Cosa hanno inteso celebrare? / Celebrating Photography

16 Febbraio 2017

Guardo la fotografia vincitrice del primo premio assoluto del World Press Photo del 2017 e non riesco a smettere di chiedermi cosa abbiano inteso celebrare i giudici. Non che l’immagine non mi piaccia intendiamoci, o che non riconosca il coraggio di chi l’ha scattata, è l’idea di fotografia che porta con sé (e che il premio certifica e sancisce) che mi lascia perplesso.

Provo a spiegarmi, e per farlo vorrei partire proprio dalla fotografia. Lo sguardo va subito leggermente a sinistra, verso il protagonista assoluto, l’ex poliziotto folle di odio che ha appena sparato all’ambasciatore russo che – ironia – stava inaugurando una mostra fotografica. È un bel ragazzo, giovane, atletico, vestito impeccabilmente, ma i tratti del suo viso sono distorti dalle parole che sta urlando. Ce l’ha fatta, ha ucciso, è riuscito ad andare contro il suo addestramento, a fare deliberatamente del male a una persona. Ha giudicato e ha punito, guadagnando il suo attimo di celebrità. È per quelle parole che ha fatto tutto questo, per poter essere sentito dal mondo. È un agente, sa perfettamente quello che succederà, sa quanti altri poliziotti arriveranno, e sa che faranno fuoco senza pensarci, non quanto deve aver pensato lui prima di decidere di rinunciare a tutto quello che aveva.

 

L’attimo è fecondo, la posa efficace. Una mano tiene la pistola ancora calda, l’altra indica il cielo: quel mandante trascendentale in nome del quale ha perpetrato l’omicidio, facendosi esecutore di una volontà di cui – è questa la follia – ha ritenuto di essere l’unico, infallibile interprete. Più in basso a destra il corpo senza vita dell’ambasciatore. Steso di spalle, ha le braccia larghe, la giacca malamente raccolta sotto la schiena, la camicia bianca che viene fuori da sotto la maglia di cui vediamo chiaramente i bottoni. In alto, sopra il ventre prominente, quella che sembra una cravatta, anch’essa scombinata, scomposta. Non si vede sangue, tutto è pulito, come le fotografie che dallo sfondo sembrano tante finestre sull’esterno. Un esterno che non è la Turchia ma la Russia. Si tratta infatti del reportage di un fotografo che le cronache non hanno mai menzionato (doppia ironia) e che ha immortalato il suo viaggio dalla città russa di Kaliningrad alla Kamchatka. Ecco che ci faceva lì il povero ambasciatore. 

 

Non c’è dubbio che non deve essere stato facile scattare quella fotografia. Portare all’occhio la macchina fotografica con un folle del genere davanti, sapendo che una persona era appena morta, che l’agente avrebbe potuto fare ancora fuoco. Come racconta Burhan Ozbilici, l’autore dell’immagine di colpo divenuto uno dei più famosi fotografi del globo, ha prevalso il dovere di cronaca, l’obbligo morale che ha un giornalista di fissare la realtà in un’immagine, di testimoniare, anche a costo della vita. Ancora un atto di eroismo quotidiano insomma, quello di chi fa semplicemente il proprio mestiere, assumendosi il rischio terribile che può comportare.

 

Burhan Ozbilici.

 

Bene, ci sono tutti gli estremi per un premio, e infatti il premio è arrivato. La domanda è cosa ci racconta questo premio della fotografia. Perché conferire un riconoscimento del genere a una fotografia non significa semplicemente riconoscerle determinate qualità, ma sancire le qualità che rendono una fotografia unica e irripetibile. Ed ecco il punto per me, la ragione del mio fastidio: qui l’unicità della fotografia è data dall’attimo. Da quell’è stato che Barthes riteneva il noema della fotografia tout court. Il fotografo – diceva – è un agente della morte, blocca il fluire del tempo consegnandoci la certezza di un momento (di una persona, di un paesaggio ecc.) che è già passato, aprendo così una finestra su qualcosa che non esiste più. La forza dell’immagine starebbe insomma saldamente nella realtà dell’attimo che ha fissato, e tutto questo in barba alla (paventata, discussa e mai accaduta) rivoluzione digitale che ha reso le fotografie il prodotto di un algoritmo informatico. E infatti Barthes non mostra mai la foto della madre intorno alla quale ruota la seconda parte de La camera chiara, perché lui sa perfettamente che a nessun altro tranne lui direbbe alcunché. Chiunque altro leggerebbe quell’immagine secondo una logica che è quella di quel particolare tipo di sguardo che indica con la parola latina studium.

 

Uno sguardo che presuppone una percezione culturalizzata, dotta, che passa gli stimoli visivi al vaglio di una coscienza che attribuisce loro pesi e misure secondo un sentire comune di cui è espressione. A questo tipo di sguardo, di gran lunga dominante, Barthes oppone il punctum, quella ferita che si apre quando un elemento di un’immagine, un dettaglio spesso molto minuto, emerge, imponendosi più che alla coscienza dell’individuo alla sua sensibilità. Il punctum deve far male, spiazzare, ed è per questo che, per il semiologo, è solo a partire da esso che ci si può innamorare di un’immagine.

Ora, la questione, lo si sarà capito, è che questo premio celebra da un lato lo studium e dall’altro l’insopportabile attimo fuggente. La scena è quella di un film hollywoodiano, con il Man in Black in primo piano con la pistola al fianco e con il dito al cielo, solo che tutto è reale, come il coraggio del fotografo che ha colto quel prezioso attimo. Premiare questa foto significa assumere tutto questo come ciò che importa, la ragione che rende una fotografia migliore di tutte le altre.

 

Se proviamo a guardare questa stessa foto con un diverso occhio, però, disponendoci ad accogliere il punctum, alcune cose cambiano. Sì perché il punctum, spiega Barthes, non è affatto detto che sia immediato. Può venire al secondo, terzo, ennesimo sguardo. È la percezione culturalizzata a essere immediata, “naturale”, quella più innocente viene dopo, è frutto di un esercizio che ha bisogno di tempo. Picasso diceva sempre di averci messo tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino di quattro anni, essendo stato capace, quando aveva quattro anni, di dipingere come Raffaello. Ovviamente il punctum è personale e dunque ecco il mio. Sono tre i dettagli che mi punzecchiano. Il primo è l’indice del killer, non quello che punta il cielo ma quello che sta steso sulla canna della pistola. Non è una posizione casuale, la pistola è fatta per essere impugnata, conduce letteralmente il dito sul grilletto. Se questo non ci va è per un preciso calcolo, un “ragionamento” che è il dito stesso a fare, educato da anni di addestramento. È una posizione di sicurezza quella che assume, impedendogli di sparare casualmente. Che l’attimo di follia si sia esaurito?

 

Non sappiamo e non sapremo mai, quello che possiamo dire è che quell’agente in quel momento non stava per sparare. Il suo addestramento stava funzionando, suo malgrado. Ed ecco che, forse, l’eroismo del fotografo diventa un po’ meno marcato. Questo non significa che io avrei avuto la freddezza di fare quel che ha fatto Ozbilici, ma che quell’uomo continuava a essere un poliziotto malgrado tutto. E poi, se non avesse voluto essere ripreso, fotografato, documentato, ascoltato, perché avrebbe scelto proprio quel momento? Perché avrebbe aspettato di sorprendere l’ambasciatore dietro un leggio, davanti ai microfoni? Se non lo avesse fatto forse sarebbe potuto scappare come hanno fatto altri attentatori. Ed ecco il secondo punctum: a destra, il bozzo di uno di quei microfoni, reso di colpo pertinente. Non più disturbo, macchia da ignorare, ma elemento da riconoscere e interpretare. E infine il terzo, personalissimo dettaglio. La suola delle scarpe del morto. Il cuoio consumato proprio in corrispondenza dell’avampiede, da cui partono due strisce uguali che vanno verso la punta. Che razza di dita ha un uomo per lasciare quei segni? Come cammina? Il punctum non è un problema di primo piano e sfondo (in quel caso avremmo dovuto anche considerare quelli che sembrano degli occhiali sotto la foto di sinistra), è più qualcosa che sfugge a un progetto di senso, che va oltre l’immagine di cui fa parte.

 

Ed ecco allora il motivo per cui io non avrei premiato questa fotografia. Trovo il suo implicito progetto di senso troppo esplicito, troppo facile. È una bella fotografia, vorrei essere stato capace di farla io, ma non credo che possa mantenere il suo fascino a lungo. Le grandi foto di reportage fanno questo, si fanno guardare ma soprattutto si fanno riguardare ancora e ancora. Catturano lo sguardo ogni volta in modo diverso, lo stordiscono, lo cambiano, rendono possibile un’avventura (parola di Barhes anche questa) che è sempre diversa. La grandezza di una fotografia non sta nell’è stato che presentifica per qualcuno, ma nel modo in cui cambia gli occhi di chi guarda adesso. La grande foto giornalistica fa questo mentre ci mostra una notizia che conosciamo, un evento di cui sappiamo già tutto dagli altri mezzi di comunicazione che l’hanno già mostrato mille e mille volte. Guardate Cartier-Bresson e capirete, una foto qualunque andrà bene. Il punto non è avere la prova, la testimonianza, è far vivere a uno sguardo un’avventura che, a meno di non essere particolarmente allenati, non saremo in grado di raccontare.

 

Finché non recupereremo consapevolezza di questa capacità della grande fotografia penseremo quest’attività come un modo di “fissare l’attimo”, bloccare il tempo, e allora i milioni di foto di instagram continueranno a farci paura, tutte espressioni della più popolare delle arti, che rianimano ancora e ancora quel dibattito sulla sua artisticità di cui faremmo bene a liberarci. La fotografia ha cominciato a pretendere di essere un’arte nel momento in cui si è presentata come merce, dice Benjamin. Una grande fotografia allora è tale quando per apprezzarla non dobbiamo pensare all’attimo che è stato ritratto, a “come sono andate le cose”, a quello insomma che sul fotogramma non c’è. Al contrario deve saperci tenere al suo interno, guidandoci in percorsi ogni volta diversi che hanno un unico obiettivo: farci tornare a guardare la realtà con occhio diverso. Ed è così che genera altra fotografia. Cosa sia questa cosa non lo so, ma è a questo che se potessi darei un premio.

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