Hinterland #1

1 Gennaio 2017

Da sposata Rosa era andata a abitare in un quartiere diverso da quello dove aveva vissuto con la famiglia. Mentre ci si avvicinava in auto, vedeva in lontananza l’enorme ammasso di cubi grigi che conteneva quello che rimaneva del suo passato e provò a non pensare al tempo in cui quella bruttura di prefabbricati per lei era casa e rifugio e quotidiano vissuto, ma non vi riuscì. Le aiuole erano già così vuote quando lei ci giocava a settepietre con gli amici? L’asfalto che gira intorno alla rotonda e si immette nel megacondominio aveva già allora tutte le buche che ora si ritrova a scansare?

 

Il cielo, che le appariva di un colore più neutro, come una campana di vetro fumé racchiudeva dentro di sé l’aria viziata e pesante che ora lei respirava a fatica, le restava sulla lingua amara e di un sapore che ricorda di aver conosciuto una volta, mentre si stava avviando con sua figlia Domitilla a passare sotto l’arco quadrato dell’ingresso al quartiere. Smisurato, si estendeva per centinaia di migliaia di metricubi di alloggi abitativi popolari e si chiudeva con un gruppetto di palazzetti privati costruiti uno a ridosso dell’altro e di ognuno dei quali era difficile intuirne l’architettura o averne almeno l’idea costruttiva primordiale da cui erano partiti per tirarli su. Le radici avevano spaccato i lastroni di cemento spargendo ciuffi d’erbaccia filamentosa che facevano rimbalzare male il pallone. Le crepe sparse nello spazio accerchiato del cortile condominiale si dilatavano formando ognuna due labbra gonfie che, come tanti piccoli vulcani, eruttavano una lava verdastra e infestante. Qua e là pozzanghere d’acqua piovana riempivano crateri di cemento armato male o poco.

 

Le parabole ai balconi dei palazzoni popolari, come enormi teste con il nasone, si affacciavano su quel paesaggio lunare intercettando e decriptando segnali satellitari trasferendoli ai decoder craccati a cui erano collegate con dei cavi volanti che attraversavano i muri o gli angoli sfondati delle portefinestre. Le persiane in quel momento erano chiuse a fare ombra, a dare sollievo da quel sole che dominava invincibile un cielo terso che vibrava e accecava con il suo grigiore luminescente. Era come essere nell’imminenza di una tragedia: una pioggia apocalittica era terminata da pochi minuti e le nuvole scariche si erano stracciate lasciando al loro posto un vuoto struggente. La prima luce aveva colto Rosa di sorpresa: spuntata all’improvviso, le case erano parse ammantate da quel chiarore che non lasciava vie di fuga e così tutto aveva acquisito una propria luminescenza, una rifrazione che aveva avvolto gli oggetti, mobili e immobili, che costituivano la realtà palpabile che la circondava e in cui essa stessa si stava muovendo. Come un mondo dentro a un mondo, il minicondominio di famiglia si innalzava per pochi piani verniciati di un celeste chiaro e le sue finestre affacciavano su altre finestre dove le stesse persone da decenni non facevano altro che rivedersi dentro la vita dei propri vicini in una teoria di scene tutte uguali, tutti i giorni sempre gli stessi e la vita che pare non scorrere mai e cambiare non si può perché qui le cose come le persone sono di granito.

 

Live in Bipiani, ph Paolo Manzo.

 

Qualcosa bruciava nella campagna vicina e una fuliggine nera gravitava sulle teste di tutti. Ancora non aveva spento il motore. Le mani sul volante come a fare finta di non essersi mai fermata. Domitilla come a uno zoo safari guardava dai finestrini i ragazzini che giocavano a pallone poco più in là. Rosa invece scorse un volto avvicinarsi al vetro di una delle finestre con le inferriate al piano terra. Doveva essere uno dei genitori di Irina, sua cognata, che l’aveva riconosciuta: da quando la figlia se n’era andata di casa abbandonando il marito Salvatore e la figlia Micaela si erano barricati dentro e non uscivano nemmeno a fare la spesa. Avevano paura di essere cacciati. Il padre si era fatto mettere il turno fisso di notte per non incontrare nessuno quando usciva o rientrava così da non dover rendere conto a chicchessia. Faceva il guardiano in un parcheggio a pagamento. Quando smontava all’alba si fermava a un bar, si faceva mettere quattro parigine in un sacchetto di carta e una busta di latte in mano e tornava defilato da sua moglie che lo aspettava affamata. Si dicevano ogni giorno che era ora di tornarsene in Polonia, che non si poteva vivere in quel modo. Se lo dicevano sempre mentre mangiavano svogliati le parigine ancora calde di prima mattina e bevendo il latte direttamente dal cartone. Se lo dicevano ma non lo facevano mai. Un po’ di granito era entrato anche dentro di loro a furia di respirarlo. Anche ora che Irina era tornata da qualche giorno a vivere con Salvatore non riuscivano a smettere quell’abitudine alla reclusione. 

 

Domitilla esultò quando vide che dal piano di sopra si apriva una finestra da cui Irina – canottiera corta fucsia e capezzoli sporgenti – si sbracciava per attirare l’attenzione della cognata facendosi rimbalzare davanti due seni schiaffeggianti. Rosa l’aveva notata (e insieme a lei l’intero gruppo di ragazzini precoci che aveva sospeso la partita di pallone), ma lasciava che la sua auto bruciasse ancora carburante e con le mani strinse con forza maggiore il volante come aggrappandosi a quella speranza circolare, alla possibilità che le dava quel piccolo e maneggevole accessorio di ferro e plastica di andare via da lì se solo lo avesse voluto. Se solo fosse stato necessario – o almeno se lo avesse ritenuto tale. Stringeva così forte che la punta delle dita erano esangui, poi iniziarono a formicolare, e dopo le dita anche le mani e le braccia, che non riusciva più a tenere davanti a sé, e crollarono e appresso a loro crollò tutto il resto: le spalle, il collo, la testa, i capelli unti schiacciavano il pulsante di gomma nel centro esatto del volante. Il suono che emise somigliava a un urlo disperato, ma questo lo pensò lei, ma non solo lei, nella lucidità viscerale che poco per volta si assottigliava e che infine sparì, perdendosi.

 

Live in Bipiani, ph Paolo Manzo.

 

Rimase soltanto l’urlo nel silenzio pieno dell’abitacolo, fino a che Domitilla non tirò su Rosa e le urlò in faccia che doveva svegliarsi, riaprire gli occhi, tornare in sé e non lasciarla. E infatti Rosa si svegliò, riaprì gli occhi, tornò in sé e ingranando la marcia ripartì lasciandosi dietro pensieri neri e parole contorte. Malasorte. Contagio. Epidemia. Morbo. Bocche distorte. Lividi sulla pelle malata. Come larve, né vivi né morti. L’impronta della testa sul guanciale. La conca nel memory foam. La carne fredda. Gli amplessi silenziati e gelidi. Il fuoco. La minaccia. Sua madre. I segreti. La violenza. L’innocenza. La parabola trigenerazionale. Necessario. Necessaria. Difesa. Difesa. Difesa. Arrivò a casa e non ricordava uno solo dei centimetri che aveva percorso. Si voltò e Domitilla era lì, che la fissava con occhi sgranati e un’espressione straziata. Come una maschera di cartone. Come un disegno bidimensionale su un’incerata. Ma era tutto ciò che aveva. Tutto ciò che le restava. Fu a causa di quella sensazione di assenza di profondità che Rosa non la abbracciò, pur restando nella sua posizione disarmonica con il bacino avvitato all’indietro, il collo tirato e le grinze sotto il mento e le mani ancora al volante: rimase così per tenerla d’occhio, per farle da guardia, la fisserà per sempre e non la perderà mai di vista, perché è quando ti volti dall’altra parte che ogni cosa ti sfugge, così Rosa, e ogni cosa passa, e le persone pure, e non tornano più.

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