Clorofilla / Dalie, gli ultimi fuochi d’agosto
Che si diano casi di body shaming pure per i fiori? State a sentire:
Cortigiana dal seno duro, dall'occhio opaco e bruno
che lentamente si apre come quello di un bue,
il tuo gran torso splende come un marmo nuovo.
Fiore grasso e ricco, nessun aroma fluttua
intorno a te, e la serena bellezza del tuo corpo
svolge, opaca, i suoi accordi impeccabili.
Non odori neppure di carne, quel sapore che almeno
emanano le donne che rivoltano il fieno,
e troneggi, Idolo insensibile all'incenso.
– Così la Dalia, regina vestita di splendore,
solleva senza orgoglio la sua testa inodore,
irritante tra i provocanti gelsomini!
Non proprio dei complimenti. Se fossi una dalia mi offenderei. Questo Verlaine screanzato, che le dà della grassa cortigiana, poteva almeno apprezzare il suo contributo ai giardini quando l’estate declina verso l’autunno. Certo, la dice anche «regina vestita di splendore», ma entro una rete di epiteti tutti giocati sul contrasto ossimorico. Fin da quell’«opaco» dell’occhio bovino in evidenza al primo verso – aggettivo poi ribattuto al centro del componimento – cui poco giova lo splendere del marmoreo torso. E il tono, poi, sempre sul crinale dell’insolenza!
Non che tenga in modo particolare alle dalie. Con tutto quel che c’è da fare in giardino, il fastidio di dover dissotterrare i tuberi dopo la fioritura non me le rende simpatiche quanto le erbacee perenni che ad ogni stagione rispuntano puntuali. Dove l’equinozio settembrino porta il freddo, le dalie sono perenni solo sulla carta. Ogni tanto però me le concedo lasciandole alla prova dell’inverno. Preferisco quelle dalla foglia bruna con semplice corolla, specie se occhieggianti tra le salvie. Quest’anno ho provato a mescolare le più alte con gli anemoni giapponesi, sperando in una buona convivenza.
Originarie del Messico – indimenticabili quelle in bella mostra al mercato dei fiori di Xochimilco – le cocoxochitil come le chiamavano gli Atzechi giunsero in Spagna solo a fine Settecento. Fu Don Antonio Josef de Cavanilles (1745-1804), che dirigeva i giardini reali di Madrid, a battezzarle in onore di Andreas Dahl, il collega svedese allievo di Linneo. Nel 1804 arrivarono in Germania dove le rinominarono Giorgine per dar lustro a un altro botanico, Johann Gottlieb Georgi e Goethe le accolse nel suo giardino sul retro della casa affacciata sul Frauenplan a Weimar, ora sede del Goethe Nationalmuseum. Come è capitato ad altre essenze floricole, anche le dalie divennero oggetto di culto, con scambi internazionali e acquisti di tuberi tra gli appassionati a peso d’oro.
Appartengono alla famiglia delle Asteraceae (la vecchia denominazione era Compositae) e sono propriamente un’infiorescenza, ché i capolini sono formati da un involucro a doppio giro di brattee e da flosculi, che chiamiamo erroneamente petali. Gli esterni sono ligule femminili o sterili, che possono essere piatte o incurvate, i centrali sono fiori tubolari e ermafroditi.
Facili all’ibridazione, sono migliaia e migliaia le varietà in commercio, esito per lo più dall’incrocio delle originarie D. coccinea e D. pinnata, entrambe a corolla semplice, e dalla D. variabilis da cui le decorative come le D. pompon – impeccabili (direbbe Verlaine) nei geometrici giri fitti di ligule – o le più grandi D. cactus dalle lunghe ligule frastagliate, curve o strette e appuntite. Sono catalogate dall’International Register of Dahlia Names in base alle fogge dei capolini e all’altezza del fusto, dai pochi centimetri delle nane ai cinque metri della D. imperialis fino ai sette della D. excelsa. Quanto ai colori, la palette è assai varia: dal bianco puro al rosso carminio fino al burgundy, passando dala delicatezza delle sfumature lavanda e dai rosa accesi, dal giallo tenero agli aranciati più solari. Per nulla dire delle striature e delle combinazioni bicolori a contrasto.
Un ulteriore pregio delle dalie è il lungo periodo di fioritura, che può andare dalla primavera inoltrata all’autunno; ma agosto e settembre sono i mesi giusti, quando il giardino può giovarsi dei loro sprazzi di colore quanto il cielo dei fuochi d’artificio di fine estate.
Come la zinnia, con cui condivide l’origine messicana, la dalia è stata più essenza da verziere che da giardino, coltivata per i fiori da taglio con cui abbellire gli interni di casa. Entrambe infatti spuntano in più d’una poesia di Andrea Zanzotto, il poeta che elegge a ragione di canto il luogo natale, Pieve di Soligo, paese di orti e pomari. Qui «dalie e campanule / e pioppi e astri sfarfallano» (Dove io vedo, in Vocativo), si accendono «dolenti barbagli / di dalie» (Ineptum, prorsus credibile, II, sempre in Vocativo), e i bimbi «scendono dalla casa cui l’ape e la dalia/ fanno lustro sempre più dimesso» (Ecloga IX).
Per restituire alla dalia ciò che Verlaine non le riconosce, chiudo con due prelievi zanzottiani. Sono i primi versi di Colloquio nella raccolta del 1957 Vocativo, e uno stralcio dalla seconda sezione di Alla stagione (La Beltà, 1968), giusto per mostrare come a distanza di un decennio l’accoppiata floreale dell’estate che va smorendo sovvenga stabile alla mente e agli occhi del poeta.
Colloquio
Per il dolce autunno
per gli scolorenti
boschi vado apparendo, per la calma
profusa, lungi dal lavoro
e dal sudato male.
Teneramente
sento la dalia e il crisantemo
fruttificanti ovunque sulle spalle
del muschio, sul palpito sommerso
d’acque deboli e dolci.
Alla stagione II
E ti chiudi nei tuoi grandi colori
e i colori nelle grandi ombre
e porti via te stessa
e me e non-me nell’alta involuzione
pregio di un silenzio:
cui s’appone l’ardore di un rumore
fragilissimo o il cammino di una madre-mamma
tra le dalie e i crisantemi
lacunosi leggermente imprecisi e scalpito
d’animaletti con carrettelle e sistri
appena in incidenza quasi per una svista.