Giocare e imparare / Tinin Mantegazza e L'albero azzurro

11 Giugno 2020

Il primo di giugno è morto a Cesena Tinin Mantegazza, il cui nome è legato in questi giorni da cronaca e media, soprattutto alla storica trasmissione Rai L’albero azzurro, dedicata ai bambini e ai ragazzi, andata in onda per la prima volta il 21 maggio 1990, e che nel 2020 ha festeggiato i trent’anni. 

Mantegazza, insieme alla moglie Velia, perché i loro nomi formano un inscindibile binomio che trattandosi di cultura per l’infanzia vien bene chiamare fantastico, creò uno dei pupazzi simbolo che ha animato la trasmissione: l’uccello Dodò. Ma fu ideatore e progettista, nel corso della sua lunga vita creativa, di oltre duemila creature di scena per la tv e per il teatro, come ricorda una mostra inaugurata ad aprile dello scorso anno a Bagnacavallo, al Museo delle Cappuccine: Tinin Mantegazza. Le sette vite di un creativo irriverente.

 

E infatti una delle caratteristiche della sua figura è l’inesauribile vena creatrice con cui frequentò campi disparati: quello del teatro e dello spettacolo – oltre a lavorare alla Rai, fondò uno dei locali mito del cabaret milanese il Cab64, dove debuttarono Jannacci e Gaber, e passarono musicisti e attori come Paolo Poli, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, e sempre a Milano fondò nel 1978 il Teatro del Buratto e diresse il Teatro Verdi –; il campo delle arti visive – fu scenografo, illustratore, pittore, fondò la galleria d’arte La Muffola, dove esposero artisti come Luzzati, Pericoli, Rossello, Ceretti  –; quello del giornalismo e della scrittura – collaborò con La Notte e il Corriere dei Piccoli  e per oltre 18 anni con Enzo Biagi, realizzando i disegni delle schede dei programmi condotti dal giornalista; e quello dell’animazione culturale e dell’organizzazione teatrale, anche a livello istituzionale – e qui l’elenco delle sue attività è lungo, a cominciare dalla fondazione di Astra, Associazione teatro ragazzi, nel 1977. 

 

Mentre sono al telefono con Claudio Madia, altro nome noto legato a L’albero azzurro di cui Madia fu primo conduttore insieme a Francesca Paganini, mi accorgo che il discorso su Tinin, che fu amato amico e amatissimo maestro, scivola altrove. E precisamente su tutto il lavoro meno visibile svolto in tanti anni di lavoro in campi che si nutrirono l’uno l’altro e che comunicarono l’uno con l’altro dando luogo a una ricchezza di esperienze, di studi, di sperimentazioni e di relazioni in grado di dar luogo a una cultura professionale solidissima, elargita con naturalezza, spontaneità e grande generosità.

 

 

Insomma, un eclettismo capace di dare una misura di ricerca umana e professionale indefessa che spaziava ovunque la curiosità portasse, e con una forte vocazione pedagogica. Perché Tinin e Velia Mantegazza, come capita ad alcune personalità molto creative e la cui creatività ha a che fare con una dimensione collettiva – come il teatro, lo spettacolo, il giornalismo – dove l’opera è il risultato di una macchina che funziona solo se si è capaci di lavorare con gli altri, sono stati e continuano a essere anche due grandi maestri, capaci di far crescere accanto a sé il talento e i percorsi professionali degli altri. 

E infatti una delle parole che torna di più nella conversazione con Claudio Maida è squadra. Torna la capacità di Tinin e Velia di creare squadre di lavoro, di fare squadra, una dimensione collettiva di esperienza in cui ognuno è spinto a dare il meglio di sé e delle proprie competenze, non per una idea di successo o di performance fine a se stessa, ma per un profondo rispetto dello spettacolo, del teatro, della musica, del pubblico, in particolare di quello dei bambini. 

 

Claudio mi spiega che una delle grandi virtù dei Mantegazza è stata la capacità di fare rete, di far comunicare ambiti, come portare nel teatro per i bambini i migliori artisti, attori e musicisti sulla piazza, per esempio quelli conosciuti all’epoca del Cab64, come la Vanoni, Paoli, Ricki Gianco. Ma nello stesso tempo anche dare credito a persone giovani e poco conosciute, all’inizio del loro percorso di lavoro e di vita, magari in ambiti aut off. Per esempio, l’interesse di Tinin per i circhi, la giocoleria, il teatro di strada (in Italia poco frequentato, fino a non molti anni fa), i burattini, le forme di spettacolo più popolare – interesse che si concretizzò in una serie di azioni per sostenerlo e promuoverlo –, andò ad alimentare da una parte la qualità e la vivacità di programma televisivi come L’albero azzurro, dall’altra fece sì che ambiti considerati marginali o desueti acquistassero visibilità o riacquistassero impulso e freschezza, si rinnovassero, contaminandosi con forme ed esperienze di discipline d’arte contemporanee. 

In questo senso, il carattere più autentico dei Mantegazza è stato quello di essere fondatori, ispiratori, studiosi e sperimentatori, sempre attenti al sociale, capaci di pensare al plurale, di tramandare esperienze e conoscenze, tecniche, tradizioni, saperi.

 

Dei bambini i Mantegazza, nel tempo, si innamorarono, senza alcuna di quelle posture manierate e sentimentali che possono contrassegnare il comportamento di chi si dedica loro. Ironici, spesso sarcastici, ma anche sornioni e affettuosi, quello che apprezzavano incondizionatamente era la ricchezza del mondo e dell’immaginario infantile. Per esempio una disposizione giocosa all’errore, all’imperfezione come terreno di divertimento e apprendimento senza le pastoie del misurarsi a tutti i costi con la performance autoriale. Ricordando l’audizione che sostenne alla Rai per essere preso alla trasmissione L’albero azzurro, a cui Mantegazza assistette, Madia mi dice: «Non avevo la preoccupazione di mostrarmi bravo a tutti i costi. Mi concedevo il diritto di sbagliare come sbagliano i bambini, con la leggerezza di farlo, considerando l’errore un’opportunità in più. Forse per questo gli piacqui. Questa era anche la sua filosofia che nel tempo ho sempre più fatta mia.» 

 

Mentre lo ascolto ricordare Tinin Mantegazza con parole di autentica gratitudine, mi accorgo di avere la tentazione, fatale in queste situazioni, di pensare che i tempi di cui si sta parlando non sono i nostri. Che nella Milano e nell’Italia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, quando Tinin e Velia Mantegazza cominciarono il loro straordinario percorso artistico e intellettuale, forse era tutto diverso e tutto possibile, perché erano epoche contrassegnate da una spinta ideale, sociale, umana diversa, e da una forza e una vivacità oggi impensabili. La tentazione di pensare che temperamenti creativi così poliedrici, oggi, in cui il lavoro è sempre più parcellizzato e specialistico, sono impossibili da esprimere, coltivare, e che raramente figure così carismatiche e non convenzionali possano trovare ascolto, spazio, riconoscimento. 

 

Non lascio, però, che il pensiero prenda corpo, perché una cosa mi pare di intuire nelle parole di chi Tinin e Velia li ha conosciuti bene. E cioè che la loro storia insegna che ognuno di noi il proprio tempo è chiamato a conoscerlo e costruirlo, che ognuno di noi il proprio spazio deve imparare ad abitarlo, farlo proprio e cambiarlo insieme agli altri, esattamente come hanno fatto loro, con costanza, impegno, dedizione, studio e passione inesauribili. E questo è quello che di più importante probabilmente può fare un artista per le generazioni di oggi e del futuro.

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