Robert Smithson visita lo Yucatan / Rovine all’inverso

29 Gennaio 2019

Performare la parola

Una persona legge un testo in piedi dietro un podio, mentre alle sue spalle scorrono le illustrazioni di un power point; in una sala buia, un pubblico segue attento la tessitura tra parola e immagine. Non si tratta di una semplice conferenza illustrata, ma di una conferenza tenuta da un artista o di una lecture performance. La conferenza diventa così una pratica artistica dove l’enunciazione e l’affabulazione verbale corre parallela alla sfera audiovisiva.

Alfabeto e corpo, lo scritto e l’orale, il verbale e il visivo, la pagina e lo schermo entrano in un circolo ermeneutico, ermetico, eretico ed erotico.

È anche il caso del film performativo, “un evento, unico o suscettibile di essere ripreso, che attualizza, attraverso una serie di enunciati, verbali, sonori, visivi, corporali, emessi da uno o più partecipanti in presenza di spettatori, un film virtuale, a venire o immaginario”, come lo definisce Erik Bullot. I suoi caratteri principali vengono dalla conferenza (la presenza dell’oratore o di un lettore davanti un uditorio), dalla seduta cinematografica (oscurità della sala, proiezione d’immagini su uno schermo, presenza di un pubblico, durata circoscritta) e dal teatro (presenza dell’artista e natura performativa).

Negli ultimi anni nel mondo dell’arte contemporanea, le lecture performance si sono moltiplicate. Il fenomeno tuttavia vanta una genealogia che resta da costruire e che spazia da Joseph Beuys a Yvonne Rainer, da Robert Morris a William Kentridge, da Chiara Fumai a Olof Olsson. 

 

 

Sono il precipitato del collasso della distanza tra arte e discorso sull’arte, vissuto dalla generazione cresciuta con l’institutional critique ma anche con l’introduzione della critical theory nelle accademie d’arte. Il fenomeno è ben marcato negli Stati Uniti – prima con i Master (e i PhD) of Fine Arts e poi con i Master (e i PhD) in Visual Arts –, come analizzato da Howard Singerman, dove la riflessione sulla didattica e il sistema di grants, fellowship, residenze, premi, sostegni finanziari e altri incentivi non è paragonabile con l’Italia.

Appropriandosi di un plesso teorico-critico sulle arti visive che è l’humus fertile del post-modernismo, l’artista di professione, l’artista laureato si è così distinto dall’autodidatta. Attraverso quali pratiche e protocolli la figura dell’artista si professionalizza? In che modo le istituzioni producono e organizzano l’educazione e il sapere artistici? In che modo il discorso critico impatta le pratiche artistiche? e in che modo, viceversa, le pratiche artistiche rivolgono ai loro fini – e, per così dire, metabolizzano – teorie elaborate ai margini della sfera artistica?

 

 

Costruire/distruggere

Tenendo queste domande sullo sfondo, vorrei qui soffermarmi su un lavoro (se sia o meno un’opera è uno dei problemi, come vedremo) poco commentato dell’artista americano Robert Smithson (1938-73), Hotel Palenque.

Nel 1972 Smithson tiene una conferenza all’Università dello Utah, lo stesso Stato nelle cui acque salate ha realizzato la celebre Spiral Jetty due anni prima. Il testo che legge davanti un pubblico di giovani architetti è accompagnato da una serie di diapositive. Non si tratta di riproduzioni delle sue opere né di una presentazione del suo lavoro, ma di fotografie scattate nell’aprile 1969 nel corso di un viaggio nello Yucatán (Messico). Qui si trovano le vestigia dell’antica civiltà maya, già ammirate, ad esempio, dal regista russo Ejzenštejn tra dicembre 1930 e marzo 1932, lavorando a Que Viva Mexico! Oppure, è Smithson ad accennarlo, dal poeta Harold Hart Crane, tragicamente scomparso nel 1932 quando, di ritorno dal Messico, si buttò dalla poppa di una nave, falcidiato dall’elica a soli 33 anni.

Smithson non era insensibile all’archeologia, come dimostra la corrispondenza con la compagna Nancy Holt e il gallerista George Lester, americano ma di stanza a Roma, in occasione del suo primo soggiorno italiano. Tuttavia, nel corso della conferenza, non mostra alcun vecchio rudere azteco ma 31 diapositive a colori 35mm sull’Hotel Palenque. I templi dell’antica civiltà sono visibili solo in lontananza, attraverso i balconi-mirador dell’hotel: “in questa conferenza non vedrai neanche un tempio; a tal fine devi recarti lì di persona e vedere coi tuoi occhi”. 

Smithson s’interessa a un hotel dismesso che, a giudicare dalle sue foto, non è chiaro se sia in costruzione, in restauro o in via di smantellamento. Facciate fatiscenti, pareti coi mattoni a vista, passerelle instabili, pavimenti scrostati, tettoie in legno, armature in acciaio, mura senza soffitto, scale esterne e ponti levatoi pericolanti, strutture portanti effimere, erbacce tra le lastre di marmo della scarpata, cumuli di cocci, un giardino di mattoni rotti e persino una vasca di tartarughe. Senza contare quegli elementi e fratture nel corpo architettonico di cui Smithson ignora la funzione e che gli sembrano cresciuti come una pianta tropicale – “come una meraviglia geologica messicana creata dalla mano dell’uomo”. 

 

 

Cosa ha di particolare quest’hotel agli occhi di Smithson? L’essere una rovina all’inverso, ovvero un’architettura industriale che cade in rovina prima ancora di essere terminata, un’architettura votata all’entropia (una delle idee a lui più care). Le rovine che lo interessano non sono così nella giungla dello Yucatan ma ai margini del paesaggio culturale, in un nonluogo, per utilizzare un’altra sua nozione-chiave. Nel corso della conferenza Smithson evoca le carceri di Piranesi o lo stile barocco inestricabile proprio dei templi maya, che ritrova nel modo in cui l’hotel è stato concepito e costruito/distrutto. Non mancano accenni al contemporaneo, dalla porta-finestra sbarrata di una camera che gli ricorda un dipinto di Jasper Johns a un pavimento di piastrelle bicolore, migliore della coeva pittura newyorkese.

 

Disarchitettura

Cosa unisce le 29 diapositive mostrate da Smithson? Un grado zero di qualità estetica. Potrebbero essere il resoconto edilizio dell’avanzamento di un cantiere, documenti visivi ad uso dell’ingegnere che dirige i lavori. Nelle mani e nella penna di Smithson invece si fanno tasselli di una narrazione personalissima, un percorso di visita immaginario dell’hotel, della sua struttura serpentina, degli snodi in cui è ingarbugliato, seguendo un andamento a spirale, dal centro verso l’esterno, come ha osservato Gilles Tiberghien.

Hotel Palenque mostra la mente cartografica di Smithson, che raccoglie dati, esplora e mappa un territorio periferico, un nonluogo, con un alto investimento e-motivo (come lo scriverebbe Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni). In linea con l’avventura americana della Land Art, l’interesse dell’artista transita dall’opera in un contesto dato all’esperienza diretta di questo stesso contesto. Senza il viaggio, attenti solo alle forme, della Land Art ci sfugge l’essenziale.

 

 

In Hotel Palenque Smithson non si limita a trascrivere la sua esperienza messicana, operando un détournement che finisce per conferire un’aura di mistero alla banalità più plateale del quotidiano. Davanti una sedia abbandonata in una sala da ballo evoca la “transitorietà del tempo e dell’universo”. In un altro passaggio si legge: “Non capita spesso di vedere edifici che cadono a pezzi e che si espandono allo stesso tempo. Neanche loro sanno se vogliono o no questa parte dell’hotel”. È una disarchitettura – altra nozione di suo conio che sembra uscita dalla bocca di Gordon Matta-Clark –, una zona urbana che mostra una rottura, un collasso della logica architettonica più razionale. Immagini del non-finito e del non-terminabile, immagini di una temporalità inversa in cui la caduta e la rovina precedono la costruzione; immagini della precarietà dell’esistenza umana e dell’impossibilità di portare a termine qualsiasi impresa al riparo dall’azione del tempo. Costruzione/Distruzione è il Love/Hate di Smithson.

 

“Yucatan is elsewhere”

Prima di Hotel Palenque, Smithson realizza un’altra opera nello Yucatan. Si tratta di una serie di nove fotografie a colori, in cui dispone al suolo dodici specchi quadrati di 30 cm in diverse località (Mirror Displacements, 1-9). Poggiati sul suolo irregolare, gli specchi, in parte ricoperti di terra rossa, riflettono le nuvole. In questo modo la terra e il cielo si ritrovano dislocati sulla stessa superficie. Le foto illustrano l’articolo pubblicato su “Artforum” nel settembre 1969, Incidents of Mirror-Travel in the Yucatan, un titolo ispirato al primo resoconto di viaggio che documentò le locali rovine maya.

Nell’articolo Smithson commenta ciascuno dei nove Displacement, con lo stesso andamento narrativo di Hotel Palenque e intuizioni folgoranti che colgono il pensiero smithsoniano: “Ricostruire una regione terrestre che è esistita tra 350 e 305 milioni di anni fa su un terreno controllato una volta dalle divinità Maya più dissimili ha provocato una collisione nel tempo che ha lasciato dietro di sé un senso d’infinito. L’eternità si trova nei momenti di percezione estinti, nella pausa ordinaria che va in frantumi in una tempesta di sabbia”.

 

 

Documentato il Displacement con la macchina fotografica, Smithson recupera gli specchi, rendendo così effimero questo lavoro site-specific. Gli specchi ormai sono, come puntualizza, da qualche parte a New York: “Lo specchio in sé non è soggetto alla durata, poiché si tratta di un’astrazione ininterrotta che è sempre disponibile e senza tempo”. Non restano altro che la mappa e le foto, e chi cercherà i paesaggi messicani nei riflessi degli specchi resterà frustrato. Perché, così si chiude il testo di Smithson, “Yucatan is elsewhere”. Già, ma dove?

 

Diapositive d’artista

Riveniamo a Hotel Palenque. Smithson parla in prima persona, fedele alla struttura di una lecture accademica, attribuendo all’hotel – suo case study – lo stesso valore storico-culturale di un reperto azteco. Non manca persino d’inserire annotazioni personali, come il pomeriggio trascorso a discutere con Nancy Holt e la gallerista Virginia Dwan della violenza della società maya, aspettando una guida che deve portarli in giro e che mai si farà viva.

Smithson usa un medium, quello delle diapositive, buono all’epoca per mostrare le foto delle vacanze ma anche per realizzare raffronti formali tra diverse immagini della storia dell’arte, come farà lo storico dell’arte Heinrich Wölfflin. Attraverso la proiezione, Smithson s’interroga indirettamente sullo statuto e il destino dell’immagine fissa in una fase storica dominata dalle immagini in movimento, come ha colto Darsie Alexander.

Hotel Palenque ha, al riguardo, tre illustri precedenti americani. Il primo è Ad Reinhardt che nel 1958-59 (ma forse già a partire dal 1952) organizza due serate all’Artists’ Club di New York proiettando oltre duemila diapositive, prese nel corso dei suoi viaggi in Europa e in India. Così Reinhardt inventò il non-happening, come presto furono chiamate, non senza sarcasmo, queste due serate, con un richiamo all’happening introdotto lo stesso anno da Allan Kaprow su “Art News” a proposito dell’eredità di Jackson Pollock.

 

 

Il secondo è Dan Graham con Homes for America (1966-67) sulle abitazioni mono-famigliari della periferia americana, proiettato da Smithson e Holt prima di essere pubblicato in forma di reportage su “Arts Magazine”. Allo stesso periodo risale Projected Art (Finch College Museum of Art, New York, 1966), uno dei primi casi in cui il cinema sperimentale entra in uno spazio museale.

Il terzo, più raramente evocato, è A Lecture, che Hollis Frampton organizzò all’Hunter College di New York il 30 ottobre 1968 con un proiettore 16mm, uno schermo, un registratore, un foglio di cellophane rosso per coprire il proiettore, uno scovolino e, soprattutto, la voce pre-registrata di Michael Snow che leggeva il testo.

 

Hotel Palenque. Destino di un’opera

Non sappiamo come venne accolta Hotel Palenque, e la pessima versione filmata dal pubblico, in cui Smithson è spesso fuori campo, la voce poco udibile, non è più disponibile su internet. Per alcuni il suo tono è maldestro, quasi goffo, per altri farneticante o saccente; per alcuni è una presa in giro del gergo accademico, per altri un omaggio sincero allo Yucatan, e per altri ancora un malinconico canto delle rovine. Non conosciamo il linguaggio corporale e la mimica facciale assunte da Smithson, lo scambio col pubblico, il senso delle pause e quanto restò finalmente implicito. 

A dir il vero, non sappiamo neanche se Hotel Palenque sia da considerarsi un’opera, una performance, una conferenza, un capriccio o un abbozzo destinato un giorno a essere esposto in una galleria. Smithson era un artista troppo poliedrico e imprevedibile per immaginare come avrebbe trasformato questo materiale, ammesso che ne avesse fatto qualcosa. Lo statuto di Hotel Palenque resta così indeterminato, un po’ come le Fake Properties di Gordon Matta-Clark. Di certo è una delle primissime conferenze d’artista acquistate da un museo.

 

 

Hotel Palenque è esposta per la prima volta nel 1993 al LACMA di Los Angeles (Robert Smithson: PhotoWorks) e nel 1994 alla Hayward Gallery di Londra (The Epic & the Everyday. Contemporary Photographic Art). Nel 1995 la rivista tedesca “Parkett” publica una trascrizione del testo, non incluso nella raccolta degli scritti di Smithson (che qualcuno, è il mio augurio, tradurrà presto in italiano), accompagnata dalla riproduzione delle diapositive (mancano però due diapositive e didascalie). Nel 1999 Hotel Palenque entra infine nella collezione del Solomon R. Guggenheim: la voce registrata di Smithson, un audio di una quarantina di minuti, è diffusa da due altoparlanti, assieme alla carrellata di diapositive.

Da allora viene esposta regolarmente in mostre collettive, a volte in modo scorretto come in The Structure of Survival (50ima Biennale di Venezia, 2003) in cui le diapositive sono sostituite da un video. E solo nel novembre 2006 è mostrata in Messico. Se ne interessa presto un fotografo come Jeff Wall, per la sua natura ibrida di foto-saggio, di falso diario, di parodia del foto-giornalismo, nel testo sullo Yucatan come in The Crystal Land e The Monuments of Passaic.

Ancora, l’hotel in cui Smithson ha pernottato assume uno statuto mitico alla stregua del One Hotel che Alighiero Boetti aprì nello stesso periodo (1971-77) a Kabul, in Afganistan. E come il progetto di Boetti ha avuto una seconda vita grazie a un artista – incidentalmente messicano – quale Mario Garcia Torres, tale è anche il caso di Smithson.

 

 

 

Se non poteva mancare un remake della conferenza, in un video realizzato da Harrell Fletcher nel 2012 di cui non riesco a cogliere l’interesse, altri casi sono più stimolanti. Nel 2011 diventa il fulcro di una mostra, Incidents of Mirror-Travel in Yucatan and Elsewhere che Pablo Leon de la Barra cura per il Museo Rufino Tamayo a Città del Messico. Qui espone tra l’altro Color Reversal Nonsite with Ensuite Bathroom (2009) di Jonathan Monk, che non ha mai visitato l’hotel. La scritta “Hotel Palenque” appare capovolta e al rovescio, ovvero nello stesso modo in cui bisogna(va) inserire una diapositiva nel carrello del proiettore per vederla dal verso giusto.

Più intrigante è Monument to Entropy (Hotel Palenque Map) che Jeremy Millar espone alla galleria Sleeper di Edinburgo nel 2007. In viaggio nello Yucatan con la sua compagna, nel 1999 prende una camera doppia nello stesso hotel, quasi trent’anni dopo Smithson e Holt. In una fotocopia della mappa dell’hotel utilizzata da Smithson, Millar annota il punto preciso da cui l’artista ha scattato le sue foto e, in una mattinata, le riproduce una a una sullo stesso rullino, aggiungendone altre in stile smithsoniano. Ciononostante non esporrà mai questa serie parallela, anzi non svilupperà mai il rullino, chiudendolo in una cassetta di sicurezza dell’hotel Palenque. Millar si limita ad esporre la chiave assieme alla ricevuta, facendo di quella cassetta, come scrive giustamente, una “time-capsule”.

 

Anti-visione

Se una chiave sotto una teca può lasciarci a bocca asciutta o, come dicono i francesi, sulla nostra fame, in realtà è la soluzione migliore, come realizzo purtroppo a mie spese – e non posso che chiudere queste riflessioni riportando una sconfitta personale.

Lavorando a questo articolo, leggo che Pablo Leon de la Barra, curatore della mostra messicana prima citata, ha scoperto che l’hotel Palenque esiste ancora. Decide così di recarvisi in pellegrinaggio, e lo fa senza muoversi di casa, smanettando su Google Maps. Sento che non dovrei vederle queste foto, ma alla fine non resisto. Inutile riportare la mia delusione. Ma poco dopo commetto un secondo errore, stavolta fatale: cerco il sito internet dell’hotel, sicuro di trovarlo.

 

 

 

Lo trovo. Non faccio in tempo a chiedermi “Che fare?” che clicco e ci entro dentro.

Davanti ai miei occhi scorrono sobrie camere arredate con gusto, con l’asciugamano a forma di cigno sul letto, candele sui tavoli in ferro battuto attorno alla piscina, mobilio in stile etnico, il bancone del bar coi bicchieri luccicanti, viste panoramiche. Un hotel dal confort moderno, un luogo banale di vacanze all’epoca del turismo di massa, il posto ideale dove crollare dopo una giornata a camminare, sudare, impolverarsi visitando templi. Una colonna a sinistra m’invita a inserire le date del mio soggiorno per riservare una camera. Bastano pochi clic e una carta di credito per assicurarmi un soggiorno all’Hotel Palenque. 

Che io sia dannato.

Ai fortunati architetti dell’Università dello Utah, nel lontano 1972, Smithson aveva proposto un’esperienza delle rovine all’inverso, uno sguardo vertiginoso sul futuro anteriore, una rêverie geologica e industriale e mentale.

 

 


Dietro a ciascuna fotografia a colori del sito internet riconosco l’impalcatura, o meglio il fantasma, delle fotografie di Smithson. Il loro potenziale poetico si scolora piano piano, si stinge come una camicia in un bucato sbagliato. “Yucatan is elsewhere”, perché appena la nomini, come è scritto in Incidents of Mirror-Travel in the Yucatan e con un’eco borgesiana, cessa di esistere. Bastava leggere bene il testo di Smithson, la cui ultima diapositiva mostra una porta verde, niente di più prosaico: “Probabilmente la porta apre sul nulla e sul nulla si richiude, così abbandoniamo l’Hotel Palenque con questa porta chiusa”.

E invece riaprendo quella porta commetto lo stesso errore degli operai che, in una galleria sotterranea della metropolitana di Roma, scoprono un’antica domus romana completamente ricoperta di affreschi. (La scena ovviamente è nel Roma di Fellini). L’aria esterna che attraversa il pertugio penetra nell’antico spazio domestico facendo scomparire quei volti ritratti sopravvissuti per secoli.

 

 

Così l’Hotel Palenque, che mi sono illuso esistesse per davvero, con le sue coordinate geografiche registrate dai satelliti, anziché essere uno spazio mentale irrorato dalla voce e dalle immagini di Smithson. Che tra l’altro era poco interessato al reale: “Dal momento che non riesco a credere negli oggetti e non riesco a credere nei totem, a cosa posso credere? Alla finzione”. Troppo tardi m’imbatto in frasi di Smithson che suonano ora come ammonimenti: “Ricostruire attraverso le parole quello che vedono gli occhi, in un ‘linguaggio ideale’, è un’impresa vana. Perché non ricostruire invece la propria incapacità di vedere? Proviamo a dar forma passeggera alle visioni non consolidate che circondano un’opera d’arte, e sviluppiamo una sorta di ‘anti-visione’ o di visione negativa”.

Sviluppare un’anti-visione o una visione negativa, ecco un proposito per il nuovo anno.

 

 

Per approfondire

 

Il testo della conferenza di Smithson e le diapositive sono state pubblicate per la prima volta su «Parkett», 43, 1995, accompagnate da un testo critico di Neville Wakefield, Yucatan is Elsewhere. On Robert Smithson’s Hôtel Palenque. Mancano le didascalie e diapositive 16-17 – che contengono riflessioni importanti sulla “disarchitettura” – che ho letto, in traduzione francese, in appendice a Gilles Tiberghien, Land Art (Editions La Découverte 2012).

Incidents of Mirror-Travel in the Yucatan è raccolto in Robert Smithson: The Collected Writings, a cura di Jack Flam, Un. of California Press 1996, che mi auguro venga tradotto presto in italiano. Sulla musealizzazione di Hotel Palenque: Greg Allen, Non-Sensical Non-Site Non-Art?: Smithson’s ‘Hotel Palenque’, ottobre 2006.

Sulla storia espositiva di Hotel Palenque, un resoconto della mostra curata da Pablo Leon de la Barra.

Su Smithson in Yucatan, fondamentale è Jennifer Roberts, Mirror-Travels. Robert Smithson and History, Yale Un. Press 2004, che gli dedica un capitolo intero. Cfr. anche Philip Ursprung, Allan Kaprow, Robert Smithson, and the Limits to Art, Un. of California Press 2013.

Sull’ingresso della critical theory nelle accademie d’arte americane: Howard Singerman, Art Subjects: Making Artists in the American Universities, Un. of California Press 1999.

Sulla lecture performance nel contesto dei film studies: Erik Bullot (a cura di), Du film performatif, It: éditions 2018.

Sulle immagini proiettate: Darsie Alexander (a cura di), Slide Show. Projected Images in Contemporary Art, cat. della mostra, The Baltimore Museum of Art; Contemporary Arts Center, Cincinnati; The Brooklyn Museum of Art, 2005. Rimando anche al mio La diapositive dans l’histoire de l’art, «Ligeia. Dossiers sur l’art», 77-80, luglio-dicembre 2007, pp. 56-65.

Infine, le famigerate foto dell’hotel prese da Google Maps si trovano, a proprio rischio e pericolo, qui.

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