Il lungo viaggio di Primo Levi
Anticipiamo due brani dall'ultimo libro di Frediano Sessi che ricostruisce le settimane che videro Primo Levi passare dalla scelta antifascista alla lotta partigiana.
Primo brano dal capitolo 4. I ribelli di Brusson-Arcesaz pp. 48-50
«Eravamo in dodici [sappiamo che il numero degli uomini in banda non è così certo], Guido sarebbe diventato il nostro capo banda perché era più anziano di noi e aveva un po’ più di esperienza e una coscienza antifascista. Ci davamo d’attorno viaggiando tra la Val d’Aosta e Torino a prendere contatti, soldi armi, non siamo riusciti ad avere quasi niente, soltanto un po’ di soldi. Gli antifascisti di valle ci davano qualcosa per comprare da mangiare, un paio di scarpe. Eravamo degli sprovveduti, io ho sparato un solo colpo di rivoltella, perché Aldo che aveva sei proiettili ha detto: sprechiamone uno». Qui ritorna il giudizio pesantemente negativo di Levi sulle settimane in banda. Ma ancora una volta manca una spiegazione credibile, una ragione per togliere valore morale e politico alla scelta di combattere insieme ad alcuni altri contro fascisti e tedeschi. Scelta difficile, controversa e alla fine obbligata ma coraggiosa: necessaria. Perché allora, trascurarne l’importanza, svalutarne il significato e le conseguenze?
«Nella valle accanto, sotto Brusson – continua Levi-, c’era la banda di Piero Piero, una delle macchie nere della Resistenza, una banda di banditi di fatto, che faceva la Resistenza per conto proprio, aveva assalito la caserma della milizia a Ivrea nel novembre del 1943 e avevano portato via parecchia roba. I fascisti hanno organizzato un rastrellamento, 300 uomini su per la valle, per acchiappare la banda e hanno trovato noi. Era il 20 dicembre.»
Ora, è pur vero che lo stesso Primo Levi richiama spesso nei suoi scritti “la scarsa affidabilità dei ricordi” che tante volte crescono in noi “incorporando lineamenti estranei”; ma in questo ultimo brano della sua testimonianza gli errori sono parecchi, a cominciare dalla data del grande rastrellamento (avvenuto come vedremo nella notte tra il 12 e il 13 dicembre), fino al nome del comandante della banda di Brusson-Graines-Arcesaz, per non parlare del giudizio impreciso e impietoso sulla stessa come “macchia nera della Resistenza”.
Un grumo nero, di dolore, antecedente la sofferenza in lager, chiude la strada del testimone alla verità fattuale.
Siamo dunque sempre davanti a una porta che non si apre. Ma non disperiamo. Ad Auschwitz Primo Levi impara, giorno dopo giorno, a convivere con il dolore. Lo dichiara spesso: “Auschwitz è stata la mia università”. Al ritorno, quella storia terribile scorrerà come un fiume in piena; e troverà un cuore ferito pronto al racconto come forma di giustizia e conoscenza, monito. Ma il primo grande dolore, quello lascia tutti sgomenti e trova impreparati quegli uomini che non avevano mai pensato alla violenza come a una delle modalità di risolvere le controversie. È lì ancora come un grumo incistato che non si scioglie. Taciuto solo in parte, grazie alla forza evocativa della scrittura letteraria di Levi. Mai negato. Eppure, mai raccontato.
Secondo brano dal capitolo 6. La tragedia di Frumy, pp. 80-83.
Tutto precipita nella notte tra l’8 e il 9 dicembre e a sparare materialmente sembra essere stato il sergente Giovanni Bertolini detto Berto. Secondo Guido Bachi i due oltre a requisire «i polli dei contadini del circondario, avevano deciso di ucciderlo perché si opponeva alla loro volontà di entrare in azione subito senza aspettare l’ordine del CLN. Qualche giorno più tardi, Aldo Piacenza, il quale aveva avuto sentore della faccenda, raccontò a Guido che “quei due là, che al posto di diventare partigiani erano diventati banditi”, erano stati portati su un sentiero da alcuni membri del gruppo del colle di Joux ed eliminati».
Nelle diverse testimonianze dei due amici di un tempo, sentiti in momenti differenti e da persone distinte, nessuno (non Aldo ma nemmeno Guido) si attribuisce tutta la responsabilità del fatto. In talune versioni sembra addirittura che l’ordine sia partito dalla banda di Brusson-Arcesaz- Graines di cui almeno uno dei giovani partigiani, all’inizio, faceva parte. Così afferma Bachi in una deposizione del 1945; ma quasi cinquant’anni dopo sostiene di non avere avuto nulla a che fare con le uccisioni e che ne venne a conoscenza soltanto in seguito. Carole Angier che scava in questa vicenda riceve una telefonata da Aldo Piacenza che gli dice di essere quasi certo «che Bachi non poteva sapere nulla di quell’episodio, ma neanche lui ricordava nulla e forse in quel periodo era assente». In una deposizione del 1946 sostenne di avere passato la notte dell’8 dicembre a Brusson. Mentre era assente il suo vice, il sergente maggiore Giovanni Bertolini, noto come Berto, uccise i due uomini fuori dal rifugio a Frumy.
È interessante, in ogni caso, rileggere il verbale dell’interrogatorio di Aldo Piacenza, dell’11 gennaio 1944, quando a poca distanza dai fatti, un commissario di Pubblica Sicurezza e Ufficiale giudiziario della RSI (il dott. Camillo Renzi), lo chiama dalla cella e lo sottopone a diverse domande.
«[verso i primi del mese di dicembre] Berto inviò ad Arcesaz due gregari per ritirare qualcosa che non ricordo. Gli stessi però si recarono anche a San Vincenzo [Saint-Vincent], ed in pianura entrando a far parte di un “corpo” organizzato da alcuni ribelli di Arcesaz». Già in questo passo si capisce bene la confusione ingenerata molti anni dopo nel decidere se questi due giovani fossero della banda di Amay-Frumy o di quella di Brusson-Arcesaz-Graines. Ma proseguiamo: «I due giovani ritornarono a Frumy manifestando idee comuniste e, a quanto sembrava, decisi a commettere atti inconsiderati. In occasione del rientro dei due giovani a Frumy, io parlai con loro e mi riferirono alcune imprese aggiungendo che avevano circa 8 chilogrammi di farina che avrebbero regalato ai gregari di Frumy e che fra l’altro erano riusciti a ottenere del denaro da persone di San Vincenzo. Il colloquio avvenne ad Amay». Di passaggio è bene ricordare che Primo Levi era rifugiato ad Amay e che forse ha assistito a questo colloquio, volto da quel che si riesce a capire a convincere i due ragazzi a cambiare metodo. Aldo è un ufficiale che ha tre anni di esperienza di guerra, conosce bene la disciplina militare ed è consapevole delle conseguenze che ne derivano se si trasgredisce agli ordini. All’epoca ha ventidue anni e può permettersi di dare consigli a due gregari di quattro o cinque anni più giovani. «La stessa sera, i giovani proseguivano per Frumy, mentre io percorrendo l’itinerario inverso raggiungevo il Bachi a Brusson; gli riferii della cosa [Bachi era comandante della banda, mentre Aldo Piacenza ne era il responsabile militare], mangiai con lui e pernottai dal medesimo. Il giorno successivo, giovedì 9, mi recai di mattina presto ad Amay dove il Berto venne a riferirmi che per il contegno adottato dai due giovani la sera precedente, per il loro modo di fare e per alcune frasi quali ad esempio “noi vogliamo fare come quelli di Arcesaz”, “vogliamo procurarci la roba necessaria da soli e con mezzi coercitivi”; “se non ci lascerete fare vi spariamo” e in seguito “anche se ci trattenete fuggiremo e vi denunceremo”, egli era stato costretto a sopprimerli. Precisò che dopo averli disarmati li fece uscire da una baita e alla distanza di 100/150 metri dalla stessa li freddò con una raffica di mitra Berretta. Mi riferì ancora che aveva ritirato dai cadaveri alcuni documenti ed oggetti personali che intendeva inviare alle rispettive famiglie. Io ritenni opportuno riferire della cosa al Bachi; infatti descesi subito alla sua abitazione, e alla notizia lui non fece commenti».
L’interrogatorio nella prigione di Aosta tocca anche altri punti, nei quali Aldo Piacenza cerca di attenuare le sue colpe. Per esempio in uno dei passi finali egli dichiara: «Mi misi in contatto con il gruppo di Amay perché vidi questi giovani abbandonati a loro stessi e intendevo svolgere nei loro confronti azione moderatrice». Nel difendere se stesso, cerca anche di dire parole favorevoli per Guido Bachi: «a mio parere si è assunto le mie stesse responsabilità», ma soprattutto, come ricorderà in seguito nella sua testimonianza, dà corso alla decisione presa collettivamente di escludere dalla banda partigiana Primo Levi, Vanda Maestro e Luciana Nissim.
«In quanto alle signorine Nissim e Maestro, si erano ritirate ad Amay per sfuggire al loro internamento perché ebree. Erano a conoscenza dell’esistenza del gruppo e qualche volta avevano provveduto a inviare ai gregari dei dolci. Mi risulta che la signorina Nissim abbia prestato le sue cure di dottoressa al Berto, nell’albergo di Amay. Il Levi si trovava lassù per gli stessi motivi della signorina Nissim e giunse là circa in ottobre».
Frediano Sessi, Il lungo viaggio di Primo Levi. La scelta della resistenza, il tradimento, l’arresto. Una storia taciuta, Marsilio 2013, pp. 180, €. 16,00