Speciale

La fine del dandismo

17 Maggio 2015

Per molti secoli, ci sono stati tanti vestiti quante classi sociali. Ogni rango aveva il suo abito, e non c’era alcun imbarazzo nel considerare il modo di vestire come un vero e proprio segno, dato che la disparità di stato sociale era considerata naturale. Da una parte, il vestito era sottoposto a un codice assolutamente convenzionale ma, d’altra parte, questo codice rinviava a un ordine naturale o, meglio ancora, divino. Cambiarsi d’abito significava cambiare al tempo stesso modo d’essere e classe sociale: l’uno e l’altra si confondevano. Nelle commedie di Marivaux, per esempio, il gioco dell’amore coincide al contempo con il quiproquo delle identità, con il mutamento delle condizioni sociali e con lo scambio dei vestiti. Esisteva dunque una vera e propria grammatica del vestito, che non poteva essere trasgredita senza minacciare, non soltanto alcune convenzioni del gusto, ma soprattutto un ordine profondo del mondo: quanti intrighi, quante peripezie della nostra letteratura classica si basano sul carattere francamente segnaletico del vestito!

 

Sappiamo che subito dopo la Rivoluzione il vestito maschile è mutato profondamente, non solo nella forma (derivata essenzialmente dal modello quacchero), ma nello spirito: l’idea di democrazia ha prodotto un vestito teoricamente uniforme, sottoposto non più alle dichiarate esigenze dell’apparire ma a quelle del lavoro e dell’eguaglianza: il vestito moderno (l’abito maschile è praticamente ancora quello del XIX secolo) è in linea di principio un vestito pratico e dignitoso: deve essere adattato a qualsiasi situazione lavorativa (purché non manuale) e attraverso la sua austerità, o quanto meno la sua sobrietà, esso deve ostentare quel cant morale che ha caratterizzato la borghesia del secolo scorso.

 

Tuttavia, la separazione delle classi sociali non è stata per nulla cancellata: il nobile, vinto in politica, detiene ancora un notevole prestigio, sebbene limitato all’arte del vivere; e il borghese deve anch’egli difendersi, non tanto dall’operaio (il cui costume resta peraltro marcato) ma dall’ascesa delle classi medie. Diviene pertanto necessario che il vestito, per così dire, bari con l’uniformità teorica assegnatagli dalla Rivoluzione e dall’Impero: bisogna essere capaci di mantenere, entro un tipo ormai universale, un certo numero di differenze formali, incaricate di manifestare l’opposizione fra le classi sociali.

 

Proprio in questo momento compare nell’abbigliamento una nuova categoria estetica, destinata a sopravvivere per lungo tempo (ancor oggi il vestiario femminile ne fa grande uso; basta aprire una rivista di moda per rendersene conto): il dettaglio. Se non si può più cambiare il tipo fondamentale del vestito maschile senza attentare al principio della democrazia e della laboriosità, è il dettaglio (“nonnulla”, “non so che”, “maniera” etc.) a raccogliere la funzione distintiva del costume: basta il nodo di una cravatta, la stoffa di una camicia, i bottoni di un gilet, la fibbia di una scarpa per indicare le più sottili differenze sociali. Nello stesso tempo, non essendo più possibile – a causa della regola democratica – manifestare la propria superiorità di stato sociale, la si maschera e la si sublima con un nuovo valore: il gusto o, ancor meglio (e la parola è fortemente ambigua), la distinzione.

 

L’uomo distinto è colui il quale si separa dall’uomo volgare con determinati mezzi, il cui volume è modesto ma la cui forza – in qualche modo energetica – è molto grande. Dato che, da un canto, egli vuol farsi riconoscere solo dai suoi simili e, d’altro canto, tale riconoscimento è basato essenzialmente su certi dettagli, possiamo dire che l’uomo distinto aggiunge all’uniforme del secolo alcuni segni discreti (al contempo poco visibili e discontinui), che non sono più i segni spettacolari di una posizione assunta palesemente, ma semplici segni di connivenza. La distinzione, infatti, conduce la segnaletica del vestito a una via semi-clandestina: da una parte il gruppo al quale essa si dà a leggere è molto ridotto; da un’altra i segni necessari per questa lettura sono rari e difficilmente percepibili senza qualche conoscenza della nuova lingua vestimentaria.

 

Il dandy – per limitarci al vestito, dato che il dandismo non è solo un comportamento vestimentario – è colui il quale ha deciso di radicalizzare il vestito dell’uomo distinto, sottoponendolo a una logica assoluta. Egli porta la distinzione alle sue estreme conseguenze: l’essenza del dandy non è più sociale ma metafisica; il dandy non oppone la classe superiore a quella inferiore, ma l’individuo al volgare; l’individuo non è per lui un’idea generale: è se stesso, purificato da ogni possibile comparazione, al punto che, a rigore, è lui e lui solo – come Narciso – che sa leggere il suo stesso abbigliamento. Il dandy professa che la sua essenza, come quella degli dèi, può essere interamente presente in un nonnulla: il “dettaglio” vestimentario non è più, per lui, un oggetto concreto, per quanto minuto: esso diviene invece un modo, spesso sottilmente sviato, di frammentare il vestito, di “deformarlo”, di sottrargli qualunque valore, dal momento che si tratta di valori condivisi. Far indossare l’abito nuovo al maggiordomo, bagnare i guanti per farvi aderire perfettamente la forma della mano: ecco alcuni comportamenti che rivelano quest’idea, non più soltanto selettiva, ma profondamente creativa: gli effetti di una forma devono essere pensati, il vestito non è un oggetto a cui si cede ma un oggetto che si tratta.

 

 

Il dandismo non è dunque soltanto un’etica (sulla quale, dopo Baudelaire e Barbey, si è scritto molto) ma anche una tecnica. L’unione dell’una e dell’altra crea il dandy; dove è evidentemente la seconda a farsi garante della prima, come in tutte le filosofie ascetiche (di tipo indù, per esempio) nelle quali il comportamento fisico è la via d’accesso al pensiero; e poiché in questo caso il pensiero consiste in una visione del tutto singolare di se stessi, il dandy è condannato a inventare senza sosta tratti distintivi infinitamente nuovi. Se in certi casi usa la ricchezza per distaccarsi dai poveri, in altri va in cerca dell’usura per prendere le distanze dai ricchi. È sempre la funzione del “dettaglio” che gli consente di rifuggire dalla massa senza mai esserne raggiunto; la sua singolarità è assoluta nell’essenza ma moderata nella sostanza, poiché il dandy non deve mai cadere nell’eccentricità, in quanto tale facilmente imitabile.

 

In linea di principio il dettaglio consentiva di rendere “altro” il proprio vestito. I modi di portare un vestito sono infatti limitati, e se non intervengono alcuni dettagli di manifattura, le innovazioni della tenuta si esauriscono ben presto. È quel che è successo quando il vestito maschile è diventato in modo evidente industriale: privato di ogni ricorso all’artigianato, il dandy ha dovuto rinunziare a un abbigliamento assolutamente singolare, poiché non appena una forma viene standardizzata, anche se ha l’aspetto lussuoso, non è mai unica. Così, la confezione ha dato il primo colpo mortale al dandismo. Ma ciò che l’ha definitivamente rovinato è probabilmente la nascita delle boutiques. Le boutiques diffondono vestiti e accessori sottratti alle leggi della massa; ma non appena questa sottrazione viene inserita in un circuito commerciale, anche se di lusso, essa diventa immediatamente normativa; comprando una camicia, una cravatta o un fermapolsi da X o da Z, ci si conforma a un certo stile, e si rinuncia a qualsiasi invenzione personale (potremmo dire: narcisistica) della singolarità. Per un’esigenza fondamentale, il dandismo era una forma di creazione: il dandy concepiva il suo abito esattamente come un artista moderno crea una composizione a partire da materiali comuni (per esempio nel collage); come dire che, in definitiva, il dandy non poteva comprare il suo vestito. Ridotto a libertà d’acquisto (e non di creazione) il dandismo è morto: comprare l’ultimo modello di scarpe italiane o il tweed inglese ultimo è un atto eminentemente volgare, nella misura in cui esso presuppone una conformità alla Moda.

 

La Moda è in effetti imitazione collettiva di una novità regolare; anche quando essa pone come proprio alibi l’espressione di una individualità o, come si direbbe oggi, di una “personalità”, si tratta sempre di un fenomeno di massa, al quale i sociologi si sono spesso interessati, trovandovi l’esempio privilegiato di una dialettica pura tra l’individuo e la collettività. La Moda, del resto, è diventata oggi una faccenda di tutti, come prova lo straordinario sviluppo della stampa femminile specializzata. La Moda è un’istituzione, e nessuno può più credere che essa possa distinguere: solo il démodé è una nozione distintiva; in altre parole, dal un punto di vista della massa, la Moda viene sempre percepita attraverso il suo contrario: la Moda è la salute, la morale, di cui il démodé è la malattia, o la perversione.

 

Assistiamo così a un paradosso: la Moda ha distrutto qualsiasi singolarità pensata del vestito, prendendo tirannicamente in carico ogni singolarità istituzionale. Non è il vestito in se stesso a essersi burocratizzato (come per esempio nelle società senza moda) ma, più sottilmente, ogni progetto di singolarità. Inoculare, attraverso la Moda, un po’ di dandismo a ogni vestito contemporaneo ha significato uccidere fatalmente il dandismo, dato che, per essenza, esso è condannato a essere radicale o a non essere del tutto. Non è la socializzazione generale del mondo (come si potrebbe immaginare in una società dall’abbigliamento rigorosamente uniforme, al modo dell’odierna società cinese) a uccidere il dandismo; è semmai l’intervento di una potenza intermediaria tra l’individuo assoluto e la massa totale: la Moda è stata in qualche modo incaricata di trafugare e di neutralizzare il dandismo; la società democratica moderna ha costituito con essa una sorta di organismo di perequazione, destinato a stabilire un equilibrio automatico tra l’esigenza di singolarità e il diritto di ognuno a soddisfarla. Si tratta ovviamente di una contraddizione in termini: la società moderna l’ha resa possibile sottoponendo l’innovazione vestimentaria a una durata perfettamente regolare: sufficientemente lenta da poter essere seguita, sufficientemente veloce da accelerare i ritmi d’acquisto, e ristabilire tra gli uomini una distinzione delle ricchezze.

 

Con ogni probabilità, per quel che riguarda il vestito femminile, il numero elevato di elementi (di unità, potremmo dire) che lo compongono permette ancora una ricca combinatoria e di conseguenza un’individuazione autentica della tenuta. Ma abbiamo visto che – senza parlare di quei tratti psicologici (probabilmente narcisisti e omosessuali) che hanno fatto di esso un fenomeno essenzialmente maschile – il dandismo ha potuto esistere soltanto in quell’epoca effimera in cui l’abito era uniforme nel tipo ma diverso nei dettagli. La moda maschile – sebbene più lenta e meno radicale di quella femminile – consuma anch’essa la variazione dei dettagli pur senza toccare, per lunghissimi anni, il tipo fondamentale di vestito: essa priva quindi il dandismo al contempo dei suoi limiti e del suo alimento principale: è proprio la Moda ad avere ucciso il dandismo.

 

 

da Le dandysme et la mode, “United States Lines Paris Review”, luglio 1962, numero speciale sul “Dandismo”

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