Elogio della manutenzione

25 Settembre 2023

Lunedì pomeriggio verrà il tecnico della caldaia. Il congegno, grazie a Dio, non è affatto rotto, funziona perfettamente, sia per l’acqua calda sia per i termosifoni. Appressandosi la stagione invernale, è bene però farne un’ispezione, controllare se tutto è a posto o se per caso qualche componente non rischi da qui a poco di rovinare, vuoi per normale usura (come spiega l’azienda produttrice nel libretto delle istruzioni) vuoi per calcolata obsolescenza (come ritengono i soliti malpensanti). C’è poi da aggiungere una specie di sale in una boccetta azzurra, verificare i microscopici componenti della scheda elettronica, fare pulizia dell’intero meccanismo. Un po’ di cura, insomma, è auspicabile. Tant’è che io – come moltissimi altri utenti desiderosi di tenere alta la temperatura domestica – ho stipulato un contratto con una piccola azienda che non solo mi assicura il servizio periodico di controllo, ma pure mi avvisa quando è arrivato il momento di farlo. In soldoni, pago per non spendere di più. E analogamente – ne parlo per questo – milioni di persone nel mondo.

È come il tagliando dell’automobile, dello scooter o del motore del barchino. Ogni tot tempo li portiamo in officina prima ancora che si guastino per evitare che si guastino. Paranoia? Per nulla, semmai attenzione, cautela, dedizione preventiva. C’è chi ci marcia, lo sappiamo, magari enfatizzando nei ritmi dell’assistenza, facendoci cambiare l’olio del motore prima del tempo, suggerendoci pneumatici nuovi come se dovessimo scalare in auto, ogni dopodomani, il Petito Moreno. Ma, del resto, o cambiamo mestiere e ce ne occupiamo da noi oppure ci fidiamo di quel tizio in tuta arancione, spesso coi baffi e un paio di tatuaggi, che di mestiere fa proprio questo: si prende cura delle cose e, indirettamente, di noi che le impieghiamo con una certa regolarità. Un mestiere tanto anonimo quanto affollato, quello di chi, a tutti i livelli e per tutti gli aspetti delle nostre società complesse, fa in modo che le cose funzionino sempre e comunque, dal servizio di noleggio delle bici alle dighe in materiali sciolti, dai computer dell’ufficio alle torri di controllo degli aeroporti, dalle fognature urbane alle sale operatorie degli ospedali e via dicendo. Tutto un esercito di tecnici specializzati che, se pure nessuno nota, fa in modo che la vita individuale e collettiva prosegua il suo corso, non s’inceppi, dall’infraordinario di Perec ai megadispositivi elettronici delle multinazionali dell’energia.

Certo, c’è anche chi, ostinato tecnocrate del proprio tempo, il manutentore lo fa per hobby, magari tutti i sabati pomeriggio, dove piuttosto che andare a far la spesa con la famiglia preferisce scendere in garage per assistere la sua – o, più spesso, le sue – auto d’epoca. Costui non usa quelle macchine, poniamo, al fine di andare al lavoro o recuperare i figli a scuola. Per quello ha l’utilitaria elettrica. Le considera semmai per diatesi intransitiva, non per quel che servono ma per quel che sono, forse per andare a spasso ma, ancor più, proprio per prendersene cura, per coccolarle intensamente manco fossero un pet e meno che mai un infante. Pervertendo ciò per cui erano state a suo tempo progettate (un po’ come il collezionista di Benjamin), la sollecitudine è per lui il fine, non il mezzo. La cosa sociologicamente interessante è che – mi dicono – periodicamente un personaggio del genere incontra i suoi simili, cioè altri invasati come lui, in riunioni apposite, i famigerati raduni d’auto d’epoca, dove tutti insieme appassionatamente fanno chilometri e chilometri giusto per sfoggiare la propria anziana vettura tirata a lucido che, modestamente, funziona a puntino, ha tutti gli specchietti a posto, non sputa tanto olio motore e, ai nostalgici, ricorda quella con cui il nonno li portava al circo durante le vacanze natalizie. Di cosa parleranno costoro durante il pranzo restauratore? Ovviamente delle loro automobili, dei gommini ingegnosi installati sotto il cofano per evitare le vibrazioni, del negozio di ricambi che conserva in magazzino una scatola di carburatori ormai in disuso, dei copertoni bianchi e neri come nei film di Al Capone, della vernice appena progettata che meglio prende su quei metalli d’antan. Gli appassionati d’auto d’epoca parlano delle auto d’epoca, di cos’altro? Come i tifosi di una squadra di calcio o i fan di una rock band. 

Ma con una sostanziale differenza. I tifosi del calcio, legione, vivono una passione sfegatata, e insieme ai fan d’una banda il loro scopo è quello di andare allo stadio o al concerto per poi parlarne al bar dello sport e luoghi similari. Il maniaco d’auto d’epoca no, per lui è diverso, perché il suo lavoro (pardon, il suo passatempo) mette in atto quella che Jérôme Denis e David Pontille, nel loro bellissimo libro intitolato Le soin des choses (pp. 368, La Decouverte 2022), chiamano maintenance, termine che in italiano possiamo rendere con mantenimento o, forse meglio, con manutenzione. Sembra che esistano da un po’, in diversi centri di ricerca nel mondo, i maintenance & repair studies, e questo volume vuol esserne una sintesi, onde riproporre un’analisi critica e un progetto di rilancio possibile delle attuali forme di organizzazione sociale. Una sciocchezza? pedanterie da sfaccendati? Proprio il contrario: teorizzare (e praticare!) la maintenance significa – secondo  Denis e Pontille, sociologi all’École des Mines di Parigi – ripensare alla radice, e perciò far afflosciare, alcuni miti del pensiero e dell’azione contemporanei, come quello dell’innovazione a tutti i costi, spesso priva di senso e di valore, o, al suo opposto simmetrico, della distruzione sistematica, del degrado, dei rifiuti come esito manco tanto inconscio del modo di produzione capitalistico e dell’ansia del progresso a tutti i costi. 

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La manutenzione può assumere forme diverse, dar luogo a estetiche ed etiche disparate, da quella del nostro tecnico della caldaia al meccanico qualificato, appunto all’amatore d’auto d’epoca, ma anche al tecnico che deve detergere quotidianamente le opere di un museo (nonché di quelle che giacciono nei depositi), per non dire degli operai specializzati che si occupano di ripulire la facciata di una cattedrale gotica con sofisticate idropompe dal tocco delicatissimo. I due autori si soffermano per esempio sui cartelli segnaletici della metropolitana (a cui hanno dedicato anni addietro un altro bel libro, Petite sociologie de la signalétique) che, prima ancora di indicare ai viaggiatori percorsi, deviazioni, costrizioni e divieti, devono esser ben leggibili, dunque puliti, tenuti su, installati nei punti giusti, protetti dai vandali e così via. Ne viene fuori un nuovo modo di considerare la materia (e con essa il materialismo), non supporto duro e puro per segni e linguaggi, informazioni e simbologie varie, ma entità costitutivamente fragile da accudire, tutelare, conservare in uso. Gli addetti ai pannelli della metro sono, secondo i due autori, i veri eroi del nostro tempo, figure esemplari dell’importanza strategica della manutenzione, sia essa individuale come collettiva, personale e sociale, dunque, per quanto trascurata, direttamente politica. In questo non tanto diversi dai patiti d’auto d’epoca.

Sembra un po’, ammettiamolo, la filosofia delle vecchie nonne che ci incitavano a tenere in ordine la stanzetta e gonfiare regolarmente le ruote della bicicletta, ad accomodare le cose vecchie di casa piuttosto che comprarne compulsivamente di nuove, a rammendare i calzini insomma. Oppure, che è lo stesso, questa filosofia della manutenzione potrebbe apparire come l’ennesima riproposizione dell’ideologia new age che ci chiede di abbracciare gli alberi piuttosto che a farne legname per la stufa. Il paragone però non regge. La cura delle cose, sostengono Denis e Pontille, non è precapitalistica ma, semmai, post-consumistica. Non denega in generale la società dei consumi ma ne propone un’importante rivisitazione, in funzione critica e – riuscendo finalmente a dare un senso a questo termine – sostenibile. Sostenere, difatti, è innanzitutto prestare attenzione, considerare la cagionevolezza delle cose, rallentare i ritmi, avere tatto e sensibilità, ma anche gestire con sottigliezza i conflitti possibili, prevenirli o almeno attenuarli. 

La manutenzione, infatti, spesso dà fastidio: i lavori in autostrada provocano traffico, i controlli in aeroporto creano file interminabili, per non parlare degli addetti alla pulizia delle toilette, che ce le sbarrano proprio quando ne abbiamo urgente bisogno, così come il tecnico della caldaia citofona immancabilmente quando stiamo schiacciando un pisolino o buttando giù gli spaghetti. Facciamocene una ragione. Pazienza e impazienza vanno regolate, come già insegnava Ervin Goffman (poco citato ma assai presente in queste pagine), in modo che la vita quotidiana possa scorrere al meglio: dove l’altro con cui condividere spazi e tempi non è soltanto il coniuge o l’amico, il capufficio o la prole, ma anche e soprattutto l’invisibile addetto alla manutenzione del mondo, alla cura sottile delle cose. 

Denis e Pontille aprono e chiudono il libro ricordando il lavoro dell’artista concettuale Mierle Laderman Ukeles, le cui performance tendevano a ribaltare le assiologie dell’arte e, più in generale, quelle delle amministrazioni pubbliche. Una volta, in un museo di Hartford, nel Connecticut, Ukeles ha esposto una mummia egizia presa in prestito dal Metropolitan, e ha iniziato a nettare meticolosamente le pareti vitree della teca che la custodivano da decine d’anni. Terminata l’operazione, ha apposto sulla scatola ormai brillante un’etichetta con su scritto “Maintenance Art Work”. Duchamp docet. A quel punto il conservatore del museo s’è trovato in dovere di autentificare il valore estetico dell’operazione, facendo della teca, o meglio della sua ripulitura, un’opera d’arte alla stessa stregua della mummia là dentro. Ecco ridefiniti i confini tra arte e non arte, originalità e banalità, rottura delle abitudini e tran tran quotidiano. La performance aveva portato, per usare parole grosse, a vedere l’invisibile, a percepire cioè le condizioni di possibilità, materiali e morali nello stesso tempo, dello sguardo, di ogni sguardo, verso il mondo. Analogamente, e indirettamente, aveva rimesso in discussione la gerarchia di valori tra, per esempio, lo sviluppo di una città (sempre acclamato) e la sua cura (spesso negletta). A dispetto dell’irritante cartello che ci troviamo spesso davanti e che dichiara: “Stiamo lavorando per voi”. 

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