Una mostra ad Astino / Guido Guidi. Cinque viaggi
Si intitola Cinque viaggi (1990-1998), la mostra di Guido Guidi, a cura di Corrado Benigni, tutt’ora in corso presso il Monastero di Astino a Bergamo. Sulla copertina del catalogo il fotografo ha disegnato un intreccio di linee: sono il fiume Adda, che segna i confini tra Bergamo e Milano, il tracciato dell’Autostrada A4, le Tangenziali Est e Ovest di Milano, l’Autostrada che va a Genova, l’Autostrada del Sole e la Milano-Laghi.
Si pensa subito al Viaggio in Italia ed anche alle Esplorazioni sulla Via Emilia a cui Guidi ha partecipato. Da allora l’Italia non è più stata quella dei monumenti famosi, delle cartoline, dei panorami, ma un paesaggio “emarginato, escluso, (…) dell’ambiguità, del finto, del doppio”, un’Italia “sostanzialmente esclusa, (…) che però è anche la sola che noi conosciamo, comprendiamo, viviamo perché è la sola che possiamo considerare in diretto rapporto con la nostra dissociata esistenza”, scrive Quintavalle, o un insieme di luoghi che si vedono solo “quando sbagliamo strada o siamo smarriti o stanchi”, ricorda vent’anni dopo Gianni Celati.
Ma se le copertine dei due volumi con le cartine del Belpaese (una di esse è capovolta) sembravano racchiudere l’idea di un Paese reale, sebbene costituito anche da zone rimaste fuori dallo sguardo e dagli obiettivi dei fotografi, con la copertina del catalogo, Guidi compie un passo ulteriore. Sopra uno sfondo grigio, neutro, la mappa viene sostituita da semplici incroci di linee che circoscrivono un luogo, ma sembrano suggerire allo stesso tempo che si tratta di uno spazio privo di consistenza. Se già al tempo del Viaggio in Italia le sue foto si inserivano in sezioni intitolate “Ai margini”, “Sulla soglia”, “Nessuno in particolare”, con Cinque viaggi Guidi porta alle estreme conseguenze un percorso iniziato quasi quarant’anni fa. I margini dello spazio, del fotogramma, dell’esistenza, diventano i protagonisti assoluti delle sue fotografie.
La mostra si compone di sessanta forografie scattate nell’ambito di due importanti progetti pubblici di documentazione, Archivio dello spazio e Milano senza confini, e di altre sinora mai esposte né pubblicate; il catalogo edito da Mack ne contiene centrotrenta. I Cinque viaggi sono tenuti assieme da una radice comune di via, che non è la strada, lo spazio in cui avviene il movimento, in cui fluisce il traffico o quello che unisce diversi punti. La via è il modo, la maniera di guardare attraverso l’obiettivo e i cinque viaggi, quindi, non sono cinque destinazioni diverse fatte con lo stesso mezzo, ma cinque diversi mezzi che hanno in comune la destinazione.
I numeri utilizzati per contrassegnare i viaggi sono ottenuti simulando vecchi timbri, strumenti di reiterazione di segni già definiti, tracce lasciate da qualcuno che c’è stato prima. Ma un timbro, come la fotografia, nasce dal negativo; un innocente segno grafico ci avverte che il risultato finale non è necessariamente quello che ci si può aspettare e che lo stesso timbro usato due volte ci restituisce simboli solo apparentemente uguali.
Il primo viaggio inizia con il Naviglio. La prima foto fa da prologo: un palo divide il corso d’acqua e il piano stradale, una natura addomesticata e una cultura rinselvatichita. Poi la visione ortogonale è bandita a favore di diagonali che tagliano il fotogramma in due porzioni equivalenti. La successione delle foto replica corsi d’acqua sovrapponibili a strade asfaltate, pannelli metallici e muri di cemento al posto di ripe di fiume e filari di alberi. Un guard rail corre parallelo alla curva di un binario di ferrovia, lo stesso fa un sentiero di terra battuta al margine di un’ansa di fiume. Queste “vie”, d’acqua o di terra non si sa dove portino, il fotografo ce ne mostra solo una porzione o ci avverte, ironicamente, con una freccia sulla strada, la direzione del flusso. Un gruppo di persone, ferme alla fine di un ponticello, sembra ignaro sul da farsi, o lo sa ma si mostra indifferente. Quelle linee oblique non possono condurre in nessun luogo, riescono solo a perpetuare la loro insistente presenza.
Truccazzano, Corneliano Bertario, Albignano, sembrano nomi inventati. Se Manganelli si chiedeva Esiste Ascoli Piceno?, in questo secondo viaggio Guidi realizza con certezza l’esistenza di questi luoghi, ma non ne fornisce elementi di identità. Il bambino in bici potrebbe essere uno scugnizzo, e la facciata della chiesa non è abbastanza singolare da poter essere distinta da migliaia di altre simili. L’elemento umano, che qui compare, ci ricorda che queste erano terre dove si produceva. Balle di fieno e granaglie dentro cassoni di cemento armato, con il disegno di una scala graduata per sapere immediatamente la quantità accumulata e una scaletta per accedere alla sommità del silo. Cancelli chiusi, portoni aperti e porte murate sono lo scenario in cui si muove chi, ancora, si aggira per paesi che forse esistono, ma più non resistono.
Nel terzo viaggio gli umani non ci sono più se non come relitti casuali di paesaggi che prediligono luci, colori e superfici. Diurni ariosi squarciati da lembi di sole, tinte che si caricano man mano che il sole avanza, la stessa porzione di muro fotografata prima da un estremo e poi dall’altro: il fotografo ci provoca a cogliere le differenze, come in una rivista di enigmistica, ci costringe a valutare, a soppesare, a interrogarci sulle sue scelte e sulle loro conseguenze. Muri scrostati, passaggi successivi di materiali di consistenza e colore diversi raccontano di interventi occasionali di manutenzione in attesa di una soluzione ottimale che, ben si capisce, non ci sarà. L’effetto è di un poetico squallore.
Guidi, intervistato da Sabrina Ragucci, parlando del processo di sviluppo di un’immagine, rivela un dettaglio decisivo per la comprensione del suo modo di osservare il mondo: “in quel caso tutto il processo mi aveva fatto entrare in una specie di risonanza. Non so se sono stato chiaro, ma tu hai capito, vero? Anche se la fotografia in sé, dal mio punto di vista, ha a che vedere con Eco e non con Narciso. L’ecolalìa. Ma alla fine i due miti non sono così distanti”.
La ninfa Eco è stata condannata per il suo insistente chiacchiericcio, la sua futilità, perché è stata complice di una finzione: nelle foto di Guido Guidi non vi è un solo dettaglio che non sia crudo, vero, essenziale. I margini dei fotogrammi non incorniciano, ma tagliano di netto cose che ne usciranno e forse proseguiranno altrove. Ma, soprattutto, Eco è condannata a ripetere le ultime sillabe di un discorso perduto. Eco è il frammento terminale. Occorre tutta la pazienza e il rigore di un filologo, o di un archeologo, per ricostruire, da poche tracce, un insieme organico che abbia senso.
Guido Guidi fa esattamente questo: ci propone una voce flebile e deformata e ci invita ad ascoltarla come una sinfonia, ci mette davanti schegge di metatopografie, non luoghi con accenni di segnaletica, e ci sfida a ricostruire un paesaggio che non esiste più. L’eco è esattamente lo scarto tra il simile e l’identico, tra due scatti in momenti diversi o con un minimo spostamento dell’obiettivo. L’ecolalìa, di cui Guidi si autoaccusa, è l’ostinata insistenza di una voce inascoltata e che sa di essere inascoltabile. Ma è proprio grazie al muro di sordità e alla distanza tra le immagini dei viaggi e chi guarda che si produce l’eco.
L’eco aiuta a capire alcuni degli elementi che caratterizzano le foto di Guidi, sin dagli spazi vuoti di Preganziol e della Tomba Brion con l’alternarsi di luci ed ombre. Perché si producano i suoi slittamenti quasi infinitesimali c’è bisogno di uno spazio. Ed è lo spazio privo di coordinate che si percepisce guardando le sue immagini. Nel vuoto si produce il senso. Il vuoto è indispensabile affinché possano avere luogo le variazioni, di tempo, di spazio, di luce. Non c’è modo di evadere dai fotogrammi di Guidi. Sono talmente “vuoti” e silenziosi che l’osservatore ne viene risucchiato. Non è un caso che per Guidi fotografare è prendersi cura dei suoi soggetti. Una specie di democrazia visiva dove ogni più piccolo dettaglio merita di avere un posto.
Nel quarto viaggio protagonista è la luce. La luce naturale illumina in modo diverso gli edifici, segnando di fatto un mutamento di tempo e di spazio, e sembra rimbalzare da un lato all’altro del fotogramma, come se spezzasse la circolarità del suono, l’inevitabilità della sua “risonanza” e proponesse una via di fuga. Sperimentata, coltivata, si potrebbe dire, in spazi raccolti, interni di edifici, corti, cortili. È una luce morbida, a volte radente, che riscalda porte e usci di casa. Ma, anche qui, la presenza umana si può intuire solo da radi indizi: auto, segnaletica industriale, casse impilate di acqua minerale. L’ombra di un cane, un cane e residui di neve che hanno perso il loro candore, anch’essi riscaldati dal sole fanno pensare al rimpianto di una comunità al cospetto di quella che appare una Wüstung.
Il quinto viaggio è interamente dedicato a Milano. Si ha l’impressione che la periferia milanese e la stessa città siano disabitate. Non tanto abbandonate a loro stesse, ma come se gli abitanti fossero dentro le case ermeticamente chiuse o in un luogo che il fotografo sceglie di non mostrare. Qui l’ecolalìa si trasforma in una vera e propria coazione a ripetere. Milano è un corpo smembrato: piloni di sottopassi, angoli di strade, edifici dove si perpetuano riflessi di luci e di ombre, vicoli di cui non si intravede la fine. Ma soprattutto rimbomba un dettaglio ripetuto sino all’estremo sfinimento: le finestre chiuse sulle facciate degli edifici. Come tanti occhi serrati, perpetuano l’idea di uno spazio senza coordinate, ma sono anche indici di uno sguardo che non si rivolge verso l’esterno.
Aprire una finestra è un atto inaugurale, quello con cui sarà possibile “guardare la storia”. Scrutare dalla finestra vuol dire aprire uno sguardo sul mondo, nel tentativo di sfuggire alla propria solitudine. L’insistenza di Guidi sulla finestra chiusa, rimanda ad uno spazio interiore e mentale, non è la matrice albertiana da cui si dipanano tutte le storie. Alla finestra come apertura, si contrappone la finestra che accoglie lo sguardo dall’esterno, dentro la camera oscura, dentro il farsi dell’immagine. Oppure la finestra è uno schermo, luogo di tutte le possibili storie, in quanto superficie neutra e virtuale. Come dice Guidi: “nella fotografia come nella pittura del Rinascimento, l’inganno prospettico è sempre presente. La prospettiva mostra la profondità ma anche la negazione della profondità, cioè la superficie”.
La “postura del leggero protendersi in avanti che la grande macchina su cavalletto richiede”, come dice Roberta Valtorta, costringe Guidi a un’immersione nella realtà fisica. Allo stesso modo del grande formato della lastra 20x25 che non esige alcuna alterazione se non la semplice stampa. Dunque allo spazio dell’eco, della risonanza, di una tonalità bassa e cupa, degli slittamenti, delle ombre e delle luci che passano da un’immagine all’altra, Guidi oppone una sorta di “aderenza” al reale, una fedeltà ostinata che si protrae da sé al soggetto. Guidi non si arrende all’idea di fotografia come luogo in cui si annidano i fantasmi, le apparenze e gli attimi già passati, il “ça a été” di Barthes.
Osservando le sue foto ci si ritrova a pensare che Guidi condanna se stesso al proprio sguardo. C’è, tuttavia, in questa condanna anche la sua assoluzione: una coerenza indistruttibile, o meglio, incrollabile come lo spazio che costruisce intorno a sé e al cui centro si pone come il custode di un luogo quasi inaccessibile.