Dario Fo, comico contro
L’avevamo cercato in maggio Dario Fo, noi di Doppiozero, per un’intervista sui maestri. Gli avrei chiesto chi sono i maestri oggi, sottintendendo che lui, scanzonato comico, politico sempre di traverso, artista capace di sbalzare con un movimento di ciglia un personaggio, un carattere, un misfatto, un maestro lo era, anomalo, simile a quegli spiriti che in certe tradizioni popolari si divertono a mettere tutto sottosopra e poi, magari, ti fanno scoprire un tesoro. La cosa si è trascinata: non stava bene, non riusciva a parlare. L’intervista è saltata. I timori per la sua salute, si erano però quasi diradati quando è apparso di nuovo in pubblico a Cesenatico (il buon ritiro suo e di Franca Rame) per presentare l’ultimo libro che aveva scritto e una mostra di disegni, su Darwin. E ieri se n’è andato, nella sua Milano, a 90 anni.
L’ultima volta che era salito sul palcoscenico era stato per raccontare un altro suo libro storico, di quelle sue storie dove i fatti vengono forzati con l’immaginazione arrivando probabilmente più vicino alla verità (a una verità) di quanto i nudi avvenimenti conosciuti consentano di fare. Si trattava della storia degli indiani Seminole e il libro era, condito come sempre di moltissimi disegni, La storia proibita d’America (Guanda). Aveva trovato sul palcoscenico del Duse di Bologna l’ambiente ideale non per iniziare una tournée (i 90 anni ormai non glielo consentivano), ma per registrare un dvd. Così aveva fatto per il libro su San Francesco qualche anno prima. Ormai perdeva qualche colpo, le battute arrivavano attraverso un auricolare nell’orecchio, ma era sempre lui, il vecchio leone: uno scatto, un gesto, e vedevi il mondo.
Raccontarlo oggi non è semplice. Bisognerebbe partire da quel suo paesotto tra i laghi e la Svizzera, zona di contrabbandieri e frontalieri, e, forse col senno di poi, affermare che quel suo mescolare, rubare, riciclare, inventare, quel suo grammelot e quella sua stralingua padana, nascono da quei luoghi, da quelle atmosfere umane di lotta per la sopravvivenza, di incroci. Bisognerebbe citare la fila interminabile di commedie e di farse che ha scritto, i testi politici, le canzoni, i saggi, le ricostruzioni, gli spettacoli dedicati al mondo popolare, e poi i quadri, le scenografie. E vederlo agitare le coscienze, dopo l’uscita dal Pci, dopo la rottura con Nuova Scena, l’associazione che nel ’68 aveva rotto con i teatri e portava gli spettacoli, con contenuti politici, nelle case del popolo, vederlo radicalizzarsi, affiancarsi alla sinistra extraparlamentare e fondare un proprio circuito alternativo, che riempiva di giovani, di studenti, di lavoratori, di quelli che all’epoca erano o si consideravano i ribelli.
Il teatro di Dario Fo prima intrattiene il pubblico borghese, quello che poteva permettersi il biglietto, poi lo abbandona, e con i Circoli La Comune inizia a parlare di omicidi di stato, come quello di Pinelli, di lavoro a domicilio, di fascismo e repressione, di lotte operaie, recupera il patrimonio popolare, in stanzoni lunghi e stretti, affollatissimi, magari sotto condomini, sotto palazzoni, come il Circolo la Comune di San Lazzaro di Savena, nella cintura bolognese, luoghi che oggi forse sono garage o supermercati. Lo vediamo, irruente, in quei suoi prologhi lunghissimi, che tiravano in ballo l’attualità politica, deformandola sempre comicamente, che trasformavano gli avversari politici in maschere caricaturali (il gobbo Andreotti), in caratteri che portavano inscritto nel fisico qualche deformità più profonda, le tarme, le trame, i segni corrosivi del potere. Lui caricava, smascherava, in veri e propri teatro-giornali, che spesso si appesantivano, un po’ forse (negli ultimi anni) si ripetevano: ma poi c’era sempre il guizzo, l’invenzione, e si partiva con lo spettacolo, Morte accidentale di un anarchico defenestrato, Il Fanfani rapito, Storia della tigre, Il diavolo con le zinne, eccetera eccetera.
Testi nati per la scena, ma raffinatissimi: pieni di tutti i trucchi antichi del teatro, riportati a una passione politica struggente e a una capacità unica di osservare di tralice la realtà, virarla nei suoi aspetti più grotteschi, con invenzioni fenomenali, oppure rivisitarla nelle sue radici profonde, antiche, popolari e colte, come in quel capolavoro di drammaturgia e poesia (e teatro, naturalmente), che è Mistero Buffo. Per questo, non senza polemiche, quella produzione drammaturgica ampia, rappresentata in tutto il mondo, gli valse il premio Nobel per la letteratura nel 1997.
Ma Dario Fo, per noi italiani, è stato soprattutto un grande attore. Come non ricordare la Palazzina Liberty a Milano, luogo alternativo, freddo e pieno di gente riunita per vedere spettacoli, discutere. E il Mistero buffo là davanti, o nei palasport, uno solo, un “giullare” un “comico dell’arte” che teneva incollati al suo racconto, ai suoi gesti, agli scarti delle mani, delle braccia, del busto, degli occhi, che subito creavano un personaggio o addirittura una folla. Entusiasmo. Partecipazione. Come nel suo intervento che chiuse il Convegno contro la repressione a Bologna, in piazza VIII Agosto, davanti a sessantamila persone, dopo i fatti del ’77.
Qualcuno parlava di cerimonie liturgiche, riservate a quelli che già erano convinti e lo vedevano come officiante di un rito politico. Ma poi Dario Fo, dopo l’interdetto seguito a una famosa Canzonissima dei primi anni ’60 in cui aveva osato parlare di morti sul lavoro (era una trasmissione d’intrattenimento del sabato sera nell’Italia democristiana!), nel 1977 era tornato in televisione, con i suoi testi, e in tanti lo avevano seguito, non solo della sua parte politica. E si era avvicinato per uno spettacolo a un altro attore di razza come Albertazzi, dal punto di vista ideologico su altri fronti, uniti dall’arte della recitazione, del trasformare la realtà in un concentrato di due ore in cui si va più dentro o più oltre le apparenze.
Lo abbiamo chiamato “giullare” (e il termine è stato usato in senso negativo per criticare l’attribuzione del Nobel a lui, così impastato nella “materia vile” del teatro), “comico dell’arte”, ma non era niente di tutto questo. Come i grandi attori italiani di fine novecento, di teatro, cinema e televisione, era nato nel varietà (ricordiamo Il dito nell’occhio, nel 1953, con Giustino Durano e Franco Parenti, regia di Jacques Lecoq). Aveva avuto la fortuna di sposare quella meravigliosa donna che era Franca Rame, una che aveva la fila di macchinoni di ricchi che la corteggiavano, e aveva scelto lui, con quei denti in fuori, con quelle orecchie da Dumbo. I due sono bellissimi in un film di Lizzani del 56, Lo svitato, girato in una Milano in (ri)costruzione, tra i cantieri, le gru, una corsa continua, con quel suo corpo allora magrissimo, allampanato, che sembra debba spezzarsi da un momento all’altro, con quel sorriso che ti cattura e ti rapisce. E non si erano più lasciati (salvo le normali liti, separazioni che la vita riserva), fino alla morte di lei, nel 2013. Aveva avuto, con Franca, la fortuna di incontrare la tradizione dei Rame, comici girovaghi da generazioni, con un baule di copioni, di farse. Varietà più tradizione “all’antica italiana”, più una penna felice, un senso dell’osservazione formidabile, una vorace voglia di sapere, un modo polemico, non acquietato di stare nel mondo. Questo era l’ultimo grande attore-scrittore del Novecento, della razza degli Eduardo De Filippo e dei Carmelo Bene, un uomo capace di effettuare sintesi e di riportarle a una tecnica teatrale affinata negli anni. Il giullare, il comico dell’arte se l’era inventato, come il suo padano mistilingue, come il grammelot, con quello spirito di certe canzoni (Ho visto un re, tra tutte), scritte con Jannacci (già, il cabaret milanese bisognerebbe ricordare), di recupero di tradizioni popolari dimenticare dall’Italia perbenista, moralista borghese degli anni ’50 e del boom; tradizioni usate, trasformate, adoprate come grimaldello per mettere in mutande il potere, attraverso invenzioni esilaranti, perché sempre, come recitava un manifesto che vendevano i suoi circoli La Comune, “una risata vi seppellirà”. Sempre contro, anche con le ultime posizioni di simpatia per i Cinque Stelle, contro il potere, contro chi lo gestisce senza rendere conto, chiuso nei propri simulacri. Lui, Dario Fo, è stato uno che dei simulacri ha mostrato il lato ridicolo, deforme, aprendoci infinite possibilità all’immaginazione di cambiamento.
Se n’è andato lottando, lavorando fino all’ultimo minuto, guardando, dai suoi 90 anni, avanti.
Gli chiedevo, in un’intervista che gli avevo fatto in gennaio in occasione dello spettacolo al Duse di Bologna su La storia proibita degli indiani d’America, se alla sua età non fosse stanco del palcoscenico. Rispondeva: “Meno male che riesco ancora a lavorare. Vorrei fare di più, andare in tournée. Sto scrivendo, disegnando, insieme alla mia équipe. Negli ultimi anni ho creato migliaia di quadri e fatto decine di mostre, dappertutto. Ho illustrato e raccontato tantissime storie”. E continuava: “Non ho rimpianti. Mi dispiace che non avrò il tempo di trattare argomenti che mi piacerebbe affrontare. Solo alla fine ti rendi conto di quanto poco tempo si abbia, di come gli anni volino. Vorrei ancora poter scrivere, dipingere, recitare, fare cose in maniera esagerata, ancora. Informare la gente sulle frottole che gli hanno propinato”.