Come l'ho conosciuto e l'ho amato / Sandro Penna: un poeta della vita
Nel maggio del 1961, per il mio dodicesimo compleanno, un parente (che evidentemente sopravvalutava i miei mezzi) mi regalò l’antologia Poesia italiana contemporanea 1909-1959, a cura di Giacinto Spagnoletti, uscita nella collana “La Fenice” di Guanda.
Non era un fucile, o una bicicletta, ma a me quel regalo faceva piacere. A stimolarmi era soprattutto, nel titolo, l’aggettivo contemporanea. Nelle scuole medie in quegli anni (gli ultimi prima dell’“unificazione” del 1962) la poesia si spingeva al massimo al D’Annunzio più decorativo e al Pascoli più lacrimoso. Io avevo la fortuna, grazie a un’insegnante molto speciale, di aver letto (e in qualche caso studiato a memoria), oltre a Dante, Virgilio e Catullo, testi di Montale, Ungaretti, Saba, Cardarelli, Quasimodo; chissà cosa scrivevano gli altri poeti del nostro secolo.
Nei mesi seguenti (estate, ero in vacanza) cominciai ad aggirarmi per quelle mille pagine senza altra guida se non la mia curiosità. L’apparato critico, che si riduceva a una Premessa e a un’Introduzione del curatore, era quasi impenetrabile per un alunno di seconda media. I testi dei sessantadue autori erano preceduti da poche pagine di (auto)presentazione: stralci di interviste, brevi interventi di poetica. Tra i nomi a me sconosciuti (la maggioranza) era difficile orientarsi, decidere a chi dar credito. Giuseppe Villaroel e Margherita Guidacci, Elio Filippo Accrocca e Luigi Fallacara, mi sfilavano davanti come una schiera di sagome tutte ugualmente maestose e opache: i Poeti Contemporanei.
È su quelle pagine che ho incontrato per la prima volta la poesia di Sandro Penna (1906-1977). A colpirmi, nei suoi testi antologizzati, era innanzitutto la chiarezza. Le poesie di Penna si lasciavano leggere a prima vista.
Nel mio pregiudizio di scolaretto, la poesia moderna era per definizione “ermetica”, cioè spigolosa, oscura, cifrata, difficilmente leggibile. Anche Penna, in teoria, rientrava in quella categoria (nel libro non si segnalava una sua posizione anomala), ma i suoi versi non avevano niente di contorto, di fumoso: “Sotto il cielo di aprile la mia pace/ è incerta.” “Guardo il cielo e le nuvole e le luci/ degli uomini così lontani/ sempre da me.”
La “freschezza”, qualità che tante volte avevo sentito richiamare dagli adulti a proposito di questa o quell’opera d’arte, qui mi sembrava finalmente di capirla e di sperimentarla direttamente. Penna aveva l’aria di parlare con grande immediatezza, e senza pavoneggiamenti; questo mi piaceva, mi incoraggiava. E poi, mentre in tante poesie “contemporanee” il mondo emergeva a spiragli, obliquamente, tutto storto e stropicciato, i testi di questo autore avevano quasi sempre al centro un’immagine semplice e riconoscibile, una scena, una situazione, come quella della “veneta piazzetta”, dove un ciclista chiede all’altro: “Vai solo?”. La luce pulita di alcune poesie mi faceva pensare a certi pittori e scultori del Novecento italiano che andavo scoprendo in quegli stessi anni.
Dell’omosessualità dell’autore ero troppo giovane per rendermi conto. Per un lettore più smaliziato, la presenza insistente di tutti quei “fanciulli” (e di quei “marinai”) sarebbe stata un segnale inequivocabile. Ma a me dodicenne, l’idea che un poeta importante potesse essere un “invertito” (questo l’epiteto allora in uso, per tacere dei più volgari) non passava nemmeno per la testa. Certo, nella carica erotica che si avvertiva in alcuni testi c’era qualcosa di ambiguo: “Il mio fanciullo ha le piume leggere/ (…) In lui ricerco amor non vile”.
Io sorvolavo, rimuovevo, badavo ad altro. Nonostante il realismo dell’ambientazione, “fanciullo” – termine già allora desueto e sostenuto – non mi faceva pensare a un ragazzino in carne e ossa: lo interpretavo (e in fondo non avevo torto) come il nome di una figura ideale, mitica. Pensavo magari a Pascoli, al Fanciullino, non certo al pais dei Greci; della pederastia dei nostri venerabili predecessori non sapevo ancora nulla. In questo, gli eufemismi obbligati di Penna mi soccorrevano:
(…)
Lunga distesa sovra un muro nella
canicola dormiva un’altra età.
Nella mano stringeva il suo più caro
oggetto. Non per pudore ché non ha pudore
il sonno, e il sogno è solo anche in città.
Se qualcuno mi avesse spiegato cos’era in realtà quell’“oggetto”, mi sarei messo a sghignazzare, e alla fine mi sarei rifiutato di crederci. Ora che so come stanno le cose, mi chiedo ancora come sia riuscita questa poesia ad attraversare incolume l’Italia fascista e quella democristiana del dopoguerra portando un carico così scottante. Il primo libro di Penna (Poesie, Parenti) usciva nel 1939, in pieno regime (stesso anno delle Occasioni di Montale) e aveva già i caratteri erotici che conosciamo. Certo, gli autorevoli protettori di questo autore (Saba, Montale stesso, Solmi) lo avevano aiutato e consigliato nell’indispensabile lavoro di autocensura; ma cancellare completamente da questa poesia l’amore per i “fanciulli” sarebbe stato come strappare le sue stesse radici.
Sempre fanciulli nelle mie poesie!
Ma io non so parlare d’altre cose.
Le altre cose son tutte noiose.
Io non posso cantarvi Opere Pie.
dichiara una citatissima quartina. La poesia di Penna si distingue appunto (e forse si salva) per la radicale estraneità a ogni genere di “Opere Pie”; da intendersi non solo come valori “morali” o d’altro genere, ideologie, istanze culturali, ma anche come richiami letterari, ammiccamenti intertestuali, paludamenti filosofeggianti.
Penna ama presentarsi (e si pensa) come un poeta “puro”, la cui ispirazione non nasce dai libri, dalla storia letteraria, dall’accortezza estetica, ma direttamente dalla vita, dalla realtà. Una realtà certo mitizzata e trasfigurata, mai però filtrata attraverso prospettive già pronte, istituzionalizzate.
Mentre in altri poeti del Novecento (cito a caso Montale, Caproni, Fortini, Zanzotto) l’attività critica si affianca in modo significativo a quella creativa, Penna sembra evitare programmaticamente ogni contributo “teorico”. Dal dibattito letterario si tiene accuratamente lontano. I suoi scritti critici – nel Meridiano curato da Roberto Deidier, che contiene anche le Prose, i Diari e una preziosa Cronologia dovuta a Elio Pecora – si limitano a poche recensioni di poeti oscuri e marginali (con l’eccezione di Alfonso Gatto). Penna non vuol essere un letterato. Nelle pagine di autopresentazione della citata antologia di Spagnoletti esibisce il mito della sua ingenuità, della sua condizione di outsider: “La vita… è ricordarsi di un risveglio – racconta (mentendo) – (…) è la poesia che ho scritto per prima, e in un periodo in cui nemmeno pensavo che esistesse la poesia”.
La leggenda di cui il poeta perugino si compiace è quella di un’ispirazione inattesa, giunta chissà da dove a un giovanotto ignaro di letteratura, che solo per caso, dai giornali, apprende che “i nostri poeti più famosi erano tre: Saba, Ungaretti e Montale”.
In realtà, fin da giovane Penna si nutriva di letture importanti (Gide, Proust, Rimbaud, Wilde, Nietzsche, altri ancora), meditava sulla poesia e sull’arte (come risulta dai Diari) e scriveva versi. È interessante – per capire meglio la sua produzione matura – leggere le prime prove poetiche (inedite) utilmente documentate nel Meridiano. Versi acerbi, dove il giovane autore si muove incerto, orecchiando la poesia dell’Ottocento e citando Poe, Baudelaire, D’Annunzio (per dir loro addio).
Nei libri che ce lo hanno fatto conoscere, Penna si è ormai liberato di ogni esplicito riferimento letterario e ha tracciato un limite netto, un confine stilistico, tematico, alla sua poesia: è proprio da una serie di esclusioni (di rinunce, se si vuole) che la sua voce prende forma, e diventa riconoscibile:
Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.
In questo famoso testo, l’impronta dell’autore è lampante, inconfondibile. Mare, azzurro, calmo, cuore, urlo, gioia: le parole meno ricercate che si possano immaginare. Generiche, persino banali. E quell’anafora, quelle ripetizioni: mare… mare… tutto… tutto… tutto... Quella magra paratassi, quei settenari dondolanti. Ma da un “materiale” così povero, ovvio, scontato, Penna riesce a ottenere – senza la minima forzatura retorica, letteraria – un lampo lirico memorabile.
Ho riscoperto Penna negli anni ‘70. Da tempo la sua poesia – incoraggiata fin dagli esordi dai poeti italiani più autorevoli – aveva cominciato a godere anche del sostegno di Pier Paolo Pasolini (che nel 1957 firmava il risvolto di un’edizione Garzanti delle Poesie); ma negli anni ‘70 Penna era al centro di un vero e proprio revival.
Il clima politico e culturale post-Sessantotto, l’apertura dei costumi sessuali, il femminismo e il movimento gay contribuivano certo a superare i pregiudizi che per anni avevano gravato (da fuori e dall’interno) sulla poesia di questo autore; il revival di Penna, però, non può essere attribuito solo agli aspetti “trasgressivi” del personaggio. In una celebre quartina aforistica, Penna stesso sembra mettere in guardia da ogni troppo corriva ideologia della trasgressione:
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
La rivalutazione della poesia di Penna nella seconda metà del secolo scorso va pensata all’interno di un più ampio recupero (in funzione anti-ermetica e anti-avanguardistica) di una serie di autori in ombra del Novecento, da Sbarbaro a Caproni; recupero fortemente promosso da Pasolini, ma non solo da lui. Penna ritorna al centro dell’attenzione critica come portatore di un “altro” Novecento, parallelo e per certi aspetti opposto alle tendenze più canonizzate. Se in passato lo si era potuto collocare un po’ superficialmente nella generica schiera degli “ermetici”, ora la sua diversità emergeva in tutta la sua portata. Diversità non solo personale, biografica: la poesia di Penna si presentava come un caso raro – per non dire unico – di scrittura impavidamente chiara, umile, inerme, che al lettore si offre nuda, senza medaglieri e senza pennacchi letterari. Una scrittura incomparabile, che solo con sé si misura, che conta solo sulla sua forza interna, sull’autenticità e sull’urgenza di ciò che la muove, sulla limpidezza della sua visione e del suo linguaggio.
Nel saggio che introduce il Meridiano (“Dove comincia l’infinito”) Roberto Deidier sottolinea a più riprese i legami della poesia di Penna con Leopardi, Hölderlin, Proust, Nietzsche. La sua preoccupazione, probabilmente, è quella di sfatare l’immagine (diffusa dall’autore stesso, come si è detto) di un creatore ingenuo, tutto spontaneità: poeta di natura, e non di cultura. Deidier argomenta e documenta le proprie affermazioni, e ci presenta un Penna molto più colto e meditante, e a conti fatti molto più credibile, di quello al quale eravamo abituati. Non sono sicuro, però, che ricondurre a Zarathustra le liriche di questo autore sia utile a capirle meglio, e soprattutto a goderne più profondamente. La poesia di Penna mal si presta, mi sembra, ad essere avvicinata come “pensiero poetante”. La sua leggerezza, la sua saldissima semplicità, non hanno bisogno di essere giustificate o corroborate. Penna stesso, io credo, sarebbe imbarazzato e magari preoccupato da riferimenti tanto impegnativi.
Per scoprirlo, o riscoprirlo, forse non è necessario scavare “sotto” e “dietro” la splendida superficie dei suoi versi. A me – oggi, come nel 1961 – basta la luce netta di queste parole italiane, così familiari e nuove e vive.