Speciale

L'osceno del linguaggio

10 Dicembre 2015

Daniele Gaglianone, noto per film come I nostri anni (2001), Nemmeno il destino (2004), Pietro (2010) e Ruggine (2011), ha realizzato numerosi documentari e cortometraggi, caratterizzati da uno sguardo rigoroso, lirico e militante. Cresciuto politicamente nella “scuola” dell'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza e aiuto-regista di Gianni Amelio, pratica un cinema attraversato dalla tensione tra realismo, anche tragico, e dimensione utopica, non senza ironia. Sotto il segno dell'urgenza di raccontare e di un cinema necessario, impegnativo per sé e per lo spettatore nella misura in cui entrambi risultano messi in gioco, l'esperienza del cambiare ha sempre un ruolo centrale nella sua narrazione visiva. L'attenzione alle condizioni materiali del quotidiano e a quelle umane del gruppo che produce un film sono una delle caratteristiche del suo stile e definiscono un'etica indipendente che si riflette nell'estetica. Questa conversazione con lui è diventata un'occasione per parlare di scuola, di storia, di rappresentazione, di migrazioni attraverso il filtro del cinema.

 

Nei tuoi film la scuola, così come la “periferia”, è sempre molto presente, sia come luogo di formazione per l'adolescenza sia come ambiente di socialità per adulti migranti. Che cosa è la scuola per te?

 

La scuola è nello stesso tempo uno spazio dove sperimentare, far vivere il possibile e anche un microcosmo che riflette le dinamiche della società che solo apparentemente resta fuori dall’aula. Spesso è una zona di frontiera dove entra in conflitto ciò che potrebbe essere il mondo con ciò che il mondo è.

 

 

La rappresentazione della scuola nell'immaginario italiano è spesso macchiettistica e banalizzata, uno scenario semplificato per dire qualcosa di altro. In un precedente articolo (La scuola raccontata dagli sciacalli) mi era capitato di invocare un nuovo realismo per raccontare la scuola. Che ne pensi?

 

Penso che raccontare la scuola significa raccontare un contesto che più di altri restituisce la temperatura del mondo in cui viviamo. Ma in questa restituzione gioca un ruolo fondamentale la natura dello sguardo di chi racconta. Quindi se chi racconta non vede o non desidera far emergere la dimensione allegorica di questo luogo e dar conto dei conflitti che ne emergono, è per che semplicemente non vuole farlo nella vita e nel suo cinema. Se lo sguardo sulla scuola risulta insufficiente superficiale e strumentale è perché si ha quello sguardo su tutto o quasi.

 

 

Uno dei tuoi ultimi film, La mia classe, è una non fiction, in cui a un certo punto sceneggiatura e realtà si sovrappongono e si confondono, in una collisione dai potenti effetti sullo spettatore.

 

Il progetto all’inizio doveva essere riconoscibile come una fiction con un grande legame con il reale: l’idea era quella di rifarsi al grande film di De Seta Diario di un maestro, dove un attore (Bruno Cirino) insegnava realmente a una classe autentica di bambini delle elementari. Nel nostro caso Valerio Mastandrea doveva interpretare un professore d’italiano che insegna a una classe di studenti stranieri che realmente stavano seguendo dei corsi di italiano. Avevamo concepito una storia che si ispirasse alla reale condizione degli studenti. Uno di loro, Issa, un ragazzo ivoriano, aveva paura di perdere il permesso di soggiorno ed era terrorizzato dall’idea di rischiare di tornare nel suo paese dove gli avevano sterminato la famiglia. Noi da narratori avevamo immaginato che ciò accadesse con tutte le sue drammatiche conseguenze raccontando la ricaduta di questo dramma all’interno della vita del professore e della classe. Questo era il film. Poco prima di iniziare le riprese però a Issa il permesso di soggiorno glielo han tolto sul serio. Questo ha comportato un corto circuito che ci ha messo in crisi completamente: io mi son sentito completamente inadeguato nella mia pretesa di raccontare qualcosa di “reale” all’interno del rassicurante perimetro della narrazione. Tra l’altro avrei dovuto dire ad Issa che, malgrado il film si ispirasse alla sua storia, non poteva lavorare al film in quanto sprovvisto di documenti e quindi “non collocabile” come lavoratore. Ci siamo sentiti degli idioti, pronti a girare l’ennesimo filmetto edificante su un argomento da cinema impegnato. A quel punto non mi interessava più. Insieme a Valerio abbiamo parlato a lungo e alla fine – dopo aver pensato seriamente di lasciar perdere – abbiamo partorito una strada rischiosa ma per noi l’unica praticabile per far emergere il disagio profondo che stavamo vivendo. Allora il film è diventato una sorta di doppio binario apparente dove convivono due livelli, uno della finzione dove Valerio è il professore che insegna (con lezioni vere però) agli studenti migranti; l’altro dove Valerio è Valerio, io sono io, gli studenti continuano a essere gli studenti. Una sorta di apparente backstage che però man mano che il film procede viene percepito sempre meno come tale. In questo livello la realtà sembra che entri a gamba tesa: difatti nel livello di finzione si racconta la storia di uno studente che perde il permesso di soggiorno (come capitava ad Issa nel progetto iniziale) e che chiede aiuto al professore che ovviamente glielo dà. Nel secondo livello quello della “realtà” abbiamo fatto finta che ciò che era capitato a Issa prima di cominciare le riprese accadesse durante le riprese e io, come bravo cittadino legalitario, lo sbattessi fuori dal set anche per il suo bene. Tutto questo girato con uno stile che disorientasse lo spettatore e lo facesse slittare continuamente da un livello all’altro per fargli saltare – come era capitato a noi – tutti i rassicuranti schemi attraverso i quali ci raccontiamo le cose metabolizzando i traumi. Volevo che gli spettatori provassero lo stesso disagio provato da noi.

 

 

Inoltre Valerio Mastandrea è l'unico professionista del cast e il girato dei dialoghi in classe con gli studenti è una delle parti più efficaci e realistiche del film.

 

Per girare il film in questo modo ho seguito questo metodo: per non perdere la freschezza della verità delle lezioni (basate su un canovaccio spesso concordato con gli stessi studenti dove si iniziava e si poteva andare a parare in luoghi non previsti) nelle parti più strutturate che dovevano appartenere a “ciò che accade sul serio”, ho deciso di raccontare agli studenti la nuova struttura del film ma di rivelargli ciò che doveva accadere solo poco prima di girare. La scena della discussione, quando Issa rientra in classe nonostante la nostra “espulsione”, è stata girata così: abbiamo iniziato la lezione senza Issa, che per gli studenti era semplicemente assente quel giorno, poi ho interrotto la lezione entrando in classe con lui. Ho detto che Issa nel film totale che stavamo girando (ovvero che comprendeva i due livelli che in realtà si fondono in un livello unico il… terzo!) avevo sbattuto fuori Issa perché era irregolare e non poteva lavorare nel film. Ora Issa rientrava perché voleva continuare a fare il film (che nel set divenuto allegoria della società significa voler continuare a vivere, ad avere il diritto di farlo) e io lo sbattevo di fuori di nuovo. Era chiaro che non era vero ma ho chiesto agli studenti che cosa mi avrebbero detto se o lo avessi fatto sul serio. E abbiamo girato, litigando per 25 minuti di fuoco in un clima surreale dove tutti sapevamo che non era vero ma in quello spazio lo era diventato.

 

Tu hai fatto sia documentario che narrazione di finzione: in ogni caso il tuo cinema ha come tratto distintivo un rapporto urgente e politico con la realtà, una politicità sentita in modo problematico. Qui, il tuo lavoro più recente, sulla Val Susa e sul movimento di opposizione alla Tav e allo stesso tempo il racconto di una comunità e la descrizione di una lotta.

 

Questo è un aspetto che legittimamente viene colto da chi guarda ciò che faccio. Ma io non ho un approccio militante alle cose perché sono, nella vita, abbastanza inetto ad ogni forma di militanza. Mi sento inadeguato, spesso in ritardo. E allora forse utilizzo il cinema per mediare tra la mia inadeguatezza e la realtà. Io ho sempre e solo parlato dei fatti miei. Ma i fatti miei sono questi, dalla val di Susa alla classe degli studenti migranti.

 

 

Durante la tua formazione hai avuto un maestro come Paolo Gobetti all'Ancr di Torino, e I nostri anni è il film sulla Resistenza che nel 2001 ha contribuito a mettere a fuoco un paradigma sulla differenza tra storia e memoria. Rata nece biti (La guerra non ci sarà), è invece un contributo sulla “storia del presente”, le vicende della guerra in Bosnia, in cui questa viene raccontata da diverse generazioni. Qual è il rapporto del tuo cinema, raccontare storie, con la storia? E in questo senso cosa può dare il cinema alla scuola?

 

La cosa che mi affascina è il rapporto tra le storie intime private e personali che si schiantano contro il “Treno della Storia”. Arrivare alla Storia attraverso le storie o viceversa. Credo in definitiva la possibilità di un confronto, di un (ri)pensamento costante. Torniamo a La mia classe: quando Valerio Mastandrea racconta, alla fine del film, l’incontro con il cane egli diventa il film, nel senso che incarna il soggetto/oggetto del nostro sguardo in quanto realizzatori del film e anche agli occhi dello spettatore. Ed è qualcosa di inaccettabile, di osceno, come se, alla frontiera del mondo dei film, quel Valerio non avesse i documenti e non potesse passare. Può essere mandato via, scacciato, ma non può sparire. Nessuno di noi, né io regista del film, né Valerio interprete del film, né lo spettatore sanno dire chi è che parla in quel momento. Non si tratta del Valerio che abbiamo visto nel film come personaggio, in quanto si percepisce non corrispondere al Valerio inteso come soggetto nominato e nominabile, riconosciuto e riconoscibile al di là della presenza nel film (in altre parole: non può trattarsi del Valerio vero); non è il professore, personaggio interpretato e fatto vivere da quel Valerio; non può essere nemmeno il Valerio vero, quello che – appunto – è fuori dalla scena e che è all’origine dei due corpi che si muovono nel film (il professore e l’attore che lo interpreta); non può essere lui perché sta agendo su di sé per creare qualcun altro, un qualcuno a cui nessuno sa dare un’identità. Il vero Valerio non può entrare nel film se non attraverso una mediazione: è osceno come è osceno il finale del film dove lo studente senza documenti viene “veramente” preso dalla polizia. Si tratta di un finale osceno in quanto si trova al di fuori dei confini del film che la troupe ha finito di girare.

 

 

La prendo come una risposta vera, relativa al tuo modo di fare cinema, alla mia domanda à la Marzullo “su cosa ci può dare il cinema”...

 

Il film nella sua totalità è una sorta di paradossale messa in scena dell’osceno: ma cosa diviene l’osceno quando è in scena? Diventa un nodo irrisolto che vaga come un non-morto nella zona grigia esistente tra le definizioni, in quella no man’s land dove la volontà e necessità di definire non riesce ad arrivare e dove le cose appaiono indeterminate proprio perché ridotte alla loro essenza primaria che non può essere ricondotta a (e ridotta da) nessuna definizione. Questa condizione di oscenità è intimamente legata alla dimensione speculare dell’immagine intesa innanzitutto come immagine creata: di fronte ad essa – al di là di una possibile consapevolezza – tutti si ri/specchiano, semplicemente perché ognuno di noi sa (anche senza rendersene conto) che quando guardiamo dentro un obiettivo vediamo inevitabilmente riflessa la nostra sembianza: sappiamo che questo incontro avviene anche quando guardiamo qualcuno negli occhi. Da qualche parte il nostro corpo sente che laggiù, nella pupilla dell’altro, esiste la nostra ripetizione. L’unica cosa che non vedremo mai siamo noi stessi; e meno che mai allo specchio, luogo che nella sua epifania rimanda una copia che modifica fatalmente lo status di chi si sta guardando. Protagonisti della scena del nostro vivere saremo sempre nello stesso tempo fuori scena, saremo sempre intimamente osceni. Questa segreta indeterminatezza è intollerabile perché non abbiamo un posto dove metterla, così come non sappiamo dove mettere né Valerio che ci racconta del cane né il film stesso: è finzione? O è un documentario? Questa condizione di non-qualcosa trascende il film: non è infatti la condizione di tutta quella umanità che abita sempre più numerosa quegli spazi creati appositamente (le non-galere: i centri di identificazione ed espulsione) o di quelli che impongono la loro presenza in modo autonomo, spazi interstiziali e marginali dove riporre l’inaccettabile, l’indeterminato, ciò che sfugge alle categorie utilizzate dalla società democratica per creare la propria immagine di sé, dove allontanare tutto ciò che non può stare in scena perché nel vocabolario della democrazia non si trova un nome che gli dia cittadinanza? I profughi ammassati ai reticolati e ai muri di confine, i migranti attaccati ai barconi e quelli annegati in fondo al mare non rappresentano forse questa oscenità che spinge ed entra in scena senza né definizione, né permesso? Tutto questo rompe la dicotomia fra dentro e fuori creando uno spazio incollocabile che però non risulta estraneo perché lo percepiamo intimamente connesso a quello stesso sguardo osceno che siamo impreparati a vedere e che ci esplode in mano facendo saltare tutti i nostri confini mentali e materiali. La questione migratoria, lo spostamento di viventi che cercano uno spazio dove semplicemente far vivere il proprio corpo, condizione sine qua non che rende ogni altra condizione possibile, mette in crisi la fragile struttura dell’edificio di senso (e del linguaggio che lo sostiene e lo esprime) in cui abitiamo. L’oscenità rimanda all’impossibilità di vedere il proprio corpo senza una mediazione, sia che si tratti di una mediazione politica, ideologica, artistica, sia che si tratti di un semplice specchio o di un obiettivo di una camera, la stessa camera a cui si rivolge lo studente espulso dalla classe e dal film nell’istante finale: “Mi stanno portando via, riportandomi nell’osceno. Mi vedi o non mi vedi? E se mi vedi, cosa fai adesso?”. Dopo quello sguardo non c’è più nulla.

 

 

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