Empatia
Nel 2006, parlando agli studenti della Northwestern University a Chicago, Barack Obama stigmatizza l’esistenza di un “empathy deficit”. Il riferimento all’empatia come fatto positivo è assai frequente nei discorsi del presidente americano, mentre sembra quasi assente nel frasario del suo predecessore, George W. Bush. Tre anni dopo il primatologo Frans de Waal pubblica un libro L’età dell’empatia, e nel medesimo anno esce il libro dell’economista e futurologo Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia. Da quel momento in poi il tema si diffonde a macchia d’olio e diventa sempre più consueto parlare della capacità di immedesimarsi in un’altra persona fino al punto di coglierne i pensieri e gli stati d’animo. Ma cosa significa esattamente “empatia”? Perché e come è possibile “mettersi nei panni degli altri”?
Uno studioso di estetica, Andrea Pinotti, spiega in un ampio studio apparso da poco (Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Laterza), che il termine viene dal greco empatheia, composto da en, in, e pathos, affetto; tuttavia a noi moderni la parola arriva dal lessico tedesco: Einfühlung: ein, dentro, e Fühlung, emozione, equivalente dell’inglese feeling, termine che usiamo con una certa frequenza. Ma come si fa a capire l’emozione che c’è dentro l’altro? Dai segni esteriori, dalle espressioni del viso o degli occhi, dal tono di voce, dai movimenti delle mani e del corpo. Insomma guardando il “fuori” per capire il “dentro” dell’altro, un dentro che è altrimenti inaccessibile.
A introdurre nel nostro lessico questo termine sono stati due romantici tedeschi, J. G. Herder e Novalis che usarono il termine Einfühlung per spiegare la risonanza che gli oggetti estetici (opere d’arte, quadri, statue, poesie, ecc.) hanno nell’animo delle persone. Insomma, come ha ben inteso Obama, l’empatia richiede un assetto ricettivo, e insieme una virtù proiettiva, dal momento che capiamo gli altri a partire da noi stessi. Herder lo aveva scritto a chiare lettere: “Nel grado di profondità del nostro amor proprio sta anche il grado della nostra simpatia nei confronti degli altri, poiché in un certo modo possiamo sentire noi stessi solo negli altri”. La comprensione dell’altro avviene per via analogica.
S’appella all’empatia nei suoi interventi televisivi Roberto Saviano, e parla di empatia per spiegare il successo del suo ultimo libro Massimo Gramellini; e altrettanto potrebbero fare autori di canzoni di successo e di film di cassetta. Ma si tratta di un sentimento che attraversa tutte le culture in tutti i tempi?
Pinotti cita uno studioso giapponese della sfera emotiva, Takie Lebra, che spiega come nella sua lingua non esista la parola; quella che più si avvicina sarebbe omoiyari, che suggerisce l’identificazione con una condizione di vita migliore della nostra e non con lo stato sofferente di chi è messo peggio di noi. Bisogna però fare una distinzione tra “compassione” e “empatia”; la filosofa Martha Nussbaum in Intelligenza delle emozioni (il Mulino), spiega che l’empatia si prova prima di tutto in situazioni gioiose, mentre la compassione funziona solo nei confronti di chi si trova in uno stato negativo. Dunque, molti dei sentimenti empatici suscitati da situazioni si sofferenza si devono attribuire più precisamente alla compassione.
Detto questo, resta il problema da dove sorga l’empatia. Le neuroscienze ci hanno fornito da poco una spiegazione: i neuroni specchio. Giacomo Rizzolatti e i suoi collaboratori hanno rilevato l’esistenza di neuroni che permettono di comprendere i gesti degli altri proprio come se li stessimo compiendo noi; è quella che Vittorio Gallese ha chiamato “simulazione incarnata”. Ma se le cose stanno così, se tutti abbiamo i “neuroni specchio”, come spiegare azioni come quelle dell’attentatore dell’aeroporto di Burgas, di qualche giorno fa, o dello sparatore di Denver, durante il film di Batman, e gli altri terribili casi degli anni scorsi?
La domanda è cruciale e uno studioso di Cambridge, Simon Baron-Cohen, cerca di darci una risposta in La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà (Cortina), pubblicato in queste settimane. Vi sarebbero due tipi differenti di situazioni che contemplano un abbassamento a zero del grado di empatia presente nelle persone: una negativa e una positiva. Al primo gruppo, analizzato in dettaglio da Baron-Cohen appartengono i borderline, gli psicopatici e i narcisisti; mentre i primi possono commettere atti crudeli (lo psicopatico percepisce perfettamente quando fa il male), il terzo è solo fortemente egocentrico, ma non riesce, come gli altri due, a riconoscere l’importanza della bidirezionalità nelle relazioni. Al gruppo zero positivo appartengono invece coloro che sono affetti dalla sindrome di Aspenger, resa celebre dal film Rain man, e più in generale tutte le persone autistiche.
Questa parte dello studio dello psicologo suggerisce considerazioni interessanti sulla mancanza di empatia e sulla contemporanea capacità, che possiedono queste persone, d’analizzare solo una cosa per volta, in modo ossessivo, e spesso geniale. L’empatia richiede infatti di contemplare contemporaneamente, e ad alta velocità, punti di vista diversi e stati d’animo fluttuanti nel corso dell’interazione sociale. Non sempre noi tutti siamo così rapidi e capaci di sintonizzarci sulla lunghezza d’onda dell’altro. Forse, al contrario di quanto pensano i neuroscienziati, non basta la fisiologia, ci vuole anche un po’ di ideologia, ovvero di allenamento continuato e costante, offerto dalla società, all’altruismo introspettivo.