol dire privilegiare due aspetti: l’interventismo culturale e il gruppo. Che Einaudi sia stato ben presto un editore “militante”, nel senso forte del termine, è evidente anche all’occhiuta censura fascista che, nonostante l’ampia recensione di Benito Mussolini a Che cosa vuole l’America? di Henry A. Wallace, primo libro dell’Einaudi, pezzo apparso su “Il Popolo d’Italia” il 17 agosto 1934, già tiene in sospetto il gruppo di sovversivi torinesi.
Finiranno tutti arrestati e “La Cultura” chiusa. E sarà un arresto di gruppo, perché l’Einaudi senza il suo gruppo di sodali e collaboratori non sarebbe neppure concepibile. Se il laboratorio torinese è durato così a lungo, attraversando ottant’anni di storia italiana in perfetta indipendenza, o quasi, lo si deve prima di tutto a questa identità collettiva. In Italia ci sono stati tanti editori importanti, da Mondadori a Rizzoli, ma nessuno di loro era un gruppo intellettuale, una realtà plurima e complessa. Questa è stata la fortuna dell’Einaudi fin che Giulio Einaudi ne è stato a capo. Elegante, ruvido, bizzoso, scostante, imprevedibile, Re Giulio ha creato intorno a sé una realtà di comprimari.
All’inizio era il primus inter pares, perché Pavese e Ginzburg erano figure di fratelli, a volte persino maggiori, cui aggiungere Giaime Pintor e Carlo Muscetta a Roma (due città e due teste per diverso tempo, fino a che non è arrivata nel dopoguerra Milano). Ma dopo l’uccisione di Leone, per mano dei nazifascisti, e il suicidio di Cesare, è rimasto solo lui, con altre figure importanti quali Franco Venturi, Norberto Bobbio, Felice Balbo, oltre a Mila; poi Vittorini, Calvino e Natalia Ginzburg, eredi della redazione di “Cultura”, ma non più i fratelli degli inizi. Pur regnando incontrastato, Einaudi, ha sempre avuto vicino a sé queste figure di collaboratori, cui s’aggiunge, almeno a partire dagli anni Cinquanta, Roberto Cerati, mente commerciale.
Insomma, come ha scritto Gian Carlo Ferretti in una delle sue storie dell’editoria italiana, un cervello collettivo, in cui la progettazione, la ricerca e la decisione erano il risultato di un dibattito interno, tra il formale e l’informale, legato a un luogo mitico, i famosi “mercoledì” dove, intorno a un tavolo – disegnato da Mollino –, si discuteva di libri e di autori, spesso in modo polemico e feroce. L’arrivo di Giulio Bollati, viceré della casa di via Biancamano, darà alla corte di Re Giulio la sua forma più perfetta mantenuta fino alla crisi degli anni Ottanta. Insieme alla militanza (che spingerà Einaudi a pensare a un’unione con Giangiacomo Feltrinelli negli anni Settanta, considerato da lui alla stregua di un erede) e al gruppo, ci sono altri due elementi che hanno fatto l’Einaudi nel corso dei decenni seguenti: l’idea di voler raggiungere un vasto pubblico e la grafica.
Inge Feltrinelli e Giulio Einaudi
È stata questa ambizione, e non un calcolo d’opportunismo commerciale, a spingere Einaudi vicino al Partito Comunista, individuato ben presto come il riferimento culturale e politico nell’Italia postbellica. Far crescere il numero dei lettori, dare loro libri che non siano solo destinati alle “piccole chiesuole di marca fiorentina”, consolidare la democrazia della lettura, è stato un compito che Re Giulio ha indicato ben presto al suo gruppo. Vittorini e Calvino hanno incarnato questo progetto per vari decenni, dal “Politecnico” a “Centopagine”, una rivista e una collana di libri. Tuttavia senza Albe Steiner, Bruno Munari e Max Huber, non ci sarebbe l’eleganza di Einaudi, più volte ripresa e aggiornata anche dai grafici più giovani, da Pier Luigi Cerri a Mario Piazza.
Lo scopo è di far durare i libri, di trasformarli in manifesti visivi, sin dalle copertine, idea che Munari ha messo a punto con l’aiuto di Oreste Molina, Giulio Bollati, e Einaudi stesso. L’identità era data dal marchio grafico, e dura ancora. Poi arriva la crisi, negli anni Ottanta. Se ne va Bollati; c’è la crisi finanziaria (la seconda o terza, la più forte dopo quella degli anni Cinquanta), ma è anche la società italiana che ha mutato pelle. Il progetto, culmine del fare einaudiano, lascia il posto al non-progetto, o all’antiprogetto nell’editoria italiana, come lo definisce Ferretti. Il gruppo si sfilaccia o non interpreta più lo spirito dei tempi.
Viene l’epoca delle concentrazioni editoriali. In modo molecolare nascono piccole case editrici portatrici di innovazioni che alimenteranno l’intera editoria italiana nei due decenni a seguire; ed è l’ora di Adelphi, nata da una costola dell’Einaudi, suo opposto simmetrico. Niente è più come prima. Resta la grande eredità culturale, di titoli, di idee, di persone, ma non regna più Re Sole: nascono nuove repubbliche editoriali. Giulio abdica. L’Einaudi continuerà senza di lui, una navigazione diversa, meno progettuale.
Fa sempre bei libri, ma si concentra via via sulla narrativa, nel declino della centralità della saggistica di qualità lungo gli ultimi due decenni. Nasce “Stile libero” di Paolo Repetti e Severino Cesari. Il nome è tutto: liberi tutti! Grande editore in un universo multimediale e multiculturale, questa è oggi l’Einaudi. Torino non è più il centro del mondo. È arrivata la Mondadori, e con lei Silvio Berlusconi, nuovo proprietario. Sono gli anni Novanta. La nave va, lasciala andare.
Il pezzo è apparso su La Stampa in forma differente e più breve