Intervista a Giulia Flavia Baczynski / La fotografia è una scultura?
Mauro Zanchi: Ci puoi parlare dei territori immaginari che ritrovi nelle tue fotografie (scansioni stampate)?
Giulia Flavia Baczynski: Inizio riportandoti un frammento di un libro che per me è molto importante, L’invenzione della Terra di Franco Farinelli. In questo capitolo l’autore racconta di come i greci iniziavano a produrre modelli occidentali del mondo e di come fossero tutti, in fin dei conti e di fatto, dei geografi. “A quel tempo gli unici esseri viventi erano tre: il Cielo, la Terra e Oceano, che funge da sacerdote del rito. La Terra allora non si chiamava ancora Gé, la Gaia dei latini, che significa quella che ride, che splende, che brilla, ed esprime la chiarezza, la visibilità, dunque l’orizzontalità. La Terra allora si chiamava ancora Ctòn, termine che nel nostro linguaggio sopravvive nell’aggettivo ctonio, o ctonico, che significa sotterraneo, oscuro, profondo, invisibile, e dunque implica non l’orizzontalità ma al contrario la dimensione verticale, quella dell’abisso di cui stiamo cercando di ragionare. Così funziona il rito delle prime nozze al mondo, quelle più sacre di tutte, che saranno modello per tutte le altre: Ctòn, la sposa, si presenta velata e quando essa si toglie il velo lo sposo, il Cielo (che poi è Zas, cioè Giove) le mette sulle spalle il mantello che egli stesso ha ricamato. La sposa resta nuda soltanto per un attimo, e proprio in tale attimo, che era quello dello svelamento, per i Greci era possibile afferrare la verità. Il rito consiste appunto nella sostituzione del velo primordiale col mantello che è il dono dello sposo, ricevendo il quale la Terra si sposa e cambia nome, o meglio, proprio come da noi ancora oggi alle donne accade, aggiunge al suo nome un altro nome e diventa così anche Gaia, Gé. Ma questo mantello non è un semplice mantello, perché su di esso lo sposo ha ricamato dei disegni, ha intessuto in vari colori la forma dei fiumi, dei laghi, delle montagne e dei castelli, la forma dell’Oceano e del suo palazzo. In altri termini: su questo mantello è rappresentata per la prima volta la forma della Terra, ovvero Ctòn è per la prima volta trasformata in Gé, appare come tale e perciò lo diventa. (…) Alla fine delle nozze sacre quello che si vede è soltanto l’immagine sul manto delle montagne, dei fiumi, dei palazzi, in breve non la Terra come Ctòn ma soltanto come Gé, come semplice faccia, anzi come immagine della faccia: quel che possiamo vedere e perciò conoscere non è la cosa ma l’immagine della cosa, non sono vere montagne e i veri mari ma sono le immagini delle cose cui si riferiscono.
Le cose vere, le vere montagne, i veri laghi, stanno sotto il mantello, appartengono al corpo nascosto, ctonico, sotterraneo, oscuro, abissale della Terra stessa. Ma noi siamo condannati, se vogliamo tentare di conoscere qualcosa, ad accontentarci di ciò che si vede, e vedendo l’immagine di ciò che esiste crediamo di vedere ciò che esiste. Sicché la verità resta e resterà per noi celata per sempre e dovremo adattarci soltanto alle apparenze, alle illusioni.” Questo passo lo trovo particolarmente appropriato perché in qualche modo sto approcciando l’immagine della Terra, l’immagine di quella Gé che tutti conosciamo, ma utilizzando come materia prima del processo la carta stessa su cui il mondo è sempre stato rappresentato. Magari lavorando sul supporto e col supporto, modellando il mantello scopro cosa c’è sotto, chissà. Ritornando ai territori immaginari delle mie fotografie, quello che ti posso dire è che essi esistono. Non so dove si trovino sulla Terra, intesa come il pianeta su cui viviamo (e credo non sia un’informazione essenziale), ma proprio per il fatto che corrispondono e si avvicinano e contengono l’idea del paesaggio che ci è propria culturalmente sono reali. Tanto quanto l’idea che si forma nella mente prima ancora di diventare azione compiuta.
Cosa sta (e cosa si mette in moto) tra "l’idea che si forma nella mente prima ancora di diventare azione" e l'opera compiuta?
C’è la percezione di una forma, la sua visualizzazione che è ancora immateriale. Potrei definirla come una sorta di immagine latente che ancora non è sviluppata e compiuta del tutto ma che è lì. È una traccia per un processo che porta a dei tentativi di realizzazione fisica. In questo processo alcuni tentativi vanno a vuoto perché non sempre poi l’opera compiuta (nonostante sia ancora in progress) corrisponde a quella pre-visualizzazione iniziale. È una ricerca che si sposta a un livello diverso, perché scende nel dettaglio della singola immagine più che rimanere sul piano del concetto generale che sta alla base della serie.
Che valore dai alla luce che giunge dallo scanner e che entra nella scelta formale della tua ricerca?
Lo scanner mi permette di simulare il processo che l’occhio attua nei confronti della contemplazione della matrice di carta. La prima volta che ho realizzato una matrice l’ho osservata dinamicamente: l’ho ruotata, l’ho capovolta, l’ho osservata appoggiata su un tavolo con luce radente e sospesa nel vuoto controluce. Ecco, l’averla guardata controluce e aver visto come la percezione della materia cambia mi ha spinta a prediligere lo scanner alla macchina fotografica. La macchina fotografica mi restituisce solamente la fotografia di un foglio di carta increspato, mentre la luce dello scanner attraversa la carta traslucida trasformandola completamente. Prima ancora: questo vagare dell’occhio da un punto all’altro della superficie della matrice mi riporta la mente all’occhio alato di Leon Battista Alberti che vola per conto suo svincolato dal corpo ed il suo motto: e quindi? Come cambia la percezione e l’immagine del mondo se lo si conosce con gli occhi e basta anziché attraverso le gambe e il viaggio fisico?
Tu accartocci fogli di lucido, più volte, poi li spiani e li accartocci di nuovo, quasi fossi una scultrice inconsapevole in attesa di capire quale sarà il responso rivelato dalle linee, dalle increspature, dai segni, impressi per metà dal caso e per metà dal tuo desiderio di creare una ulteriore possibilità. E poi affidi la tua manipolazione alla luce e alla memoria dello scanner. Ci puoi rivelare cosa muove questo tuo fare tra l'azione sul foglio e l'apparizione della texture della serie Carta fisica della terra?
Questa serie sulle mappe non è nata con un'intenzione prettamente fotografica. Attraverso il mio lavoro, cioè costruire modelli di architettura per musei e mostre, spesso mi concedo di uscire dai tracciati rigorosi dell'esecuzione per sperimentare possibilità altre di rappresentare concetti spaziali o città o architetture singole. Non sempre queste sperimentazioni trovano un luogo appropriato nelle commesse. Il più delle volte alimentano ricerche personali che possono essere la base di tecniche da affinare sui modelli oppure rimangono nel campo della sperimentazione pura che converge poi nella fotografia. La Carta fisica della Terra è diventata tale dopo aver compreso che il semplice foglio di carta è uno strumento estremamente potente e versatile: da quando esiste è veicolo di informazioni, di racconti, di storie che vengono impressi sul supporto con inchiostri e grafite. Disegni, testi, mappe facilmente trasportabili e conservabili. La carta però non è un supporto neutro perché può diventare essa stessa un concetto spaziale se debitamente manipolato: piegata nel modo giusto sostiene un peso 50 volte superiore al suo ma è anche fragile, delicata, si sfalda, si brucia, si consuma, diventa bassorilievo, si plasma attorno ad un qualunque oggetto. Ogni carta poi ha caratteristiche intrinseche che la rendono unica e proprio su questo aspetto ho insistito. La carta da lucido che una volta era la base del disegno architettonico, se piegata produce una crepa bianca, un segno distintivo che diventa parte del supporto senza ricorrere ad agenti esterni. Più si piega e più segni compaiono. Come hai giustamente sottolineato, c'è una parte di casualità e una parte di intenzione che nel tempo mi hanno guidata in questo processo di costruzione e la parte di indeterminatezza mi ha spinta a continuare in questa direzione evitando la ripetitività del gesto (prova ad accartocciare nello stesso identico modo due fogli di carta... è impossibile). L'affidamento allo scanner è stato frutto di un ragionamento sulla luce e su come essa può essere utilizzata per veicolare un'idea nel modo migliore: ci sono tanti tipi di luce, noi stessi tendiamo a dividerla in categorie. Alle volte però capita che l'apparente banalità diventi una risorsa inestimabile. Basta cambiare punto di vista.
La tua è una “fotografia artificiale” o una “fotografia naturale”? (Luigi Ghirri definiva così le due categorie: “La prima, la “fotografia artificiale”, trova la propria collocazione nella produzione culturale a catena, ripete all’infinito se stessa, credendo di sfuggire agli stereotipi ed è quindi riproduzione. La seconda attua una sospensione – interruzione nella catena della riproduzione, che è simile ai diversi momenti dello sguardo naturale e interazione col mondo esterno”).
Stando a questa netta distinzione direi senza dubbio fotografia naturale anche perché non ritengo le mie opere come qualcosa che facilmente si colloca all’interno della produzione e del panorama culturale a catena di oggi. Vorrei però fare un ulteriore ragionamento sulla scorta delle definizioni di Ghirri. Recentemente un amico architetto mi ha fatto notare come queste mappe si possano collocare all’interno di un solco: da un lato c’è la matrice, l’unicum irripetibile, dall’altro lato c’è la riproduzione di questa unicità attraverso la fotografia che non punta solo a renderla fruibile dalla moltitudine ma ne è parte essenziale per la comprensione e la decodificazione. Quindi si configura come una sintesi tra il processo artistico delle sculture da viaggio di Bruno Munari e il concetto di riproducibilità di Gillo Dorfles sul disegno industriale. Scendendo di scala però, questa differenza tra fotografia artificiale e fotografia naturale la vedo come un monito importante che mi insegna a non cadere, all’interno della mia produzione, nel facile tranello della ripetitività che genera lo stereotipo alla base di moltissime altre produzioni artistiche e fotografiche contemporanee che non riescono più a uscire dalle maglie strette in cui si sono infilate.
Mi definiresti i termini "immagine" e "fotografia" all’interno della tua ricerca?
Ho sempre avuto una grande passione per l’etimologia, per la ricerca del significato e della radice dei nomi e delle parole con cui definiamo le cose del mondo sensibile. Sono convinta che l’etimo sia uno strumento importante con cui interagire perché di per sé contiene già le intenzioni che una parola rappresenta. La parola immagine ha la stessa radice di imitare e contempla l’azione, da parte dell’uomo, di rappresentare una cosa; ma immagine è anche la trasposizione di un’idea su un supporto (penso alla pittura e all’arte figurativa in genere, al surrealismo, al simbolismo, all’arte concettuale). Il tipo di meccanismo che le immagini innescano, per me, è il tentativo di decodificare un concetto/significato che l’autore ha rappresentato attraverso il segno. La parola fotografia invece significa letteralmente scrivere con la luce e ha a che fare con il far apparire su una superficie l’immagine visiva e ottica di un oggetto. La fotografia è uno tra i tanti tipi di immagini a cui si può dare luogo e per me è sempre stata la più misteriosa perché non si limita a trasporne la forma, il materiale, le dimensioni e il colore relativo ma in qualche modo cattura e fissa definitivamente anche aspetti più immateriali che rientrano nel campo dell’impalpabile. A questo proposito ti cito una riflessione che Edward Weston fece nei suoi diari: “ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…”. Ecco, per me, la sostanza della fotografia è questa, ed è questo aspetto che continuo a cercare ed anche il motivo per cui continuerò a prediligere la fotografia (anche le mie mappe sono fotografie nonostante siano ottenute con uno scanner, perché è sempre la luce il tramite per l’apparizione). Tornando un attimo all’immagine invece, non la ritengo meno (ho pur sempre avuto una formazione artistica) ma ciò che separa questi due concetti è quello che rimane invischiato nella trama della fotografia e che non ne esce più perché ne diventa parte fondamentale, aggiunge un metasignificato che va oltre a ciò che si palesa davanti agli occhi. Poi possiamo anche discutere di quanto, nella fotografia, ci sia la consapevolezza di questo aspetto ma è un altro capitolo.
Nelle tue fotografie vivono contemporaneamente un’immagine dinamica (quella della messa in discussione concettuale e dello spostamento dei pensieri in corso d’opera) e un’immagine apparentemente statica (come quella dell’astrazione pittorica), stando in equilibrio tra stati di quiete e movimento. Osservando le tue immagini mi pare che emerga una accurata ricerca della “sospensione”, evocando i tempi lunghi di lettura, la pausa di riflessione al di là della riproducibilità. In che ambito poni le tue immagini?
Questo senso di sospensione tra l’evidenza dell’immagine e la sua archetipicità a livello concettuale è la chiave di volta di questo lavoro. Non sono interessata all’esaustività che molta fotografia propone e trovo molto più stimolante utilizzare il simbolo e la metafora perché entrambi partono dal concreto per espandere il ragionamento in direzioni altre. Pensa al cielo stellato: sappiamo perfettamente che le costellazioni sono una nostra proiezione visiva e che le stelle che appartengono ad una costellazione sono distantissime tra loro sia nel tempo che nello spazio, è scienza. Ma nonostante questo ci vediamo orsi, cani, aquile, serpenti e donne e uomini e osservandoli a lungo costruiamo castelli mentali che sviscerano le questioni più ataviche. È il tempo che ci prendiamo per riflette e fare congetture su tutto questo che è importante e se queste fotografie si avvicinano anche solo minimamente a questa direzione allora è una buona cosa, anche se è solo la punta dell’iceberg.
Giulia Flavia Baczynski nasce a Verona nel 1982 e si laurea in Architettura al Politecnico di Milano. Il suo interesse primario è la rappresentazione e l'interpretazione dello spazio che l'uomo genera e nel quale vive. Negli anni il concetto di spazio, sia esso urbano e naturale o immaginato e concettuale, viene approfondito sempre di più diventando il nucleo della sua ricerca.