Daniel Carleton Gajdusek / Hanya Yanagihara, Il popolo degli alberi

17 Febbraio 2021

C’è qualcosa di inafferrabile nella maniera di scrivere di Hanya Yanagihara, potente e avvolgente, di sfuggente ma dall’effetto palese, credo si tratti di un dono sorretto dalla grande abilità con cui la scrittrice di origine hawaiana maneggia la sintassi e la adatti alla propria visionarietà, alla fantasia. Francesco Pacifico, traduttore di Il popolo degli alberi (Feltrinelli, 2020) ha parlato di virtuosismo letterario e di come quel virtuosismo sembri un atto di guerriglia politica; parole che trovano conferma quando si legge il romanzo. Yanagihara spariglia le carte della narrazione, le rimescola, destruttura la forma romanzo, la rielabora in un finto, doppio, memoir. Si ispira a una storia vera ma ne scrive una d’invenzione, che è, per forza di cose e di talento, più vera del vero. La prosa poi è bellissima, quando si comincia a leggere Il popolo degli alberi non lo si vuole lasciare, ma non è solo normale attaccamento da lettore, è qualcosa di più; si ha la sensazione che sostando tra quelle pagine si abbia la possibilità di catturare un aspetto, un punto di vista che fino a oggi ci era sfuggito e di imparare. 

 

«Quando compii undici anni mi regalò un libro che sulle prime sembrò un passo falso: Le vite dei grandi scienziati era un libro senza guizzi, illustrato in maniera infantile, con un testo offensivo tanto era vispo e semplice, concepito evidentemente per un seienne ottuso».

Il popolo degli alberi è il primo romanzo di Yanagihara, pubblicato nel 2013. In Italia arriva dopo l’altrettanto sorprendente Una vita come tante (Sellerio, 2016). Il romanzo, tradotto da Luca Briasco, contava più di mille pagine e pur raccontando una storia molto diversa, più contemporanea, con protagonisti che almeno in partenza conducevano vite normali, racchiudeva tra le pagine la stessa capacità di avvolgere i lettori, che – pur quando erano preda della tristezza o del dolore che toccava i personaggi – non riuscivano a smettere di leggere. The people in Tree – questo il titolo originale – era perciò molto atteso, il fatto che potesse deludere era contemplato, e invece è ancora meglio, Yanagihara esordì con un libro magnifico e indimenticabile.

 

«Per molti anni io stesso non ho creduto alle storie di mio padre: pensavo fossero racconti che inventava per divertirci. Ma alla fine cominciai a pensare che mi stesse dicendo la verità. Perché? Be’, per prima cosa mio padre è una persona molto onesta. Non l’ho mai visto insistere che una cosa è vera quando non lo è. E per seconda cosa, ha raccontato questa stessa storia ormai per così tanti anni che posso solo credergli, e siccome è mio padre, devo credergli.»

 

La trama (o le trame). Il romanzo è ispirato alla storia vera del virologo Daniel Carleton Gajdusek, che nel 1976 vinse il premio Nobel. Aveva individuato in una tribù della Papua Nuova Guinea, una malattia endemica, definita kuru. Nel 1997 venne arrestato con l’accusa di aver abusato sessualmente di alcuni dei bambini nativi che aveva curato. La vita del protagonista del libro ricalca quella di Gajdusek. Si chiama Norton Perina e ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 1974, in qualità di scopritore di una sindrome molto particolare, detta di Selene. È una malattia che ritarda di parecchio l’invecchiamento, e che si contrae mangiando un esemplare molto raro di tartaruga, specie presente in Micronesia. La malattia è capace di rallentare l’invecchiamento al punto che il corpo di chi ne è affetto può vivere ben oltre cent’anni, mentre la mente si sgretola come per tutti.

 

 

Un corpo che sopravvive nei secoli senza che il resto, intelligenza e sentimenti, lo supporti, mette quasi paura. Perina rimane molti anni in Micronesia per i suoi studi e adotta quarantatre dei piccoli del luogo, sui quali ha condotto i suoi studi. Saranno proprio alcuni di questi che a distanza di anni lo accuseranno di averli molestati. Perina racconta la sua storia, il suo memoir inventato, in un modo particolare. Comincia a scriverlo quando è in carcere, spinto da un amico, anzi da un vero leccapiedi, uno studioso minore che vive nell’ideale di Perina, e che non accetta che la rilevanza di una scoperta scientifica venga oscurata da qualunque cosa. Per lui perfino le molestie sessuali, alle quali in ogni caso pare non credere, vanno in secondo piano rispetto alla genialità dello scienziato. Parla di ingratitudine, di questo deve trattarsi.

 

«Era cruciale, a questo punto, convincere Tallent a lasciarmi portare alcuni dei sognatori fuori dall’isola, e con mia sorpresa acconsentì senza troppe discussioni. Naturalmente mi fece una lezioncina, anche lunghetta, sui pericoli di rimuovere dei nativi dal loro contesto, e su quanto fosse improbabile che riuscissero mai a reintegrarsi nella loro società al ritorno, ma i suoi argomenti sembrarono un po’ fiacchi, per non dire assurdi. Se non mi sbagliavo, presto quelle persone non avrebbero più avuto alcuna contezza del loro contesto in ogni caso, e la loro società li aveva già rifiutati, allora perché non prelevarli?»

 

Yanagihara è geniale perché scrive tenendo in piedi due registri, due punti di vista. Ci troviamo a osservare le memorie di Perina indirizzate all’amico che le raccoglie. Quello che è un diario molto particolare, viene registrato e commentato dal noioso dott. Ronald Kubodera, questo è il nome, che correda i suoi interventi e commenti con note grevi, dal tono monocolore del saggio accademico. Il secondo punto di vista è il suo. Il libro comincia con la sua prefazione e l’invito a Perina a scrivere le sue memorie, convinto che chi abbia avuto una vita tanto straordinaria, dedita alla scienza, non possa essere accusato di alcunché. Il primo aspetto interessante è quello classico dell’inferiore, del secondo della classe. Ronald, pur essendo uno scienziato abbastanza noto vive in completa adorazione di Perina, il vero genio, vuole salvarlo a ogni costo. In letteratura personaggi del genere vengono fuori ogni tanto, sono la sponda che consente al protagonista di emergere. La novità dell’autrice americana sta nel porre il dottor Kubodera nella condizione di inaffidabile totale. Amplificata dall’inaffidabilità, va da sé, di Norton Perina. Lo scienziato, inizialmente è riluttante, ma poi (e non solo per amore della sua verità, ma per egocentrismo) si convince a scrivere questo memoir dal carcere.

 

Perina racconta la sua vita, comincia dall’infanzia, dal rapporto con suo fratello (che diventerà un poeta famoso), da quello con i genitori, della morte misteriosa di sua madre, degli studi di medicina, di ricerca e di scoperta. Il tono di Perina non è empatico; è crudele e detestabile, molto riuscito, credibile fino in fondo, così come risultano perfetti i commenti e le introduzioni di Kubodera, col suo tono servile. La scrittrice rende meravigliosi due personaggi insopportabili. Leggiamo e andiamo avanti, talvolta mentalmente li insultiamo, ma ci appassioniamo. Così sicuri di sé da ricreare la verità, o meglio di mostrare solo il pezzo conveniente, dimenticando il resto. Si parla di scienza ma di potere, si legge di ciò che viene distrutto in nome di una scoperta – in Micronesia le sue ricerche hanno generato il disastro ecologico –. Perina è un prevaricatore ma non lo sa, è un vanesio ma non lo ammette. Eppure, al lettore, è evidente. Cosa accade in nome della scienza? Solo una delle questioni sulle quali Yanagihara interroga i lettori. Le memorie di Perina ci sfidano continuamente, vogliamo capire, vogliamo andare oltre le questioni morali, c’è qualcosa di più profondo e (forse) malvagio nel destino dello scienziato. Aspetti che hanno a che fare con la predestinazione, con l’autorità, con la presunzione. È davvero un genio chi in nome di una scoperta – seppure immensa – devasta un territorio? E che uomo è un medico che molesta i suoi figli? Dove finisce la menzogna che un uomo è disposto a raccontarsi? 

 

Le domande si formano pagina dopo pagina ma le vediamo tutte insieme alla fine. Durante la lettura siamo preda della storia e della prosa della scrittrice americana.

«Ma ora ci ripensai. Come un animale. E la mia indignazione, sebbene non meno reale, spostò il suo oggetto, dalle circostanze in cui mi trovavo a me stesso. L’avrei dovuto lasciare lì. Non spettava a me salvare qualcosa che non voleva nessuno».
Hanya Yanagihara è del 1974, ha all’attivo due romanzi decisamente rilevanti, si tratta di una scrittrice che mi farà piacere leggere anche negli anni a venire. In lei si tengono per mano il passo della grande letteratura americana e una certa capacità evocativa e mistica che viene dai paesi d’oriente, l’amalgama funziona benissimo. Il popolo degli alberi è il primo romanzo che ho letto nel 2021, il migliore degli auspici.

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