Architettura, grafic e product design / Silvio Coppola e la corporate identity
Non sempre la storia del design è stata scritta negli spazi ad esso deputati, quali gli studi dei designers (sia della bi che della tri dimensione), i laboratori e gli opifici o i prestigiosi siti espositivi di richiamo internazionale; a volte essa ha preferito vergare qualche sua pagina in luoghi altri da quelli dell’ufficialità conclamata. È il caso del ristorante milanese el Prosper, dove, tra una risata e un risottino e un buon bicchier di vino, sono avvenuti incontri, sono nati progetti, sono stati abbozzati contratti per l’esecuzione e la produzione di alcuni tra i più bei pezzi del nostro design nazionale.
Diego Prospero (1922-2000), ticinese d’origine ma naturalizzato milanese, apre i battenti del suo ristorante in Via Chiossetto 20 nel 1966 e da subito esso diventa il punto di ritrovo prediletto (divertente definirlo “covo”) di architetti, di grafici e di imprenditori del settore dell’arredo e affini, e anche di giornalisti e di intellettuali meneghini e non.
Io ci sono stata qualche volta, da ragazza, con mio padre, che, insieme ad alcuni suoi amici architetti e imprenditori, ne era un assiduo avventore. Quando “il Prospero” era in vena (il che accadeva di sovente, stimolata la sua vena dalle goliardiche richieste dell’appassionata clientela) inscenava un vero e proprio spettacolo di cabaret vestendo i panni di un mordace e verboso sacerdote che predicava in dialetto bergamasco, pronto a dispensare sferzanti omelie all’uditorio, contrappuntate da pungenti analisi socio-politiche sui fatti di cronaca del momento. E quei panni non li vestiva solo metaforicamente, indossava davvero la toniga e ul capèl da prēt, finendo per somigliare, così abbigliato, al don Camillo di Guareschi interpretato al cinema da Fernandel, proprio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta. È indubbio che la cucina de el Prosper fosse una delle migliori della Milano d’allora, ma quelle prediche la rendevano unica e ancora più appetitosa.
Spesso gli avventori erano anche chiamati a fare da chierichetti al rito profano, e spesso blasfemo, di quello strampalato officiante burlone. Così si potevano vedere i nomi più prestigiosi dell’imprenditoria e del design prestarsi a mescere liquidi improbabili conditi da astruse giaculatorie che erano chiamati a ripetere ad alta voce nell’ilarità generale. E questo servigio non era ritenuto un’onta, bensì un onore ambito e conteso. Forse è proprio grazie al generale clima ottimistico, pervaso dalla gioia della ricerca, che gli oggetti di design degli Anni Sessanta hanno forme tanto accattivanti.
L’adepto più illustre (però raramente presente in sala perché troppo serio per pender parte alla baldoria) di quella brancaleonica combriccola era Silvio Coppola (1920-1985), il fedelissimo di “don Diego”, progettista dell’immagine coordinata e dell’architettura d’interni del suo mitico ristorante, evolutosi da mescita di vini a tavola calda nel 1882, per poi diventare el Prosper negli Anni Sessanta del Novecento.
Anzi è proprio nella corporate identity totalizzante di el Prosper, che Coppola sperimenterà per la prima volta la sua poetica della fusione tra architettura, graphic e product design, che andrà poi a confluire nel decalogo dell’ED (Exhibition Design). Questo gruppo di ricerca, di progettazione e di divulgazione, da lui fondato nel 1968 con l’obiettivo della convergenza tra le metodologie progettuali del graphic design con quelle dell’industrial design, vedrà l’adesione dei maggiori grafici di allora, da Giulio Confalonieri a Franco Grignani, da Bruno Munari a Pino Tovaglia (Mario Bellini vi si aggiungerà nel 1970).
Nel ridisegnare gli interni di el Prosper, Silvio Coppola non altera le strutture originarie dell’abitazione ottocentesca nella quale il ristorante era ospitato, anzi ne lascia ben visibili archi e colonne insieme ad alcuni brani dell’antica muratura, coniugandoli in modo armonico con oggetti di design allora all’avanguardia. Vi si possono riconoscere, pendenti dal soffitto, cui sono connesse con un braccio meccanico che consente loro una rotazione a 360 gradi, le lampade Snoopy (Flos, 1967) e Splügen Bräu (Flos, 1961) di Achille e Pier Giacomo Castiglioni; la Boalum (Artemide, 1970) di Livio Castiglioni e Gianfranco Frattini. A firma di Tapio Wirkkala (Rosenthal, 1963) erano invece piatti e bicchieri, mentre gli arredi, prodotti dalle due aziende delle quali Coppola era anche Art Director, erano su suo disegno: di Bernini le sedie in noce Modello 620 insieme a tutti i pezzi realizzati su misura; di Laminati Plastici le porte a ventola intelaiate in acciaio spazzolato.
Nel concepire el Prosper, l’artista fonde al progetto architettonico quello dell’immagine coordinata (logo, biglietto da visita, carta da lettere, bollettario, manifesti, volantini, menu, etc.), così che il monogramma dp ricorreva sulle posate, sui piatti, sulla porta d’ingresso del locale e persino nell’oblò interno (dove compare rovesciato) ed anche nella vetrina frigorifero collocata nella bussola d’ingresso, in una perfetta compenetrazione tra grafica e disegno industriale.
Silvio Coppola nasce a Brindisi nel 1920, ma sceglie Milano per vivere e per lavorare e al suo Politecnico si laurea nel 1957. Membro attivo delle associazioni di design tra le più prestigiose, quali l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), l’Art Directors Club (di cui progetta il famoso logo), l’AGI (Alliance Graphique Internationale), dove ricopre per due anni l'incarico di vicepresidente, e l’AIGA di New York, è stato il curatore dell’immagine di prestigiose industrie, tra le quali, oltre alle già menzionate Bernini e Laminati Plastici, si annoverano Valle-susa, Co-Fa, Bayer, Montecatini, Monteschell, Zucchi, Cinzano, Alessi, Cassina, Parmalat, Feltrinelli e molte altre.
I manifesti pubblicitari
Come scriveva Giancarlo Bernini sul numero 30 di Ottagono, a Silvio Coppola si deve il merito di aver proposto per primo il manifesto pubblicitario alle aziende italiane quale strumento di divulgazione dei loro prodotti al grande pubblico, ai non addetti ai lavori. Rinunciando alla ovvietà della carta patinata, egli preferiva realizzarli su fogli di PVC trasparente controplaccato a caldo con uno strato di metallo. Ne sono scaturiti degli oggetti di design di grande pregio, sia per il loro aspetto grafico che per il materiale con cui erano realizzati, pezzi che sono andati a ruba tra i collezionisti, in un periodo in cui collezionare manifesti era attitudine capillarmente diffusa.
La didattica e l’architettura
Uno degli assunti principali del gruppo ED, fondato da Coppola, era costituito dalla didattica, alla quale egli si dedicò con passione, insegnando design alla Gesamthochschule di Essen, all'Università di Wuppertal e alla U.I.A. di Firenze (Università Internazionale delle Arti) e tenendo seminari in varie università e accademie italiane ed europee. Un suo progetto didattico realizzato all’Accademia di Belle Arti di Carrara è stato addirittura segnalato all’XI Premio Compasso d’oro del 1979.
I suo impegno nella propedeusi del design non è mai venuto meno e ancora oggi appaiono magistrali i suoi articoli, apparsi sulla rivista Ottagono tra il 1970 e il 1972. Concepiti sotto forma di vere e proprie lezioni, avevano tutti per tema l’educazione al product ma soprattutto al graphic design e appaiono tanto più apprezzabili, perché di gran lunga antecedenti al fondamentale testo di Albe Steiner, “Il mestiere del grafico”, edito da Einaudi nel 1978, vera e proprio bibbia per tutte le generazioni di grafici successive.
Meno nota è invece la sua attività di architetto civile. Dal 1954 al 1958 è stato a Baghdad, dove ha realizzato alcuni edifici. Dal 1962 al 1974, poi, ha ricoperto la carica di architetto del Fondo Europeo di sviluppo per i paesi sottosviluppati. Con questo ruolo, tra il 1970 e il 1971, ha progettato e realizzato, a Lubumbashi nell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, gli edifici dell’École Supérieure Pédagogique. Questi si compongono di tre grandi corpi di fabbrica in cemento armato a fronte continuo. Declinati su tre piani quello delle aule e quello degli alloggi per studenti sposati, a un solo piano quello dei laboratori, in essi Coppola applica in modo diligente i Cinque Punti della nuova architettura, teorizzati da Le Corbusier e dai maestri del Movimento Moderno senza purtroppo raggiungere quella forza espressiva capace di connotarli distinguendoli da un’edilizia di tipo corrente.
Gli oggetti di design
Più conosciuta e apprezzata è invece la sua attività di designer di oggetti d’arredo, nella cui poetica è possibile individuare due linee di tendenza, corrispondenti ad altrettante fasi cronologiche. Nella prima, circoscrivibile agli Anni Sessanta, i mobili da lui disegnati si ispirano alla tradizione ebanistica lombarda (legno di noce, cura dei dettagli e perfezione esecutiva), cui egli aggiunge di proprio una speciale predilezione per la geometria.
Nel decennio successivo, anche grazie al suo sodalizio professionale con Bruno Munari, Coppola si impegna invece nello sperimentalismo e nella ricerca.
A interessarlo non è mai l’aspetto esteriore del prodotto, mai la sua forma, quanto piuttosto la logica progettuale che vi è sottesa, ovvero il processo attraverso il quale si arriva al risultato.
Così scriveva nel settembre 1969 sul catalogo della mostra del gruppo ED, dal titolo Design ricerche plastiche, tenutasi a Palazzo reale di Milano, nella Sala delle Cariatidi:
“Se dalle opere esposte potrà apparire un tipo di estetica, sarà l’estetica della logica, della coerenza globale; la stessa estetica (se così si può dire) riscontrabile nei prodotti della natura.”
Dal suo sperimentalismo, come si è detto, più tecnico che non formale, deriva la seduta Londra (Mobel Italia, 1973), una poltrona pieghevole e smontabile costituita da un rullo di legno e da una scocca di acciaio, con sedile in tela.
Per quanto concerne invece la ricerca, Silvio Coppola ha indagato soprattutto i temi dell’asimmetria del corpo umano e dell’equilibrio dinamico. Dai suoi studi sulla asimmetria discende la sedia Gru (Bernini, 1969), il cui nome evocativo dell’uccello acquatico ben rende la concezione della sedia che poggia su una sola gamba. Come una linea che trasli dal piano allo spazio, la sedia prende forma da un tubolare d’acciaio laccato curvato in sette punti su un modulo quadrato che, sviluppandosi in altezza, disegna la base, lo schienale e la seduta, poi riempita in poliuretano morbido calibrato e rivestita in panno o in pelle. La sedia Gru è stata concepita per essere impilabile e agganciabile.
Gli studi condotti da Coppola sull’equilibrio dinamico sono stati sicuramente favoriti dai suoi contatti con alcuni membri del Movimento milanese Arte Cinetica e Programmata, di cui Bruno Munari è stato il teorico. Da questi discenderanno soprattutto due apparecchi per illuminazione: la lampada da tavolo Don (Tronconi, 1975) e la lampada da soffitto Quinta (Artemide, 1979, insignita del Premio Edison quello stesso anno e segnalata all’XI Premio Compasso d’oro). Anche per questi pezzi di design non sarà la forma a costituire il centro dell’interesse di Coppola, quanto, piuttosto, la loro possibilità di mutare la propria collocazione nello spazio, in relazione alla funzione che svolgono. Così, mentre la lampada Don, ottenuta dalla piegatura di un disco di alluminio, bordato lungo la circonferenza da una guarnizione in gomma nera, bascula con il semplice spostamento di un peso sferico lungo i fori praticati nella sua piegatura facendole mutare sia la posizione che l’intensità luminosa; la lampada Quinta, costituita da un semplice telo bianco, largo cm. 65 e alto tre metri che scende dal soffitto fino a terra, è invece dotata di un dispositivo illuminante (una leggera struttura in tubolare metallico) che, scorrendo lungo il telo, consente di spostare a piacere la sua fonte di luce diffusa. Il nome Quinta le deriva dal suo essere anche elemento divisorio di un ambiente, come una quinta teatrale, per l’appunto.
La grafica editoriale
Il campo in cui Silvio Coppola ha primeggiato è però di certo quello della grafica editoriale, dove il suo linguaggio innovativo si è imposto creando dei veri e propri capolavori entrati a far parte della storia della Grafica internazionale. La sua progettazione si connota per l’estrema versatilità, egli infatti realizza per le varie collane di Feltrinelli copertine molto dissimili tra loro, assolutamente svincolate da uno stile univoco ma sempre evocative del contenuto del libro che sono chiamate a rivestire. Così immagini fumettistiche si alternano a suggestioni mutuate dal Costruttivismo. In modo particolare Coppola sembra guardare alla grafica di El Lissitzky, soprattutto al famoso libro da questi progettato per l’ultima raccolta di poesie di Vladimir Majakovskij, intitolata “Per la voce” (1923), in cui l’artista russo aveva fatto un uso libero della parola scritta, componendone i caratteri (lettering) come se fossero stati modanature architettoniche o addirittura strutture portanti di un edificio che anziché nella terza dimensione si sviluppasse sul piano del foglio. Nella stessa maniera agisce anche Coppola in alcune delle copertine per Feltrinelli. Altre volte, invece, è quasi lirico nella scelta delle immagini e per la delicatezza dei colori.
Ma è a partire dal 1970 che egli darà vita ad un linguaggio grafico inconfondibile capace di cambiare le regole della grafica editoriale, già seriamente messe in discussione da Max Huber, da Bruno Munari e da Albe Steiner. Quando Feltrinelli gli affiderà il progetto grafico della collana “Franchi Narratori” (1970-1983), egli avrà un autentico colpo di genio e si inventerà un format assolutamente rivoluzionario. In perfetta sintonia con gli argomenti suggeriti dai titoli della collana, sceglierà infatti di impiegare solo immagini forti, violente, come violento e forte era il contenuto dei libri sui quali esse sarebbero comparse, quasi avessero voluto aiutare il futuro lettore a prefigurarsi ciò che sarebbe andato a leggere. Si tratterà quasi esclusivamente di immagini in bianco e nero, a volte macchiate di rosso, e anche qui la citazione alla grafica di El Lissitzky e a quella del Bauhaus appare esplicita. Altra novità sarà rappresentata dalle presenza del nome della collana in copertina e dalle sue dimensioni, più grandi rispetto a quelle del titolo del libro e del nome dell’autore stesso, a voler significare che il dato più importante era proprio l’appartenenza del testo a quella collana. Anche il suo posizionamento nella pagina non ha precedenti, il nome della collana correva infatti ai piedi di ogni copertina, sulla bianca, sulla volta, e perfino sui risvolti interni.
Autentica Archistar degli Anni Sessanta e Settanta (ricordo che mio padre, come molti a quei tempi, pronunciava il suo nome con ammirazione reverente), Silvio Coppola è stato del tutto ignorato dai manuali sul design italiano apparsi a partire dal decennio successivo. Invece i suoi pezzi di design sono oggi molto ricercati dai collezionisti e fanno bella mostra di sé nelle più prestigiose aste di design nazionali ed internazionali. Manca tuttavia una monografia su di lui, così come sarebbe necessario redigere un regesto della sua opera. Per fortuna al MIL (Museo dell’Industria e del Lavoro) di Sesto San Giovanni, all’interno del Fondo Giovanni Sacchi è consultabile un importante, seppur piccolo, Archivio Coppola; per studiarne l’opera, altrettanto prezioso è il materiale conservato allo CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) di Parma e anche quello della Fondazione Ragghianti di Lucca (donazione Pier Carlo Santini; SIUSA, Sistemi Informativi Unificati per le Soprintendenze Archivistiche), così come lo è il corpus dei suoi manifesti pubblicitari di proprietà dell’AIAP (Associazione Italiana del Design e della Comunicazione Visiva), recentemente arricchitosi con la donazione fatta dalla famiglia Prospero che, insieme a pochi altri, ha saputo mantenere viva la memoria di questo grande maestro ingiustamente dimenticato, come si augurano di fare anche queste righe.