Riti di Antonio Biasiucci / Essere vicini nella sostanza delle cose

19 Luglio 2017

Quando si varca la soglia di entrata della mostra del fotografo Antonio Biasiucci, si entra in un altro mondo. Il tempo perde la sua consistenza, si dilata, diventa un luogo fisico tanto quanto la materia raffigurata nelle immagini. Tutto è più lento: si cammina a piccoli passi, non si percepisce il rumore dell’esterno, la luce è tenue. Si potrebbe dire di galleggiare in una sorta di penombra percettiva. Si è disorientati, il vuoto della percezione crea anche uno spazio in cui ogni elemento è spossessato della sua presenza, della sua struttura. Tutto è magma e nel magma ci si deve buttare come quando si impara a nuotare. 

 

È questo il primo passo del rito: misurarsi con un’immagine fotografica che si perde nei propri stessi contorni. La serie “Vapori” è la prima che si incontra. Si vede una mano alzata, un coltello, il dorso di un animale e poi la nebbia che avvolge la scena, quasi come se la penetrasse e ne fosse parte essenziale. Si tratta di un sacrificio, un gesto rituale, l’azione con cui il soggetto fotografato, viene tolto dalla condizione profana e consegnato a quella del sacro. Con l’uccisione del maiale, che nella cultura contadina significava anche nutrimento e socializzazione, il fotografo uccide una forma per reinventarne un’altra; il vapore attenua l’impatto della violenza necessaria affinché l’operazione si compia e tutto accade: si inizia a guardare nel vuoto dell’origine, là, dove le forme si squarciano e lasciano apparire la loro dissomiglianza.

 

Antonio Biasiucci, Vapori, Dragoni, 1983-1987.


Antonio Biasiucci, Vapori, Dragoni, 1983-1987.


Poi la nebbia scompare, si continua a camminare nella penombra e sulla parete appare un’opera composta da dodici parti: “Impasto”. Si vede una mano che smuove una massa informe eppure familiare. È la pasta del pane, elemento-alimento onnipresente. Il pane si spezza, si condivide, si mangia. Così da un gesto sacrificale unico ed esclusivo, come uccidere il maiale, il fotografo transita verso la ritualità quotidiana legata alla preparazione di un alimento essenziale per l’uomo. Predomina l’idea di una materia che non è facile da plasmare ed occupa interamente lo spazio dell’immagine. Vi si sovrappone. Guardare è impastare ciò che vediamo, è far nascere una nuova vita, come accade nella videoinstallazione “Corpo latteo”. 

 

Qui alcune sfere emergono dal magma dell’origine: un embrione di materia pronta a schiudersi è posta sotto lo sguardo proveniente dall’immagine di un immenso ex voto dalle forme femminili, proiettata sulla parete di fronte. Cos’è? Una mozzarella, un feto, un corpo celeste, una galassia, ma anche il “corpo latteo”, la fonte materna del nutrimento. Tutto si tiene: dal magma (una serie che Biasiucci realizza dal 1987 al 1985) si nasce e al magma si ritorna con forme del tutto nuove. I “Pani” e i “Crani” che chiudono la mostra, raffigurano nella loro semplicità, i due momenti essenziali di qualsiasi gesto creativo e di qualsiasi vita: la nascita e la morte, due forme della stessa materia originaria, nulla di più. Vuoti che ognuno di noi può colmare con il senso del proprio sguardo. 

 

Antonio Biasiucci, Corpo latteo, 2017, videoinstallazione.


Antonio Biasiucci, Ex Voto, Napoli, 2006.


È questo il rito di cui narra la mostra: “essere vicini nella sostanza delle cose”, come racconta Biasiucci, a proposito di un altro suo lavoro. E la sostanza delle cose è la medesima materia con la quale sono fatte e il rito con cui prendono forma. Fotografare significa condurre ogni soggetto all’istante della nascita, raccontare la storia della sua evoluzione e contemporaneamente conservare la traccia dell’origine nelle sue forme. “Io compongo tomi” dice Biasiucci, “mi servo della fotografia per tentare di scrivere un alfabeto dell’umanità, scegliendo i soggetti che ritengo fondamentali, le vacche, i pani, i vulcani”. Nulla è più identificabile, nulla appartiene ad una tradizione visiva imposta e assimilata, come il linguaggio che ereditiamo e che si sedimenta dentro di noi. Tutto può essere reinventato. 

 

E qui sta l’utopia: “mi dedico a una singola immagine, assoluta, e probabilmente morirò senza averne mai veramente colto l’essenza”, afferma il fotografo. Per questo nelle sue immagini egli cerca di rendere compresenti gli opposti: l’istante in cui “l’origine e la catastrofe convivono come nella vita di tutti i giorni”. Il risultato è spesso qualcosa che non si è mai visto, perché mai visibile senza l’atto fotografico, nel cui spazio riescono a convivere l’istante della creazione e quello della fine.

“Ci vuole un altro sguardo / Per dare senso a ciò che barbaramente muore ogni giorno”, recita l’attore Toni Servillo, leggendo un testo del regista teatrale Antonio Neiwiller che si può udire in mostra. Le immagini di Antonio Biasiucci esprimono la stessa idea: insegnano che ogni sguardo conserva qualcosa che appartiene all’origine, l’istante in cui tutto nasce e a cui tutto torna, bisogna solo “mettersi in ascolto”, avere il desiderio di cercare.

 

Antonio Biasiucci, Pani, Napoli, 2009-2011.


Mostra: “Riti” di Antonio Biasiucci, Università Iulm, dal 4 maggio al 28 luglio 2017.

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