Bernardo Bertolucci. Io e te
Doppiozero dedica un piccolo speciale al nuovo film di Bernardo Bertolucci, Io e te, attraverso le recensioni di Pietro Barbetta e Margherita Chiti.
Potremmo inserirlo nella trilogia romana di taglio psicologico con La luna (1979) e L’assedio (1999). Due figli rifugiati in una cantina, nascosti sottoterra come accadeva a ebrei e dissidenti durante il nazismo, come ai sequestrati che s’innamorano dei sequestratori, come in un sogno: “ero nascosta nella grande casa del Padre, qualcuno mi stava braccando, mi cercava, sentivo il suo respiro; ma io ero in un luogo sicuro, sapevo che non mi poteva trovare”.
Così Lorenzo, figlio quattordicenne di una madre preoccupata, decide di marinare la gita sciistica della classe e rifugiarsi presso la cantina di casa.
Il ragazzo si presenta alla prima azione nello studio dello psicoanalista, un Pippo Delbono in sedia a rotelle. Che cos’è la normalità? Poi arriva a casa e trova la madre che parla al telefono di lui, di come abbia deciso da solo di andare dallo psicologo e di come lei sia contenta. Il figlio che va dallo psicologo per conto terzi, vecchia storia, che ancora impapocchia psicologi che ci credono.
Poi il rifugio in cantina di Lorenzo per una settimana, con un formicaio in scatola con cui comunicare. Viene in mente il Barone di Monteformica di Douglas Hofstadter, vero sistema che traccia linee di formiche che producono un senso, benché ogni formica funzioni senza senso, puro movimento. Come nel differenziale fonema/morfema. Una significazione senza significato.
Poi arriva un vero essere vivente, la sorellastra, della stessa sostanza del padre, holy spirit. Beve s’impasticca, si droga, ingoia qualsiasi cosa possa alterare la sua coscienza. Invadente, pretenziosa, antipatica, che si avventa come una poiana su questo scricciolo per sbranarlo.
Poi qualcosa accade, la scatola delle formiche si rompe, viaggiano liberamente per la cantina, i vestiti della contessa rimasta là fino alla morte vengono indossati, le uscite clandestine dalla cantina, la nuda proprietà, un uomo, le opere d’arte di Olivia. Una concatenazione di eventi trasformativi.
A Parigi durante il sessantotto gli adolescenti fanno gare cinematografiche, museali, politiche. Si rifugiano in una tenda e ci sono gemelli belli e incestuosamente innamorati, come sull’Olimpo.
A Roma in quest’epoca gli adolescenti si rifugiano negl’inferi, non hanno cultura (che non è vero, si osservino le fotografie di Olivia e gli interessi animalisti di Lorenzo), sembrano più sgraziati, butterati, stanchi, chiusi, studiano l’inglese, ma non lo imparano, a differenza del gelataio della Luna, più obbedienti o diversamente obbedienti, meno erotici, più rozzi. Più umani. Rispondono ai nuovi sintomi corrispondenti allo slegame sociale del discorso del capitalista, o, più semplicemente, trovano solo regole, senza affetto e protezione. Se la devono cavare da soli.
Unico luogo ove riescono: la vecchia lercia/elegante cantina di un quartiere residenziale. Non devono discutere su se sia meglio Buster Keaton o Charlie Chaplin, ma su cosa sia la nuda proprietà. Promesse che non saranno mantenute, speranze sempre minori. Rispondono all’etica del contemporaneo: tutto congelato, marmorizzato nel presente. Il futuro non esiste.
A Parigi nel Sessantotto tiravano le pietre contro la borghesia in ascesa (di cui eran parte), a Roma nel 2012 la borghesia in declino (di cui son parte) tira loro le pietre.
In realtà anche nei Dreamers le speranze sono assai poche. Bertolucci è memore degli insegnamenti del Maestro più di quanto non appaia nelle tecniche. Lo stile, insegnava Pasolini, non dipende dalla tecnica. Si tratta sempre di Ragazzi di vita o meglio di Ragazzi per la morte.
Pietro Barbetta
Io e te era un libro di una certa mediocrità. Diciamolo. Cercava di trasformare in romanzo quello che avrebbe potuto essere un più che dignitoso racconto, nulla di più.
L’incontro di due solitudini è materia abusata nonché frase di lancio delle più ricorrenti tra editoria, cinematografia, televisione e via riassumendo. Se ci fate caso non vi sembrerà vero quante volte riesce a ricorrere.
Partendo quindi da un materiale altamente potenziale proprio perché scarsamente sviluppato nella sua forma di origine, Bertolucci torna dopo The Dreamers (2003) che già era stato il ritorno dopo L’assedio (1999). Bertolucci “ritorna” spesso e sempre con gran clamore e squillo di tromba. Né The Dreamers né L’assedio – così come l’ormai datato Tè nel deserto – erano stati grandi episodi di una cinematografia decisamente molto poco costante e spesso sopravvalutata. Il rischio è di attirare l’ira funesta di chi difende il “maestro” sempre e comunque ma così è: seppur visti con l’occhio del grande regista, perché tutto si può dire ma non che Bertolucci non abbia occhio e mano da regista, i suoi interni borghesi con figure annoiate hanno fatto un po’ il loro tempo.
Qui parte infilando la solita strada che fila dritta nel cuore arido della borghesia italiana che, pare, ancora esiste e soffre, immutata, dei suoi drammi e delle sue famiglie disfunzionali alla Guadagnino. E i primi 20 minuti abbondanti di film fanno sospirare e dire “ci risiamo, un’altra storia di cui m’interessa ben poco con i soliti dialoghi improbabili”. Sonia Bergamasco mamma sempre troppo impostata, Pippo Delbono relegato alla ultra-didascalica presenza dello psicologo dell’adolescente – non si sa bene perché ci sia e perché sia in sedia a rotelle…. non avendo il suo personaggio che una inutile scena senza sviluppo - e quindi lui, l’adolescente protagonista, Lorenzo, un Malcolm McDowell giovanissimo e brufoloso, colto nella sua età più ingrata ed infelice, pieno di problematiche relazionali, emarginato, ossessivo, solo e solitario. Finge la partenza in settimana bianca e si chiude in una improbabile cantina - più grande e accessoriata di molti monolocali in affitto - con dispensa di cibo - autistica per quantità e varietà - fumetti, libri e una bella teca con formicaio, che è come la pistola di Checov: a un certo punto bisogna che cada e si rompa. E infatti…
Insomma, fino a qui tutto nella norma, ci si compiace del fatto che ancora una volta Bertolucci sia tornato per non tornare. Poi arriva lei. E tutto si spoglia delle fin troppo note convenzioni e piccole noie. Tea Falco, la sorellastra Olivia, figlia dello stesso inesistente padre e di una madre siciliana evidentemente capitata prima dell’inevitabile svolta borghese con la Bergamasco. Irrompe nella cantina e nella dorata reclusione di Lorenzo con un cappotto di pelo nero e una indomabile criniera bionda, uscita da un rave party, senza un soldo, tossica in astinenza e senza un posto dove andare. Lorenzo la odia, non la vuole lì ma ce la deve tenere se non vuole essere denunciato alla mamma che sta solo pochi piani sopra.
Nasce col ricatto questa convivenza forzata, col ricatto e con la reciproca incomprensione. Due mondi lontani che non si conoscono seppur originati dallo stesso seme. Ma evidentemente il sangue non è acqua e questo incontro improbabile si trasforma in piccolo viaggio di tenerezza, affetto, dolcezza e comprensione. E Olivia e Lorenzo usciranno dalla cantina per quello che non erano: fratelli. E noi usciamo dal cinema commossi, che è quasi sempre un valore aggiunto.
La presenza scenica della Falco, la verità che si porta in faccia, la sfacciataggine casinara con cui si muove hanno del magico: altro che Eva Green o Thandie Newton, qui impallidisce anche la Liv Tyler che ballava da sola. Questa bionda creatura col suo roco accento siciliano illumina ogni inquadratura in cui entra e trascina il film verso una deriva meno ovvia, più vera, più tenera e capace di osare una dolcezza inaspettata. E anche Jacopo Olmo Antinori e la sua antipatica, giusta, rigida infelicità adolescenziale diventano quasi più belli, un po’ più solari e quasi meno brufolosi.
Il futuro non sorride, anzi, ma forse per la prima volta fa sperare entrambi.
Non si perdonano certe brutture – come la scena della visione con la Bergamasco e Delbono che gattonano sul tetto trasparente…perché? - e certe inutilità - come la figura così poco sviluppata della nonna.
Continua ad essere un eterno ritorno senza un vero compimento questo di Bertolucci, che non convince per l’ennesima volta ma che, almeno, ha qui il pregio di commuovere, di toccare, di interessare e di lasciare un segno, senza passare invano.
Margherita Chiti