Archiearis parthenias / Una rara falena a volo diurno

10 Dicembre 2017

Era stato, come sempre, un inverno freddo, ma non gelido e, come sempre, si attendevano con ansia le gradevoli giornate del mese di marzo per le prime sortite sotto il sole tiepido di fine inverno alla ricerca di qualche insetto e soprattutto delle vanesse che svernano dove possono e, non appena la temperatura sale a livelli accettabili, escono felici con il loro volo planante ed elegantissimo. Ogni anno si seguiva questa routine che serviva anche a sgranchire gli arti dopo il letargo tanto detestato e a sferrare qualche volée con il retino riacquisendo quella dimestichezza perduta al freddo del grigio inverno. Si saliva a volte sui colli vicini, nella zona detta “Terre rosse”, un ambiente incontaminato e silenzioso dove il rosso e l’ocra del suolo argilloso si confondono e si mescolano con il bianco un poco sporco dei nudi tronchi di betulla e con il bruno giallastro dei rami ancora privi di foglie. Infatti, i primi germogli in questo inizio di stagione paiono assumere una tinta giallognola in attesa della poderosa esplosione di verde freschissimo che si osserva qualche settimana più avanti e che introduce con toni brillanti la piena primavera.

 

 

Con l’amico Piscopo, come sempre in questo debutto di stagione, si passeggiava discutendo sull’allungamento progressivo delle giornate, specie quando giunge il sereno dopo qualche giorno grigio e piovoso. Improvvisamente ci si rende conto che il sole tramonta più tardi e che l’asse terrestre, questa volta, ce l’ha fatta davvero a invertire la sua inclinazione a nostro favore, noi che si vive nell’emisfero boreale. Quel giorno dei primi di marzo decidemmo di visitare un luogo a brughiera dove l’amico Piscopo era già stato l’anno precedente in compagnia di una certa sua amica di cui non mi volle rivelare il nome, una ragazzina bionda a cui aveva spiegato, mi raccontava con fervore, come si catturano i satirini che in tarda estate volano ovunque tra la calluna e le betulle. Raggiungemmo quel bel sito dopo un faticoso viaggio in bicicletta inerpicandoci per una stretta via nel cuore delle Terre rosse. Lasciata la bicicletta in basso, prendemmo una zigzagante strada sterrata colore dell’ocra giallastra, piena di sassi e pietrame crollato dalla ripa che ne designava il lato orientale e che si sfaldava non appena sfiorato con il manico del retino. Osservammo con attenzione se c’erano foglie fossili tra queste pietre piatte e ne spaccammo qualcuna senza alcuna fatica, talmente erano friabili.

 

 

E intanto si saliva lungo l’ampio sentiero. Più in alto il terreno diventava davvero rossastro e la sterrata ora procedeva regolare tra due barriere di betulle e alte graminacee. Da qui si godeva di una bellissima vista verso le vallette più nascoste delle Terre rosse a levante. Era un immenso betulleto spoglio con, qua e là, piccoli castagni fra tratti rocciosi brillantemente colorati dove la betulla non cresceva. La tonalità verde scura di fondo era quella del brugo con i suoi fiori appassiti e secchi dopo il lungo inverno. Si vedevano in lontananza alcuni piccolissimi borghi, il paese di Sostegno dominato dalla bianca chiesa, e la vasta pianura a perdita d’occhio il cui orizzonte ultimo immerso nella foschia finiva per sciogliersi come se fosse inghiottito dal cielo chiaro. A nord, invece, avevamo le cime delle nostre montagne biellesi orientali con la piramide netta del Monte Barone di fronte. 

 

 

Eravamo su di una sella stretta tra il pendio attraverso il quale eravamo saliti e il dirupo verso il cuore delle Terre rosse. La neve non si era ancora sciolta del tutto e ampie chiazze bianche macchiavano il terriccio negli anfratti più ombrosi. 

 

 

Una sottile e piacevole brezza con il profumo della betulla saliva dalla valle e muoveva a tratti i sottilissimi ramoscelli delle piante.  Avvertivamo solo i twit-twit delle cinciallegre e, poco più lontano, il gracchiare di qualche coppia di cornacchie. Ma non volava nulla, con nostro grande disappunto. Salimmo ancora verso quella che pareva la cima di un colle e finalmente una veloce vanessa atalanta spiccò il volo disturbata dal nostro passaggio per poi posarsi su di un sasso e continuare a riscaldarsi al primo sole.

 

 

Improvvisamente, Piscopo alzando lo sguardo verso il cielo e la punta delle betulle più alte, notò, attraverso i suoi spessi occhiali da vista che portava già dalle scuole elementari, una farfalla strana, dal volo un poco altalenante e morbido, trasportata dalla brezza sino a scomparire nel vallone. Volava ad almeno sei o sette metri di altezza questa farfalla di piccole dimensioni. Pareva avere un colore bruno aranciato ed era una specie che nessuno di noi aveva mai visto prima. Non riuscivamo a capire di che si trattasse, poiché di solito ben poco vola in questa fase precoce della stagione. Non era una vanessa svernata e non era un pieride. Sapevamo bene che i satirini sfarfallano in estate e non certo a fine inverno; non era dunque neppure una specie di questa sottofamiglia di farfalle dal colore spesso sobrio, bruno o marrone. Ne vedemmo parecchie quel giorno dei primi di marzo, ma tutte in alto, sulla cima delle betulle, come quando si osservano le farfalle della canopy delle foreste pluviali tropicali. Alcune si posavano sui germogli su in alto e, in trasparenza e grazie alla luce del sole che le illuminava dal retro, potemmo constatare come l’ala posteriore fosse di un bel colore arancione brillante. Tornammo a casa che era ormai il tramonto e senza aver capito di che si trattasse.

 

Il nostro Martello, il manualetto a disposizione subito consultato, non mostrava nulla di simile. Sperammo così per qualche ora di aver scoperto una nuova specie: cercavamo di convincerci che nessuno di solito andava a caccia di farfalle in inverno e che, quindi, poteva trattarsi di qualcosa di assolutamente nuovo. Cominciammo a giocare sui nomi che le avremmo assegnato. Io l’avrei chiamata con il nome della località, le Terre rosse: qualcosa come Neosatyrus terraerubrae. Piscopo la voleva dedicare a quella sua amica con cui era salito in questi luoghi l’estate precedente alla ricerca di silenzio e di quiete. Alla fine, decidemmo che la si doveva catturare a tutti i costi per sottoporla all’esame di qualche entomologo dell’università che avrebbe potuto confermare la «scoperta». 

Così, tornammo il giorno dopo e ancora un altro giorno e un altro ancora finché, finalmente, riuscimmo a catturare il primo esemplare: una poveretta che aveva avuto la malasorte di scendere alla nostra altezza e, confusa, era finita nella rete. La guardammo con attenzione estrema: forse era una falena che pareva quasi una farfalla diurna. Le antenne però non ci lasciarono dubbi: erano filiformi e senza la classica clava terminale che distingue i ropaloceri, o farfalle diurne, dalle falene.  

 

 

Dunque si trattava di quello che a quei tempi definivano eterocero (ora questo termine è un po’ abbandonato dalla comunità scientifica e si preferisce non usarlo anche se non significa altro che «antenne di varia forma» al contrario delle farfalle che, invece, hanno regolarmente antenne «a clava» – di qui il termine «ropaloceri»). Prendemmo a esaminare questo bell’insetto: le ali superiori erano di un colore bruno con macchie e bande più scure e quasi sul nero e con altre biancastre vicino al margine superiore. Ma la bellezza era nelle ali posteriori di colore giallo-aranciato con disegni neri sul margine. L’esterno era giallo intenso con qualche disegno bruno-nerastro. Non riuscimmo subito a capire a che famiglia di falene appartenesse dato che aveva un aspetto peculiare e un corpo marrone con una fine peluria grigiastra come le frange alari. Quel giorno catturammo ancora un paio di esemplari che ci servirono per capire in quale specie ci eravamo imbattuti in questa prima sortita annuale. Osservammo a lungo il comportamento. La falena volava in alto, sulla canopy del betulleto, e scendeva a terra molto raramente e quasi esclusivamente per abbeverarsi nelle piccole pozzanghere che si erano formate il giorno prima dopo un piovasco. Era forse quello l’unico modo di avvicinarla: un comportamento peculiare, raro tra le falene che volano anche di giorno. Ogni tanto si fermava sui rami piu’ alti o sulle pietre in terra, e si posava a volte come fanno le farfalle, ovvero con ali a V e non piatte sul corpo come le falene. 

 

 

Notammo anche come era mimetica quando era posata sulla foglie secche: ci voleva un occhio addestrato per riconoscerla.

 

 

Molto eccitati per il reperto, tornammo a casa con i nostri esemplari nelle bustine triangolari che ci facevamo con la carta dei quaderni di brutta copia. Le preparammo come si conviene e infine, due settimane dopo, quando erano perfettamente essicate e con i dettagli alari ben in vista, provammo a identificarle usando qualche altro libercolo a disposizione. Fu solo la discussione con un esperto di falene, mesi dopo che ci consentì di giungere all’agognata diagnosi: era un geometride chiamato Archiearis parthenias, che apparteneva alla sottofamiglia degli archiearini, un gruppo di insetti con solo 4 specie in Europa. Una diretta parente della nostra parthenias è la specie Archiearis notha. La larva di questa seconda falena vive sul pioppo tremolo delle cui foglie si nutre. La trovò Piscopo solo molti anni dopo in una zona di baraggia in parte invasa da vegetazione mista. Questa falena ha abitudini simili a quelle della cugina: ama infatti posarsi frequentemente lungo le pozzanghere o sulla terra umida per poi volare sulla cima degli alberi e la loro canopy. In questa specie, la femmina è più piccola del maschio e quest’ultimo ha antenne pettinate. La colorazione di fondo, tuttavia, è molto simile a quella di Archiearis parthenias e solo un esperto può distinguere le due specie. 

 

Ci domandammo la ragione per cui non avevamo mai sentito parlare prima delle Archiearis né di aver mai letto nulla su queste stupende falene che volano alla luce del sole. Di certo, il volo molto precoce, quando la neve è ancora al suolo e non succede granché di visibile nel mondo degli insetti, le abitudini particolari di frequentare ambienti a betulla o a pioppo tremolo in modo esclusivo, la loro capacità di nascondersi alla vista dei più spiegano la rarità di informazioni e di osservazioni. Eppure si tratta di falene interessantissime che paiono quasi, anche se non lo sono, l’anello mancante tra i ropaloceri e le falene. Al contrario, questa sottofamiglia viene sempre collocata all’inizio della lista di geometridi perchè è ritenura il gruppo più primitivo della famiglia. Il volare già a fine febbraio delle Archiearis poi fa sì che si possa godere ancora in inverno della vista di qualcosa di eccezionale ed unico per la quale non occorre attendere la stagione calda come è il caso, invece, di quasi tutte le farfalle, diurne o notturne che siano. Nelle serate di quel lontano marzo le rare falene furono accuratamente collocate nelle migliori teche disponibili e almeno due giovanotti appassionati di insetti ebbero difficoltà a prender sonno ripensando ai betulleti delle Terre rosse.

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