Ritratto 14 / Levi e i sommersi

24 Luglio 2019

Nel mese di maggio del 1986 Levi pubblica il suo l’ultimo libro: I sommersi e i salvati. L’ha pensato a metà degli anni Settanta e si è messo a scriverlo tra il 1977 e il 1978. Sono quasi dieci anni prima dell’uscita. Ha proceduto con lentezza e per accumulo, scrivendo e riscrivendo, anche se nella sua idea generale il tema gli era ben chiaro sin dall’inizio: un libro in cui ripensava a quarant’anni di distanza l’esperienza del Lager, arricchito dalle riflessioni sue e di altri ex deportati, dai libri letti e chiosati nel corso di quei decenni. Perché, nonostante tutto, Levi non si era mai staccato dal Lager. Il 12 giugno lo presenta a Milano, presso la Libreria Einaudi diretta da Vando Aldrovandi. Hanno disposto delle sedie nella piazzetta dietro la libreria, che si apre verso via Bompresso. Lo introducono Oreste Del Buono e Aldrovandi stesso. Arriva parecchia gente ad ascoltarlo, parecchi giovani, ma anche reduci dai Lager; tanti in piedi.

 

Il libro ha subito sollevato una discussione per via del suo capitolo centrale, La zona grigia. Giorgio Bocca ha usato l’espressione “zona grigia” in un suo articolo su “La Repubblica” dedicato a Kurt Waldheim, il presidente austriaco, che ha servito le SS come interprete militare durante la guerra. E questo non ha fatto piacere a Levi. A Milano va per varie ragioni, non ultima che ha parecchi amici nella città lombarda; inoltre non è troppo distante da Torino. Oreste Del Buono l’ha recensito favorevolmente su “il Corriere della Sera”. Il pezzo l’hanno titolato Il lager dei nonni, alludendo allo scarto di età tra i deportati di un tempo e le giovani generazioni attuali. Anche Del Buono, scrittore, traduttore, animatore culturale e mentore di molti editori italiani, è stato deportato in Germania. Lo dice nel pezzo, e anche in un suo libro pubblicato nel 1945, due anni prima di Se questo è un uomo: Racconto d’inverno, presso le Edizioni di Uomo; vi raccontava la vita dei deportati militari, non i campi della morte in cui era stato Levi. Del Buono ha scritto che l’esperienza del Lager “è indimenticabile”, non come incubo, “anzi, esattamente, per la ragione opposta”. L’espressione “lager dei nonni” è sua e figura nella conclusione dell’articolo, là dove manifesta un certo ottimismo di fondo: se per alcuni il Lager è stato il luogo della morte, “per altri nonni è luogo di nascita, la vera nascita. Nonostante i sospetti, nonostante le autocritiche, nonostante i pregiudizi nutriti e ostentati riguardo sé stesso, Primo Levi in I sommersi e i salvati commemora la sua nascita”. Lo scrittore torinese deve aver apprezzato questo finale.

 

Tuttavia quel giorno a Milano non sembra molto allegro; appare abbattuto, anche se come sempre disponibile e attento ai suoi interlocutori. Risponde alle domande di Del Buono e poi a quelle del pubblico. Tra loro c’è anche una fotografa, Giovanna Borgese. Conosce Levi da tempo e ha portato la macchina fotografica. Giovanna ha cominciato come archeologa, e fotografare all’inzio è stato solo un aspetto del suo lavoro; poi si è dedicata al reportage e alle foto d’attualità. Scatta diversi ritratti a Levi. Tra loro c’è questa immagine, che coglie Levi con la mano sinistra sotto il mento. Sta ascoltando un interlocutore, probabilmente lontano da lui, poiché ha alzato gli occhi verso l’alto, o forse vicino e in piedi. Si tiene il viso, non lo sorregge, tuttavia il gesto ha qualcosa a che fare con uno stato di riflessione. Non sappiamo cosa sta dicendo il suo interlocutore né quello che lo scrittore gli ha risposto. Giovanna Borgese ha afferrato quel momento di sospensione. La mano nasconde in parte il pizzetto d’alpino, che l’ha caratterizzato nell’ultimo decennio della sua vita e che gli dà quella aria di vecchio saggio. Indossa giacca e cravatta con un motivo a scacchi parzialmente replicato dalla camicia. Non è solo un vecchio signore, sta infatti per compiere, di lì a poco più di un mese, sessantasette anni. Un’età che all’epoca lo colloca tra gli anziani, come ha ricordato lui stesso in una breve e spiritosa intervista pubblicata su “Stampa Sera”: Vecchio, io?. Lo scatto di Giovanna Borgese lo coglie in un’espressione insolita di perplessità, molto spontanea. I mesi che seguiranno questa presentazione, prima della sua improvvisa scomparsa, dieci mesi, saranno segnati da uno stato di profonda depressione.

 

Dopo la sua morte, gli amici, i critici, i semplici lettori, leggeranno I sommersi e i salvati come un libro testamento. Non è così. Lo è diventato per il gesto compiuto da Primo Levi, anche se è indubbio che il libro contiene un elemento fortemente pessimistico, tenuto appena a freno dalla tensione intellettuale che percorre i vari capitoli del libro, che raggiunge punti molto alti nello stile e nel pensiero. Un libro notevolissimo soprattutto per la grande onestà intellettuale che lo connota, e che segna tutta la sua opera di testimone e di scrittore. L’immagine di Giovanna Borgese ci permette di continuare a pensarlo così, con quella perplessità giudiziosa che è una delle caratteristiche di quell’ultimo libro pubblicato da vivo.

 

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