Homo ferens
Homo faber, homo loquens, homo ludens, homo ridens? Macché. Homo homini lupus? Meno che mai. A caratterizzare la specie umana rispetto agli altri animali è semmai l’homo ferens, il portatore: colui il quale decide di trascinarsi dietro, con denegata scomodità, una miriade di cose inutili, o in ogni caso ben poco necessarie nella maggior parte delle situazioni quotidiane. E per questo ha viscerale bisogno di borse che li contengano.
A proporre questa tesi semiseria – il portaborse come archetipo antropologico – è Steven Connor, che in Effetti personali (Cortina, pp. 289, € 19) passa in rassegna tutti quegli oggetti che, appunto, normalmente stanno riposti in una qualsiasi borsa: bottoni, carte, pettini, occhiali, fazzoletti, chiavi, pillole, spilli, elastici, caramelle, fili e quant’altro. Connor, docente di inglese a Cambridge, offre della questione una prospettiva fortemente letteraria, dove l’esperienza personale viene rielaborata alla luce di celebri opere, del canone e non, da Shakespeare a Forster, da Yeats a Joyce, da Swift a Beckett, da Carroll a Abbott, ma anche Bachelard, Sartre e molti altri.
Nelle borse delle donne, si sa, non sta bene curiosare. Peccato, pensa Connor, perché, a farlo, si perderebbe forse molto del mistero che mitologicamente le circonda, ma si capirebbe assai meglio il loro carattere e forse, ben più in generale, la loro identità. Sociale come antropologica. Perché per esempio nel fondo di una borsetta in disordine, confuse a mentine e scontrini della profumeria, fermacapelli e lentine di ricambio, accade di trovare cose apparentemente incongrue come un certo numero di pile elettriche? Perché le batterie sono difficili da smaltire, direbbe il razionalista: va trovato il contenitore specializzato dove gettarle via. Perché sono facilmente trasportabili, risponde Connor, e come tali dimenticabili all’interno di quel gruppo di enti che è possibile avere costantemente con sé. Cosa che vale, ovviamente, sia per le pochette femminili sia per i borselli maschili, sia, soprattutto, per quell’oggetto tanto quotidiano quanto fantastico che è il trolley da viaggio, sincero compagno di lunga vita per chiunque, oggi, si illude di essere parte attiva nel mondo. Così, “non sono le cose a costituire il bagaglio; è il bagaglio che attiva e secerne le nostre emozioni. Siamo esseri che tendono a sentirsi insopportabilmente leggeri senza ‘le nostre cose’. Sembriamo non essere in grado di trasportare noi stessi senza al contempo trasportare delle cose con noi. Le borse significano proprietà, identità, possesso di sé. Sono la memoria, il possesso di tutto ciò che siamo stati”. Di modo che, quando qualcuno intende obiettare che una tal cosa non fa per lui, in inglese colloquiale dice: “That’s not my bag, man”. Crediamo di condurre borse: in effetti sono loro che ci portano a passeggio.
Paraphernalia è il titolo originale del libro di Connor, e la pesante eredità giuridica del termine mette un po’ in secondo piano il ragionamento che vi si conduce. Il titolo italiano invece, traducendo comunque bene, rende ancor meglio la tesi di fondo del volume, aprendo la strada a una sua doppia lettura. Gli “effetti personali” sono le nostre cose intime, quelle che, appunto, ci portiamo sempre dietro. Ma, alla fine, siamo noi a essere un loro esito: le persone sono effetti di senso delle cose. Un pettine, un elastico, un mazzo di chiavi sono nostri “effetti personali” perché forniscono tessere preziose della nostra identità a mosaico.
Conferma tanto involontaria quanto imprescindibile di questa tesi solo apparentemente bizzarra, ma in effetti più che ragionevole, arriva da Antonio Costa, che nel recente La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock (Einaudi, pp. 370, € 35) svolge un’indagine a tutto campo sul senso delle cose nei film. Laddove solitamente gli studi sul cinema parlano di autori o generi, risvolti sociali o innovazioni tecnologiche, Costa – mimando il gesto che vent’anni fa Francesco Orlando volle fare con la letteratura – inverte il punto di vista e si mette da quello degli oggetti. O, meglio, delle cose. Se gli oggetti infatti, sostiene Costa riprendendo un testo celebre di Remo Bodei, hanno un valore soprattutto strumentale per i soggetti a cui stanno di fronte, le cose valgono di per sé, per la loro plasticità, il loro aspetto estetico. Cosa che accade com’è noto nelle nature morte pittoriche. E, secondo Costa, ancor più nel cinema, dove finiscono per essere ricordate anche più delle trame o dei personaggi. Raccontando in relativa autonomia le loro storie. Di Delitto per delitto abbiamo ancora in mente lo zippo di Bruno malauguratamente scivolato nel tombino che non il nome del colpevole, le sequenze alternate fra Long Island e Coney Island, la tensione che sale… Di Provaci ancora Sam! colpisce senz’altro più la scacchiera che domina, apparentemente senza motivo, nell’appartamento sgangherato del protagonista appena lasciato dalla moglie, che non le sue complesse vicende psicanalitiche commentate aspramente dal fantasma di Bogart. E possiamo scommettere che del Segno di Venere avremo sicuramente più memoria del latte che accompagna spesso le inquadrature di quel donnone di Agnese (alias Sophia Loren) che non i palpiti amorosi della povera Cesira (alias Franca Valeri).
In un modo come nell’altro, le cose nei film sono tutt’altro che insignificanti, e considerare il cinema dalla loro prospettiva apre scenari tanto inconsueti quanto illuminanti. Sia per il cinema sia per le cose. Lo aveva capito, appunto, Hitchcock, maniaco nell’arredare al dettaglio ogni singolo ciak, il quale riusciva com’è noto a tener alta la suspence soltanto inquadrando di sbieco un portacenere o il vetro d’una doccia. E con lui tanti altri, da Godard a Antonioni, da Buñuel a Scorsese, da Visconti a Wenders, per fare soltanto pochi nomi. Ecco dunque, elenca meticolosamente Costa spaziando nella storia della settima arte, funzioni pratiche, simboliche, narrative o plastiche delle cose, mai muti arredi scenografici ma attori a tutti gli effetti dell’opera cinematografica.
Da qui, tornando a Connor, l’idea dell’homo ferens. Se gli oggetti non hanno nulla di oggettivo, poiché sono cose che parlano e che vivono, che fanno e fanno fare, con noi e come noi, non si capirebbe la ragione per la quale dovrebbero avere una dimensione esterna alla nostra. Cosa che vale per il cinema, mostra Costa, come anche, ed è in fondo la sua conclusione, per qualsiasi aspetto della vita, anche e soprattutto quella quotidiana. Terremo nascosto in borsa l’accendino di Hitchcock, con meno suspence forse, ma con altrettanta voglia di troppo umana reciprocità.