Martina Parenti e Massimo D’Anolfi. Il castello
L’attività critica non dovrebbe limitarsi alla considerazione dei film che escono in sala, assecondando un sistema che sembra ormai fare a meno della sua funzione o inglobarla nelle proprie strategie comunicative; a volte dovrebbe impegnarsi a costruire uno spazio di visibilità alternativo, che metta a fuoco ciò che è sfuggito alla miopia della distribuzione. Per questo la recensione di Odeon questa settimana è dedicata a un film che molti purtroppo non potranno vedere, dato che per ora esce eccezionalmente in un’unica sala a Milano, ma che proprio in ragione di questa eccezionalità ci è sembrato importante segnalare.
Il castello è il titolo programmaticamente kafkiano che Martina Parenti e Massimo D’Anolfi hanno dato al loro documentario sullo scalo internazionale di Malpensa, nel quale esplorano la soglia di visibilità di un potere pervasivo e sfuggente come quello che tiene sospeso l’agrimensore K. L’aeroporto come frontiera cruciale della contemporaneità, diaframma vitreo e impersonale che accoglie e respinge, si riempie e si svuota, attraversato da flussi anonimi ed effimeri e amministrato dalle procedure cicliche che li intercettano, confiscano e analizzano. L’incontro tangenziale che tutti possiamo fare con questo apparato di controllo è sottoposto a una dilatazione straniante che ne fa il campo d’indagine del film: lo stato di eccezione osservato nella quotidianità delle sue pratiche, mappando luoghi e figure di un “laboratorio permanente sulla sicurezza”, dove la biopolitica diventa ordinaria e capillare amministrazione, che sospende libertà e identità, scandaglia i corpi e le merci che l’imperativo della sorveglianza mette a completa disposizione dei controllori.
Un anno di appostamenti e paziente osservazione in aree normalmente inaccessibili viene decantato in quattro movimenti, articolati sul passare delle stagioni e su altrettanti luoghi e momenti emblematici: arrivi, sicurezza, attesa, partenze. Il castello è una sinfonia che procede per sequenze corali di contemplazione astratta e affondi nella drammatica concretezza dei destini in gioco, alla ricerca della giusta distanza da cui osservare la nudità dell’individuo di fronte alla legge, senza concedersi comode prese di posizione, ma collocandosi nella tensione di questo confronto. Uno sguardo teso e fluttuante che si muove tra vasti spazi deserti e loculi affollati, con aperture visionarie e una sospensione poetica sulla figura di Milietta, che vive all’interno dell’aeroporto, appropriandosi dei suoi interstizi per instaurarvi uno spazio umano e abitabile: un cuore di sommessa resistenza all’opprimente senso di espropriazione che pervade il film.
Il castello rende visibilmente concreta e politicamente pregnante l’impressione di alienazione che viene spontaneo associare a quell’archetipo del “non-luogo” che è l’aeroporto, ne fornisce un fuori-campo rivelatore, restituendo alle immagini quel senso di smarrimento e d’inspiegabile fatalità, la paura di un pericolo sconosciuto e imminente che, nonostante l’abitudine, emana dalle procedure a cui ci sottopone. Mostrandoci il rovescio dell’aeroporto, il film dimostra la necessità ‘istituzionale’ di questa sensazione, complemento dell’ossessione securitaria di fronte alla quale, come dice Giorgio Agamben, ogni cittadino è un terrorista in potenza.
Come i corpi e le storie che racconta sospesi su questa soglia, il film si trova in una situazione altrettanto paradossale, la stessa di molti film indipendenti il cui coraggio e la cui coerenza vengono riconosciuti e premiati in festival nazionali e internazionali, ma che non trovano il minimo sbocco nel circuito italiano. Ai tanti deficit di sistema, nel caso specifico del documentario si aggiunge l’idea asfittica e ammuffita che di esso dimostrano coloro che dovrebbero sostenerlo, una concezione che si lascia sedurre solo dal rassicurante contenutismo o dal sensazionalismo e forse nemmeno sospetta come il cinema documentario sia uno dei luoghi critici in cui si interroga e si elabora lo sguardo contemporaneo. Mentre in molti altri paesi la televisione resta essenziale per i documentari come sostegno economico e come garanzia di visibilità, la produzione televisiva italiana si trova spesso nell’imbarazzante posizione di finanziare opere che poi si guarda bene dal mostrare e promuovere sui propri canali: così è stato anche per Il castello, prodotto col sostegno di Rai Cinema e rifiutato dal programma Doc3, uno dei pochi spazi che la tv pubblica concede ai documentari.
E così, nonostante sia stato tra i documentari italiani più selezionati e premiati del 2011 (premio speciale della giuria agli Hot Docs di Toronto, all’EIDF di Seoul e nella sezione Italiana.Doc del Torino Film Festival, per citarne solo alcuni), Il castello è giunto al 2012 senza nessuna prospettiva di distribuzione. Per fortuna il cinema Mexico di Milano, grazie all’interessamento della rivista online Filmidee, ha salvato il film da questa immeritata invisibilità, concedendogli una finestra nella sua programmazione: una presenza timida ma significativa nell’ottica di un cinema resistente non solo nei suoi contenuti e nelle sue forme, ma anche nella capacità di ritagliarsi uno spazio vitale tra gli implacabili ingranaggi del mercato.
Il castello di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi: da lunedì 19 marzo al cinema Mexico, via Savona 57, Milano. Lunedì 21.30 – tutti i giorni 14.30 (escluso giovedì).