Una grande antologica a Milano / Ferdinando Scianna, fotoreporter e artista

30 Marzo 2022

“È il suo fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà, una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa e il suo obiettivo si leva obbedisce proprio in quel momento, né prima né dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e – in definitiva – al suo stile”. Così ha scritto Leonardo Sciascia del modo di fotografare di Ferdinando Scianna, una definizione che ci porterebbe a iscrivere l’opera del grande fotografo siciliano dentro il solco del magistero di Henry Cartier-Bresson. In realtà più del suo amato maestro francese, Scianna è un fotografo di fotografie. 

 

 

Nell’ampia mostra di Milano, sua città di adozione (Ferdinando Scianna. Viaggio, racconto, memoria, a cura di Denis Curti, Paola Bergna e Alberto Bianda, fino al 5 giugno 2022 a Palazzo Reale), il fotografo siciliano si presenta così: “Come fotografo mi considero un reporter”. Fotoreporter significa “fotografo d’attualità” e in una delle didascalie della mostra scrive: “Il mio mestiere è fare fotografie e le fotografie non possono rappresentare le metafore. Le fotografie mostrano, non dimostrano”. Eppure poco lontano da questo testo c’è una fotografia di un combattente, un miliziano, ritratto di lato mentre punta il mitragliatore. Il punctum della foto è l’immagine religiosa incollata sul calcio dell’arma: raffigura una Madonna dolente e a occhi chiusi. Suona come: “Proteggimi!”; oppure: “Prega per me nell’ora della mia morte!”. 

 

 

Si tratta d’una immagine simile a quelle appese alle pareti delle case contadine e ci rimanda subito all’opera che ha rivelato Scianna come fotografo e l’ha fatto divenire amico di Sciascia: Feste religiose in Sicilia (1965). Certo in quel mondo arcaico del sacro, ritratto dall’ex studente di Lettere diventato fotografo, c’è qualcosa di remoto: nessun segno di modernità o di postmodernità, come invece nel caso dell’adesivo del miliziano. Le feste ritratte da Scianna recano il segno d’un rito collettivo; si tratta infatti di eventi sociali, là dove il miliziano è invece solo con la propria immagine-amuleto dentro le guerre postmoderne combattute in Libano, a Beirut, o nell’ex Jugoslavia, a Sarajevo, un ibrido d’antico e di neomoderno. 

 

 

Vedere sui muri del Palazzo Reale le fotografie pubblicate nel 1965, e leggere nel catalogo le frasi del fotografo siciliano, con la loro prosa secca e insieme preziosa, colpisce. Le feste, scriveva allora Sciascia presentando il volume di Scianna, sono “una esplosione esistenziale: l’esplosione dell’Es collettivo, in un paese dove la collettività esiste solo a livello dell’Es”; ed è solo nella festa che “il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io”. Viene fatto di domandarsi come ha fotografato il siciliano Scianna dopo quel fulminante esordio: con l’Es o con il Super-Io? Con entrambi, perché c’è in lui un continuo conflitto tra queste due istanze, come i cavalli platonici che tirano da parti opposte: razionalità e irrazionalità.

 

Forse per questo gli è venuto più semplice definirsi un fotoreporter, dal momento che in questo mestiere ciò che conta è cogliere il caos del mondo, la sua natura fortemente pulsionale ed entropica, guardandolo con l’occhio di una supposta razionalità. Scianna corrisponde alla condizione di uomo solo, vera ossessione dello scrittore di Racalmuto intriso di pirandellismo. C’è da dire che però Scianna questa solitudine del siciliano l’ha trasferita sui suoi soggetti, sulle persone che fotografa, in particolare nei ritratti, tra cui spicca quello bellissimo di Roland Barthes colto mentre aspira il sigaro acceso tra le labbra. La sua mano in primo piano ricorda i corrugamenti di certi paesaggi ritratti dal fotografo di Bagheria, la loro natura terrosa. 

 

 

La mostra si apre con quello che è il capolavoro di Ferdinando Scianna: l’opera Quelli di Bagheria. Il libro, pubblicato la prima volta nel 2002, raccoglie molte delle fotografie scattate dal giovane Scianna prima di diventare ufficialmente il fotografo che conosciamo, un libro che giustamente Goffredo Fofi reputa uno dei documenti più potenti della vita italiana del Novecento, un documento che va accostato a Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini, per quanto l’autore delle fotografie sia anche l’autore delle parole – Scianna è stato giornalista ed è uno scrittore di brevi storie. Bagheria è il luogo amato e odiato, il paese da cui Scianna se ne è andato, ma che ha portato dentro di sé in ogni momento della sua vita. In ogni foto che ha scattato, in ogni persona che ha ritratto c’è sempre l’ombra di quelli-di-Bagheria. Così come i paesaggi, i luoghi del mondo lontani dalla Sicilia dove è nato, sono nient’altro che il prolungamento di quel paesaggio archetipico. 

 

 

Quelli di Bagheria appare come una risposta alle frasi scritte da Sciascia riguardo la condizione del siciliano. Scianna ha senza dubbio fotografato per uscire da quella solitudine, il cui alone tuttavia si scorge in tante immagini esposte sulle pareti del Palazzo Reale. Bagheria esiste perché l’ha fotografata Scianna o perché c’è davvero? La struggente fotografia del bambino con la giacca, che apre il catalogo della mostra, cosa rappresenta? Un autoritratto immaginario dell’autore? La Bagheria di Scianna non esiste più, se non in questo libro punteggiato da ricordi tradotti in rapide frasi: fotografie di fotografie. Il volume è un perfetto iconotesto, come si dice oggi con una brutta parola, uno dei più importanti della storia letteraria del XX secolo. Per trent’anni Scianna ha conservato in una cassetta di legno le foto di Bagheria, i suoi primi scatti. Sapeva che c’erano: le aveva dimenticate senza dimenticarle, come scrive, fino a che ha realizzato il libro, partendo dal tesoro rimosso. La fotografia per Scianna è un modo per raccontare.

 

In esergo al libro ha posto una frase di Ernesto De Martino: “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere una esperienza cosmopolita”. Ha abitato a Parigi, ha viaggiato in molti paesi del globo, eppure, nonostante le foto fatte in tante città, sono i piccoli paesi, i luoghi raccolti, che lo coinvolgono e che racconta con più passione. Kami, il villaggio posto nelle montagne della cordigliera delle Ande boliviane, a 5800 metri d’altitudine, è uno dei capitoli più belli dell’esposizione e comprende uno dei ritratti più belli della sua intera opera fotografica: il giovanotto con il cappello in testa. Il viso affilato che pare concentrarsi nel naso, la carnagione scura, gli occhi rivolti verso il basso: è l’immagine stessa del pudore, della timidezza, e insieme esprime un dolore soffuso eppure acuto. Il cappello che indossa è un totem, il suo emblema, è il mondo intero, che sormonta il capo come la corona per un re. Kami come Bagheria: tutto in un punto. Tutto si diparte da quel punto per irradiarsi, fotografia dopo fotografia, verso l’universo intero. Nel microcosmo c’è il macrocosmo, ma non alla maniera dei filosofi rinascimentali, non è l’uomo trionfante, piuttosto Scianna raffigura gli umili. Persino le fotografie di Marpessa, la bellissima modella a cui si è legato il suo lavoro nella moda, la riportano alla dimensione d’una ragazza: si sistema i capelli nella camera da letto dei genitori, s’aggiusta il reggiseno sotto l’ovale della Madonna. 

 

 

Che fotografo è Ferdinando Scianna? Un “umanista”, visto che lo interessano gli uomini e le donne, ma anche gli oggetti, che fotografa come se fossero esseri umani. Un fotoreporter, come sostiene? Certo anche questo, come ha scritto Sciascia. Scianna è prima di tutto un artista. Per via della sua attenzione spasmodica allo stile e alla forma. Dipinge con il bianco e il nero, il chiaro e lo scuro. Non fa fotografie artistiche, piuttosto fa arte con la fotografia. La valenza artistica del suo lavoro fotografico è un aspetto che Scianna ha sempre respinto, come se lo mettesse a disagio, come se dovesse misurarsi con qualcosa verso cui prova timore: l’artista può sbagliare più facilmente del fotoreporter? “L’istantaneo magnetismo”, di cui scrive scritto Sciascia, è il suo modo per risolvere questo imbarazzo: si lancia e afferra al volo con l’aiuto della macchina fotografica la realtà. Tuttavia non è mai la ricerca dell’istante perfetto alla Cartier-Bresson, perché quello che coglie – le uova poggiate su un telo al mercato oppure uno straccio sporco di terra – non è qualcosa che fugge e che perciò l’obiettivo del fotografo deve essere rapido per coglierlo. Nessun istante è perfetto per Scianna, e nel contempo tutti lo sono. Quello che conta è che la fotografia fissi qualcosa della forma che ha visto dentro l’obiettivo della sua macchina fotografica, per quanto poi questa forma appaia informe, regolata da arcani principi armonici. La sua bravura è semmai quella di ricondurre tutto a un suo ordine per farlo durare nel tempo. Questa è per lui la fotografia: estensione temporale. 

 

 

La fotografia è per Scianna un gesto apotropaico, un modo per far resistere l’effimero che lo circonda. Da vero siciliano sa che nell’Es, forza potente della vita, slancio e azione, agisce anche la forma opposta, quella disfa e abbatte: la morte. La fotografia più bella esposta a Milano è un ritratto di Leonardo Sciascia. Ferdinando Scianna ne aveva parlato in diverse occasioni senza mai esporlo. Scattato nell’ultimissimo periodo di vita dello scrittore a Milano, in via Solferino, nella casa dove alloggiava per curarsi ospite di Elvira Sellerio, è una fotografia che probabilmente Scianna non avrebbe mai scattato, se non fosse stato Sciascia stesso a chiederglielo. Mi hai fatto tante foto, gli avrebbe detto Leonardo, perciò fammi anche questa, In canottiera, i capelli rasati cortissimi, Sciascia guarda in macchina con gli occhi leggermente socchiusi: perplesso ma anche indomito. Ha rinunciato alla sua consueta ironia per affrontare ciò che l’attende. Un gesto siciliano come pochi altri.

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