La macchina per scrivere

9 Giugno 2011

Poco più di centocinquanta anni è durata la macchina per scrivere. Da quando un novarese, Giuseppe Ravizza, l’aveva pensata e realizzata per aiutare la scrittura dei non vedenti. Adesso la sua invenzione, contestata da un altro creatore americano, si è estinta. L’ultima fabbrica, localizzata in India, chiude: non ci sono più ordini. Tutti, o quasi tutti, oggi scrivono con il computer. Oppure a mano, con la penna o la matita, dal momento che l’unico vero concorrente della videoscrittura è il quaderno, o piuttosto il moleskine. Il mondo meccanico viaggia verso l’esaurimento.

 

L’immaterialità ha avuto la meglio. Ma cosa ci abbiamo guadagnato con la fine della tastiera meccanica? Di sicuro ora si fa meno fatica. Chi ha avuto modo di imparare a scrivere sulle macchine tradizionali – spesso con solo due dita – sa quanta energia occorresse per battere sui tasti, per sollevare il carrello, per imprimere le maiuscole, per dare alla riga un ritmo accettabile: la scrittura mentale seguiva, almeno inizialmente, il ritmo dei colpi dei polpastrelli sui tasti, e la fine della riga, vera unità di misura, era raggiunta da un suono: Dling! Si andava a capo, e si ripartiva con il filo dei pensieri. Ma c’erano gli errori da correggere: a mano, o ribattendo tra una riga e l’altra, oppure ricorrendo alla gomma da cancellare, ai fogli del correttore Pelikan, e da ultimo al “bianchetto”. Una vera battaglia campale, combattuta sui fogli A4, contro i tasti amici e nemici a un tempo, dal dattilografo, sia esso sconosciuto impiegato o invece celebre scrittore.

 

La macchina per scrivere è stato il principale strumento di comunicazione in un’epoca che, almeno per l’Italia, in letteratura va da Pirandello a Pier Paolo Pasolini. Lo scrittore siciliano componeva ancora mano i suoi testi, poi li dattilografava con la macchina. Il poeta e cineasta in alcune fotografie appare chino sui fogli, a fianco della sua fedele Lettera 22. Si può dire che l’immagine dello scrittore, oltre quella del reporter e del giornalista, sia legata alla presenza dello strumento meccanico, cui corrispondeva nella fabbrica di carta degli uffici la schiera delle dattilografe, schiave della tastiera, che battevano a ritmo frenetico: catena di montaggio di fogli e documenti che hanno riempito gli archivi prima di sperdersi nel vento, o più spesso nelle discariche.

 

Il computer al contrario è leggero e silenzioso. Il foglio di carta immaginario che si apre davanti allo scrivente è pressoché infinito, senza inizio senza fine. La prosa scritta a mano è senza dubbio differente da quella ottenuta a macchina, e questa, a sua volta, diversa da quella elaborata con il personal. La prima avanza al ritmo del polso e delle dita, che descrivono sul foglio cerchi e linee arcuate, seguendo il mondo delle cicloidi, proprio della scrittura occidentale: pensieri sinuosi, arzigogolati, svolazzanti. La scrittura meccanica, impressa dai muscoli delle braccia sui tasti, si produce invece a scatti, dura e pura come il suo ritmo: lettera dopo lettera, parola dopo parola, la frase si compone tra assemblaggi forzati e spaziature necessarie. La scrittura con il computer, al contrario, appare decisamente magica: pura apparizione di lettere.

 

L’immaterialità della videoscrittura è tuttavia a metà strada tra le due. Possiede due nature in una sola: appare dal fondo bianco senza sforzo, ma è pur sempre composta di “caratteri”. Per questo i pensieri somigliano a lampi nel buio, meglio nel bianco del foglio virtuale. Si vola, senza fatica e senza resistenza, per pagine e pagine.

Se le vecchie macchine per scrivere hanno salvato gli uomini e le donne dall’incombente mondo delle turbe grafiche (tremolio, atarassia, pause, corea), evitandoci l’esperienza dell’agitazione e del turbamento in agguato nella scrittura a mano, che non a caso i grafologi erano in grado di leggere come un fondo oscuro, sfiorando i tasti del personal computer, touch, ora sembriamo privi di spessore. Come le lettere che raduniamo sul visore, noi scriventi siamo puri effetti di superficie. È probabile che con le macchina per scrivere si estingua ciò che è profondo: l’inconscio.

 

Dopo il personal ci attende la telepatia: puro pensiero senza più mediazioni materiche. Scrivere e pensare coincideranno. La profondità sarà inabissata nella superficie, e la mente simile a un foglio. Noi stessi solo un foglio che si distende nel tempo e nello spazio. Seppur a termine.

 

 

 

PS.

Aggiungo alcune considerazioni all’articolo precedente uscito su “La Stampa”, suggerite a posteriori dalla rilettura del capitolo che Marshall McLuhan dedica alla macchina per scrivere in Understanding Media (1964), dal significativo titolo: “L’età del ferro capriccio”.

 

Al massmediologo canadese la macchina non suscita grande interesse a differenza invece del telefono e della radio ma non può, nonostante tutto, fare a meno di scrivere delle osservazioni come al solito eccentriche e preziose su questo strumento che appare nel suo schema mentale dominato da due figure opposte: la dattilografa e lo scrittore. Delle due è la prima che lo attrae. Alla fine degli anni Cinquanta la donna che batte a macchina nei grandi uffici americani deve essere stata senza dubbio dominante, anche nell’immaginario erotico degli uomini, come il cinema del periodo dimostra.

 

McLuhan esordisce ricordando come l’apparizione delle dattilografe segnò la fine dell’attività dei fabbricanti di sputacchiere; inoltre, queste donne “resero possibile una rivoluzione nell’industria dell’abbigliamento”. Quello che indossava la dattilografa “voleva indossarlo anche la figlia dell’agricoltore, in quanto la dattilografa era un simbolo popolare d’iniziativa e di abilità”. Una creatrice di moda impaziente di seguire la moda, così la definisce, stabilendo un contatto tra riviste di moda e dattilografe degli uffici americani. Con la macchina che usavano entrò nel mondo contemporaneo anche l’uniforme, effetto essa stessa di quel processo di omogeneizzazione generato dall’industria meccanica.

 

Ma è lo scrittore il personaggio positivo per lo studioso canadese, è lui che modifica il proprio processo creativo grazie alla macchina da scrivere. Nella stesura dei suoi ultimi romanzi Henry James è stato influenzato da questo strumento meccanico; la sua dattilografa non stenografava più, come accadeva ad esempio a Dostoevskij, ma batteva direttamente a macchina le sue parole. James era così affezionato al suono della macchina da scrivere che sul letto di morte ordinò che ci si mettesse a lavorare sulla Remington proprio accanto al capezzale. Un singolare congedo dal mondo al suono meccanico dei tasti, ma anche un modo per indicare il legame con il mondo che era cominciato all’inizio del XX secolo di cui James voleva, a suo modo, esserne il narratore: l’età dell’ansia.

 

McLuhan si domanda se il fatto che con la macchina era impossibile allineare a destra, non avesse influito sullo sviluppo del “verso libero”. E fa i nomi di Cummings, ma soprattutto di Pound ed Eliot che si servirono della macchina da scrivere con una grande varietà d’effetti: strumento orale, scrive McLuhan, e “mimetico, che permette libertà di eloquio nel mondo del Jazz e del ragtime”.

Di sicuro la macchina da scrivere favoriva la riscoperta dello stress del parlato, drammatico in poesia, mentre ottimo per la prosa, che ha nella macchina da scrivere il suo sviluppo. A Londra, di recente sono stati pubblicati in copia anastatica i suggestivi dattiloscritti delle poesie di Eliot corretti a mano da Pound.

Viene in mente, a proposito, la presenza di questo movimento di improvvisazione a tastiera, le pagine del Lunario del paradiso di Gianni Celati, pubblicato nel 1978, prima della comparsa dei computer, in cui la scrittura è sicuramente a macchina, come annota la voce narrante, e perciò possiede un andamento fortemente jazzistico.

 

Scrive il massmediologo canadese riguardo ai narratori e poeti del XX secolo: “Seduto davanti ad essa, il poeta improvvisa come un musicista jazz, vive l’esperienza dell’esecuzione quale composizione. Nel mondo non alfabeta si sarebbe trovato nella stessa situazione il bardo o il menestrello, il quale aveva molti temi ma non il testo”. Con la macchina da scrivere si può gridare, sussurrare o fischiare e si può rivolgere ai propri lettori buffe smorfie tipografiche.

 

Di recente è stato esposto il rotolo su cui Kerouac scrisse a macchina la prima stesura di Sulla strada, che è anche un modello letterario d’improvvisazione per tutti gli scrittori venuti dopo, compreso lo stesso Celati che deve molto al movimento beat americano. Fernanda Pivano ha scritto a proposito del rotolo sul “Corriere della sera” quando il lungo foglio ininterrotto è stato esposto a New York: “Mi dicono che ora lo scroll è pieno di macchie, è pieno d’impronte delle dita di questo sognatore che lo ha scritto a macchina alla velocità del suono, ubriaco come nei suoi momenti più geniali, disperatamente infelice come in ogni minuto della sua vita, a una di quelle macchine da scrivere che non esistono più. Per venti giorni ha scritto così la prima stesura di quello che è diventato Sulla strada. Era il 1951 e solo nel 1957 questo scroll è stato pubblicato, dopo essere stato rifiutato dai sei editori che non voglio qualificare, uno di questi perfino il cosiddetto editore dei Beat Lawrence Ferlinghetti”.

Un altro esempio di quel movimento jazz che la macchina induce in chi è pronto a sfruttarne le possibilità nel senso indicato da McLuhan. Ancora una volta si può dire con lui che per questo strumento “il medium è il messaggio”.

 

Lo studioso si spinge oltre e scrive nel capitolo del suo libro che la macchina da scrivere è stato un acceleratore al punto da stabilire una stretta associazione tra scrittura, discorso e pubblicazione. Ha anche creato le premesse per la vendita dei dizionari e degli schedari, oltre che le agenzie specializzate nella pulizia dei medesimi. Ma sarebbe stato il telefono a determinare l’espansione delle macchine da scrivere: una accelerazione e potenziamento del lavoro d’ufficio. Secondo la legge di Parkinson, citata da McLuhan, “il lavoro si espande in modo da riempire il tempo a disposizione per il suo completamento”, una regola su cui riflettere oggi che la divisione tra tempo di lavoro e tempo libero è stata superata dalla diffusione di computer, cellulari, smartphone, social network e altro ancora, tra cui la prossima cloud tecnology.

 

La conclusione cui arriva McLuhan nel suo scritto è che la macchina da scrivere si è rivelata dopotutto un veicolo molto ambiguo. Ha ragione? Probabilmente sì. Di certo questo media (ma lo è davvero?) non è né caldo né freddo, e perciò sfugge alla famosa e immaginosa distinzione creata da McLuhan, l’altra grande formula che ha fatto la sua fortuna. Alla faccia del fascino, oggi tutto vintage, di questo strumento prematuramente scomparso.

 

 

PS 2.

McLuhan usa l’espressione “macchina da scrivere”, mentre oggi si preferisce generalmente “macchina per scrivere”. Un fatto solo linguistico o invece “concettuale”? Dal da al per.

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