Ensemblematic
Cosa hanno in comune degli accumuli di grasso e vecchie scatole di cibo risalenti al periodo della DDR, metri di seta segnati compulsivamente con una penna biro blu, una grande pentola piena di gusci di cozze cosparsi di colla e vernice, dei piccoli lotti di terra strappati al loro contesto originario, delle austere griglie di ferro e metallo che si contraggono e dilatano nel corso del tempo mediante un dispositivo meccanico e una carcassa di cavallo ripiegata su se stessa riposta dentro una grande madia? Domanda insidiosa se presa troppo seriamente, implicita nella sincrasi del titolo dato a questa singolare mostra che vede riunite, nelle sale dello Stedelijk Museum Voor Actuele Kunst di Gent, opere di artisti come Panamarenko, Marcel Broodthaers, Thomas Schütte, Jan Fabre, François Morellet, Mark Manders, Berlinde De Bruyckere, Thierry De Cordier, Leo Copers e Joseph Beuys.
Se persuasi da quanto suggerito dalla parte iniziale di questo titolo, inizieremo molto probabilmente a notare somiglianze, sottili evocazioni, ad attivare senza sosta quella fitta rete di corrispondenze e conoscenze, di rimandi tra un’opera e l’altra, tra il pensiero di un artista e le riflessioni di un altro. In modo repentino, senza accorgercene, entreremmo all’interno di quell’infido meccanismo per cui si deve necessariamente ricordare, tessere legami, trovare nessi e significati, capire. Allora il feltro utilizzato da Panamarenko per costruire la sua pin up Feltra del 1960, potrebbe restituirci l’immagine eloquente del feltro usato da Beuys in molti dei suoi lavori, l’odore acre e nauseante della cera mischiata a del burro andato a male sprigionato dai suoi parallelepipedi di grasso, la sensazione di disfacimento, seppur all’apice della propria estetizzazione, delle sculture di cera, resina, epossido e pelle d’animale realizzate da Berlinde De Bruyckere (Aan-één, 2009), quest’anno rappresentante del padiglione belga alla 55° Biennale di Venezia. E ancora: l’arcipelago di piccole maquettes architettoniche in cartone e la serie di acquarelli realizzati da Thomas Schütte raffiguranti prototipi di case per una persona, rifugi per artisti e ripari per uccelli (Känguruh Siedlung, 2004; Pro status quo, 1981), i visionari congegni meccanici in ferro e legno dell’artista belga Mark Manders (Writing machine, 2004).
[Berlinde De Bruyckere, Aan-één, 2009, epossido, pelle di cavallo, legno, 310 x 203 x 179 cm, Collection S.M.A.K, Photo: Dirk Pauwels]
Tuttavia, stanno realmente così le cose? Davvero in questa mostra, come suggerito dalla parola ensemble, tutto è tenuto magicamente e organicamente insieme? O piuttosto dovremmo posare il nostro sguardo proprio al di là di questo recinto farraginoso di continui e supposti rimandi e lasciarci sorprendere da eccedenze, sproporzioni e contrasti inattesi, per l’appunto emblematici?
Nel prendere congedo dalla prima dimensione, deviamo nella seconda. A suggerire questa possibilità, un insieme di opere realizzate dal poeta e artista belga Marcel Broodthaers in cui, come all’interno di un complesso sistema crittografico, una semplice bottiglia di vetro pitturata di bianco con la scritta lait acquisisce tutta la forza evocativa dei nomi Charles Baudelaire, René Magritte e Oscar Wilde dipinti su delle preziose tele di piccolo formato color ocra collocate dietro di essa. Ma non solo. Accanto alla sala dedicata ai suoi lavori, ecco comparire Wirtschaftswerte, la grande installazione realizzata da Joseph Beuys nel 1980, in cui una serie di dipinti a olio di metà-fine Ottocento (nature morte, ritratti, paesaggi e intérieur) sono posti di fronte a vecchi sacchi di farina, saponette, scatole di latta e oggetti di plastica provenienti dalla Germania ai tempi della Repubblica Democratica. Da un lato, dunque, il lavoro di Beuys che attraverso il netto confronto tra due epoche restituisce un messaggio chiaro, socialmente e politicamente identificabile (tutti i quadri presenti all’interno della sua opera risalgono agli anni in cui ha vissuto Karl Marx), dall’altro Broodthaers che nella confusione controllata dei suoi gusci d’uovo usurati dal tempo, di parole parzialmente coperte da riquadri monocromi e di raccolte di poesie conficcate all’interno di una colata di gesso, ne annuncia il completo stravolgimento allegorico (289 Coquilles d’Oeuf, 1966; Pense-Bête, 1964).
[Joseph Beuys, Wirtschaftswerte, 1980, utensili vari e scatole di cibo provenienti dalla Germania dell’Est, scaffale di ferro, dipinti del XIX° secolo, burro solidificato, gesso, 300 x 400 x 265 cm, Photo Dirk Pauwels]
A colpire immediatamente, infatti, non è l’eventualità di un incontro tra questi due artisti, ma al contrario la possibilità di cogliere il punto esatto in cui si radicalizza la loro massima tensione. Joseph Beuys vedeva nell’arte la possibilità di una palingenesi, mentre Marcel Broodthaers, interrogandone criticamente i processi di reificazione, commercializzazione e mistificazione, ne fissava provocatoriamente e icasticamente i tratti e le similitudini nell’immagine del feticcio-merce. In altre parole Beuys, per utilizzare un’espressione cara a Harald Szeemann, ha costruito nel tempo la sua individuelle Mythologie dell’arte, laddove Broodthaers ne esibiva, sovvertendola dall’interno, il falso ideologico. Nulla di più lontano, quindi, da quell’apparente e sospetta unità tra opposti, inutilmente cercata tra le molteplici opere presenti all’interno di questa grande esposizione. La ricchezza e la complessità di questa mostra, infatti, non risiede solo nei richiami vicendevoli tra un’opera e un’altra, ma piuttosto nel lasciare aperte ed emblematicamente sospese le loro antitesi. Queste ultime, non risolvendosi in alcun insieme coeso e omogeneo, sono al contrario mantenute in un rapporto di costante antifrasi. Come in un asintoto due curve scorrono parallele all’infinito senza mai toccarsi, così l’ensemble composito di questi lavori si sfiora senza mai confondersi.
Ad avvalorare questa possibilità di sguardo su queste opere e sul loro controverso e polisemico reticolo di relazioni, un sontuoso specchio di legno color oro del XVIII° secolo sormontato da un’aquila. Simbolo eminente e autorevole di vittoria, orgoglio nazionale e sapienza, l’aquila in Ensemblematic acquisisce un ulteriore respiro semantico poiché forma emblematica di uno dei momenti più significativi del pensiero e dell’attività critica di Marcel Broodthaers riguardo al rapporto tra opera d’arte e potere istituzionale.
L’aquila, infatti, definita da lui stesso come “le colonel de l’Art” è colei che veglierà pazientemente e silenziosamente sul suo itinerante Musée d’Art Moderne, Département des Aigles e su tutte le sue differenti Sections. Ma c’è dell’altro, poiché quest’ultima non è disposta su un oggetto qualsiasi, ma su uno specchio convesso che, come sappiamo, ha la proprietà di deviare i riflessi e le immagini provenienti dalla realtà. Invertendo al suo interno lo spazio del museo e con esso i legami tra le opere, non potrebbe al contempo contenere e suggerire il rovesciamento stesso della nostra domanda iniziale e aprire la possibilità di chiederci cosa hanno invece tutte queste opere di radicalmente e straordinariamente diverso? Una risposta a questo interrogativo potrebbe abitare le parole stesse di Broodthaers il quale, rispondendo a una domanda ha detto: “Questo specchio è quello del paradosso. Sebbene sormontato dal messaggero di Giove, è uno specchietto per le allodole”.