Diario 2 / Il lamento sulla scuola come genere letterario

15 Febbraio 2022

Lunedì 7

 

Opprimente, demoralizzante, soffocante…, al limite del sopportabile…, ostacoli interiori insormontabili…, la scuola non ti aspetta, non ti capisce…, d’altronde anche noi non ci capiamo, non capiamo più noi stessi…, la scuola è formata da ragazzi stanchi e malati…, non si accorge di chi vaga nei corridoi con lo sguardo spento, trascinandosi su gambe esili, che hanno lo spessore di una lattina di Coca Cola… 

Frasi che potrebbero venire da un libro di Thomas Bernhard. C’è un’aria di famiglia, basta leggere Un bambino: “entrando a scuola tremavo, uscendo da scuola piangevo. Andavo a scuola come si va al patibolo”. 

Invece sono frasi di alcuni studenti ai quali ho chiesto un commento a una fotografia scattata durante una manifestazione della settimana scorsa. Compariva su uno striscione con uno slogan impietoso: la vostra scuola ci fa schifo

 

Volevo un commento, anonimo naturalmente. Perché “vostra”? E fa proprio così “schifo”? Ho lasciato dieci minuti, e sono bastati perché riversassero il loro disgusto in forma di parola.

Vostra perché la nostra opinione è irrilevante…, vostra perché manca la collaborazione…, lo studente non può sentirsi libero di esprimersi…, un ambiente tossico perché spesso si è giudicati ed etichettati dal primo sguardo…, un sistema finalizzato alla valutazione, non alla formazione…

C’è anche chi non è d’accordo su tanto “schifo”, ma la scuola ha lo stesso “bisogno di risollevarsi, perché, a non stimolare gli studenti si ottiene solo l’effetto contrario all’apprendimento”.

Il lamento sulla scuola ha un carattere rituale, è ormai un genere letterario. Si potrebbero anche istituire dei premi in base a un catalogo preciso: Lamentazioni scolastiche; Racconti di professori che fanno le domande e si rispondono da soli; Casi di ingiustizie; Professori che interrogano chi chiede anche solo di andare in bagno; Rancori acuti verso la professoressa di matematica; Attacchi di panico alla sola vista del professore di greco. 

 

Quando sono salito in macchina pensavo di dare un’occhiata veloce a qualche riga, invece sono rimasto lì seduto a leggere tutto, e a un certo punto, oltre che a Bernhard, ho pensato anche a Nietzsche. Arrivo a casa, vado a curiosare nel frigorifero, trovo due confezioni di tortelli e tiro il fiato. Non ho nessuna voglia di cucinare. Metto l’acqua sul fuoco, apparecchio, grattugio il formaggio. È tutto pronto per il pranzo e ho tempo per andare a cercare la Seconda Inattuale, uno dei testi di Nietzsche che rileggo sempre volentieri. 

Un inizio bellissimo, con l’immagine del gregge che pascola senza subire l’afflizione del tempo. L’animale non sa cosa sia ieri e non sa cosa sia oggi. L’animale vive nell’attimo, né triste, né annoiato. È l’uomo, quando dice “mi ricordo”, che invidia l’animale perché dimentica.

 

 

Ma il passo che ho in mente è un altro, è nel capitolo dov’è detto che il senso storico, se domina incontrollato, sradica il futuro. Lo trovo segnato a margine con un asterisco a matita: “Il giovane viene spinto con la frusta attraverso tutti i millenni…, come il giovane corre attraverso la storia, così noi moderni corriamo attraverso le gallerie d’arte, così ascoltiamo i concerti… Per esprimerci senza abbellimenti: la massa di ciò che affluisce è così grande, il sorprendente, il barbarico e il violento si gettano così possentemente… sull’anima giovanile, che essa può salvarsi soltanto con un’intenzionale ottusità”

A volte gli stessi genitori sospingono i figli verso la cultura. Io l’ho fatto senza usare la frusta, nelle forme blande dell’incoraggiamento, ma l’ho fatto anch’io. Mostre, musei, pinacoteche e biblioteche, rassegne, concerti, libri, e un giorno mio figlio ha reagito. Basta papà! Mai una volta che tu dica: vi porto al poligono.

 

Martedì 8

 

Mia moglie ha vissuto due anni a Como, zona Monte Olimpino, al confine con la Svizzera, vicino alla chiesa di San Zenone. Campane implacabili, la domenica mattina. Partivo al sabato verso mezzogiorno. Barriera di Melegnano, tangenziale Ovest, poi su da Saronno e Lomazzo, fino a Mornasco. Meno di due ore da casello a casello. Viaggiavo su una Croma, pur sempre un duemila anche se Fiat. 

Insegnavo al professionale, e appena uscivo da scuola passavo dal centro sociale che c’era da quelle parti, facevo imbottire un panino, prendevo una lattina di Heineken e mi mettevo al volante. Eravamo ancora fidanzati e avevo la smania di raggiungerla al più presto.

 

Abbiamo parlato di quegli anni proprio oggi a pranzo perché sfogliando il Corriere avevo trovato il nome di una zona che mi suonava familiare, anche se non ero sicuro. Ma lei se lo ricordava bene, l’attraversava ogni giorno in autobus per andare alla scuola elementare di Grandate, e proprio a Prestino, qualche giorno fa, il forte vento aveva fatto inclinare un albero minacciando i vicini della casa di fianco. 

È stata la foto dell’albero inclinato ad attirarmi sull’articolo. Diceva che i vicini avevano cercato di mettersi in contatto con l’anziana signora nel cui giardino sorgeva l’albero pericolante, ma lei non aveva risposto, così avevano allertato il proprietario, un cittadino svizzero che anni prima aveva comprato l’immobile dall’anziana signora. Lei, rimasta senza parenti, aveva ceduto la nuda proprietà, riservandosi l’usufrutto. 

 

Un tipico investimento da svizzeri. Lungimirante. Li conosco bene gli svizzeri, sono insuperabili nel condurre affari a regola d’arte. Precisi, meticolosi, implacabili a norma di regolamento, come in Italia sanno essere solo i presidi. 

Ma nemmeno il proprietario svizzero era riuscito a mettersi in contatto con l’anziana signora, e si era quindi rivolto ai carabinieri, i quali sono intervenuti prontamente, forse per l’atavico complesso d’inferiorità che noi italiani abbiamo per i transalpini. Ne soffriva anche Mussolini, che voleva dimostrare di essere più tedesco dei tedeschi. 

 

 

Dunque, la pattuglia arriva sul posto, effettua il sopralluogo, e considerata la pericolosa inclinazione dell’albero, visto che l’anziana signora non risponde, fa intervenire i vigili del fuoco, i quali, entrati nell’abitazione, trovano l’anziana signora al tavolo della cucina. È seduta. Immobile. Appoggiata allo schienale della sedia. Morta almeno dal 2019, hanno stabilito i rilevamenti successivi.

Ecco, mia moglie parlava spesso dell’agghiacciante solitudine lacustre che avvertiva a Como, e io una volta le avevo parlato dell’Isola dei morti, un quadro di Böcklin che piaceva molto a Hitler. Ma quelli erano tempi in cui la cultura valeva ancora come mezzo di seduzione, la cultura e l’insidia dei bei discorsi, perché la parola è un gigante piccolissimo, diceva Gorgia, un sovrano che sa compiere cose divine. Potrebbe servire ancora? Per sospingere i giovani attraverso i millenni della storia?

 

Mercoledì 9

 

E il Tenente Colombo? Sapete chi è? Sono all’ultimo piano, in terza, ho appena compilato il registro elettronico e assolto gli obblighi protocollari. Allora? Nessuno risponde? 

Mi guardano come se fossi una bestia pericolosa che può scappare dal recinto. Forse è l’effetto delle pagelle che hanno ricevuto ieri. In questa classe faccio il verbalizzatore e quattordici ragazzi su ventitré avevano almeno un’insufficienza. Tengono la biro in mano e sono pronti per gli appunti ma non parlano. 

Io insisto e chiedo quali serie televisive guardino regolarmente. Sono intimoriti, forse pensano che li voglia prendere in castagna: quello ci fa parlare delle serie televisive poi ci rimprovera di perdere tempo, anziché studiare. Pensano questo? 

Faccio qualche altra domanda e loro cominciano a capire che il mio non è un tranello. Salta fuori che di serie televisive ne conoscono parecchie, da Breaking Bad a La casa di carta, ma nessuno di loro ha mai visto Colombo, salvo una ragazza che una volta ha seguito una puntata con suo padre, che però si era addormentato prima della fine. 

 

Adesso sembrano interessati e io vado avanti spiegando che Colombo è un Tenente della polizia di Los Angeles. In ogni puntata si presenta sulla scena del delitto indossando lo stesso impermeabile. Stessa camicia bianca e stessa cravatta nera, stesse scarpe, stessi pantaloni. Un tipo stropicciato che sembra dormire coi vestiti addosso. Anche la faccia è stropicciata. Guida una vecchia Peugeot scassata e conduce gli interrogatori tenendo un sigaro in mano. È uno al quale non dareste due soldi. Infatti gli indiziati non lo prendono mai sul serio, snobbano le sue domande sconclusionate. Ma proprio questo induce i colpevoli a scoprirsi. Uomini d’affari, persone altolocate, ricche ereditiere che sottovalutano la sua aria dimessa. E alla fine si fanno sfuggire qualche parola di troppo, così lui, che prende nota di ogni cosa su un taccuino ad anelli, li inchioda alle loro contraddizioni. La verità s’impone da sola e i colpevoli la riconoscono come fanno gli interlocutori nei dialoghi platonici, quando Socrate li incalza con le sue domande. 

Bisognerebbe vedere insieme qualche puntata del Tenente Colombo. E nel frattempo leggere il Gorgia di Platone, ma i programmi incalzano.

 

Giovedì 10

 

Oggi niente scuola, ho chiesto un giorno di permesso per intervenire a un convegno di studi che si tiene presso l’Università di Modena su una rivista di scritture uscita tra il 1995 e il 1997. Si chiamava Il Semplice e io avevo collaborato assieme ad altri amici, tra cui Daniele Benati col quale sono d’accordo di partire per Modena verso le nove. 

Andiamo in macchina e non troviamo nessun ingorgo sulla Via Emilia. Strano, s’intasa sempre prima di Rubiera, è una vena piena di colesterolo, di solito. A Modena cerchiamo un parcheggio tra viali e controviali, a ridosso del centro storico. Troviamo posto in Viale delle Rimembranze, proprio davanti all’edificio dove un tempo c’era il Distretto militare. Adesso c’è la banca Desio

 

 

È da un po’ che non vengo a Modena e fa impressione vedere tutti questi palazzi con le facciate rimesse a nuovo. È un effetto del bonus governativo? Comunque si sente che questa è una città ben diversa da Reggio Emilia. Qui c’era la capitale del ducato: grandi spazi, residenze nobiliari, strade ampie, alberate. 

Passare una giornata senza scuola è un po’ come una vacanza, per me. Camminiamo verso il Duomo, lungo Via Selmi, e sulla sinistra passiamo davanti a un negozio dove vendono gomitoli di lana. Intanto, due ragazze straniere, forse tedesche, ci chiedono dov’è il Mercato Albinelli. Indichiamo la strada poi andiamo verso Via Canalino dove c’è un negozio di libri usati, ma quando arriviamo è ancora chiuso. In compenso la vetrina è molto bella. Ci sono dei piccoli quadretti che riproducono delle case isolate. Vengono in mente le case che dipingeva Malevič. 

Prima di entrare all’Università ci fermiamo in un bar di Corso Duomo. Un cappuccino perfetto, giusta temperatura, combinazione ineccepibile tra caffè e latte, crema densa, un piacere. Mi sembra di essere in vacanza all’estero.

 

In questi giorni una mia amica è partita in barca a vela per un viaggio esotico. Manda video, fotografie, didascalie della sua vita a bordo, tra un’isola e l’altra. Qualcuno le risponde sulla chat con espressioni d’invidia. Beata te! Forte! Stupendo! Che meraviglia!!! Invece io mi godo il fatto di essere qui a Modena a chiacchierare con Daniele mentre camminiamo per le strade di una città che in fondo è stata una capitale europea dell’Ottocento, come Dresda, che era capitale della Sassonia, o Stoccarda, capitale del Württemberg, senza contare che trovare lo straordinario nell’ordinario è più straordinario che trovarlo nello straordinario, il quale straordinario il più delle volte puzza di ordinario. 

Il Semplice era un almanacco di prose nato dall’idea che leggere e scrivere secondo l’ispirazione della fantasia contiene una virtù medicinale. Si apriva con un catalogo provvisorio, come una specie di erbario: Visioni, allucinazioni, teorie cosmiche; Racconti che fanno ridere, però per sbaglio; Ritratti di grandi balordi; Gelosie furiose; Cose che non si riescono a dire in nessuna maniera; Istigazioni a delinquere; Casi sessuali; Grandi sudate; ecc.

 

All’epoca insegnavo italiano al biennio del professionale. Erano gli anni in cui partivo per Como, a meno che non ci fossero gli incontri del Semplice. Al professionale mi prendevo la libertà di far scrivere i miei studenti nel modo in cui volevano e su quello che volevano, perché quello che conta, prima ancora di avere qualcosa da scrivere, è aver bisogno di scrivere, una necessità che non ha niente a che fare con la scaletta degli argomenti che s’insegna a scuola. L’ispirazione viene dall’urgenza di scrivere, non dal palinsesto. Bisogna partire dall’elocutio, ha detto Ermanno Cavazzoni al convegno di oggi, la contentezza dello scrivere deriva della smania dell’espressione. La stessa smania che ti prende quando sei innamorato.

 

Venerdì 11

 

I giovani ricercatori che ieri e oggi hanno tenuto le loro relazioni al convegno hanno mostrato un affetto commovente verso Il Semplice. Io ho preso molti appunti. Ho trascritto sul mio taccuino le frasi che mi sono piaciute di più, proprio come facevo agli incontri che si tenevano al San Carlo di Modena per preparare i numeri del Semplice. Si leggeva di tutto, filosofi, scrittori, antropologi, poeti, e conservo un Note Book dove ci sono trascritti elenchi di ogni genere. 

Oggi sono venuto in treno e devo tornare a Reggio per l’ora di pranzo. Trovo posto davanti a una ragazza che sta parlando al telefono di un esame universitario. L’ha appena sostenuto e sta dicendo che a un certo punto le cose sembravano andar male. Il professore le aveva chiesto le cause della Guerra franco-prussiana e lei non aveva saputo rispondere. Però non si è fatta ammutolire, qualcosa ha detto. Ora siamo sul Ventisette, le ha comunicato a un certo punto il professore. 

 

La ragazza al telefono riferiva i fatti meticolosamente, fase per fase, domande e risposte. Il professore le aveva anche chiesto se voleva fermarsi o se preferiva continuare. Continuiamo. Così lui ha voluto sapere qualcosa sugli anni di piombo, e lei, con la sua risposta, è risalita a Ventotto. Qui il professore le ha comunicato che l’esame poteva finire, ma se voleva le avrebbe fatto un’ultima domanda, per il Trenta, però se avesse sbagliato sarebbe scesa di nuovo, anche al Ventisette. Accetto, ha detto lei. La domanda riguardava il ruolo avuto dalla Cisl durante gli anni del terrorismo in Italia. 

 


Arrivati quasi a Reggio non ce l’ho fatta a trattenermi. Mi sono sporto un po’ in avanti e le ho chiesto che esame era. Poteva anche mandarmi al diavolo, invece è sembrata contentissima del mio interesse. 

Era stato un esame di Storia moderna a Scienza politiche, il suo primo esame orale, il suo primo Trenta. Mora, capelli lisci, una frangetta sugli occhi azzurri, e la mascherina Ffp2 che le copriva il resto del volto. Sono contentissima, ha detto lei. Prima di scendere ho fatto in tempo a chiederle dove stava andando. A La Spezia, per riposare durante il fine settimana. Nonostante la mascherina si capiva che stava sorridendo. E di nome? Viola, ha detto lei.

Poi mi sono incamminato verso la Polveriera dove avevo parcheggiato. Mi chiedevo a quale trasmissione televisiva si fosse ispirato il professore di storia per la sua interrogazione. Chissà…, Lascia o raddoppia?  

 

Sabato 12

 

La Didattica a Distanza ormai è superata, rimangono i consigli di classe on-line, i collegi docenti on-line, i ricevimenti genitori on-line. Ma la DAD, al momento, sembra acqua passata. Però chissà, forse si arriverà a rimpiangerla. Capita per ogni cosa, a questo mondo, basta aspettare che tramonti e c’è sempre qualcuno che la rimpiange. Succede anche col fascismo. È un effetto del sentimento nostalgico, che magnifica il passato. 

Effettivamente, quando la DAD è iniziata, circa due anni fa, eravamo tutti presi da uno stato di entusiasmo per il mezzo tecnico, alunni e insegnanti. E si poteva dormire un’ora in più, anche due ore, considerando che alcune mie studentesse di quinta, per presentarsi puntuali alle 7,50 si devono svegliare alle 5,30.

E poi la DAD introduceva nell’attività scolastica qualcosa di familiare. Capitava di vedere facce ancora addormentate, capelli arruffati, le ragazze si presentavano alla videocamera senza trucco, alcuni erano in pigiama, altri tenevano la tazza della colazione sulla scrivania. E poi si vedevano gli ambienti domestici. Camerette ancora arredate nel tipico stile dell’infanzia, oppure ambienti della zona giorno, la sala da pranzo, anche la cucina. 

 

Qualcuno seguiva la lezione mentre la mamma spazzava per terra o preparava il soffritto. Mai un papà alle prese coi piatti da lavare, ma di mamme ne ho viste diverse. A volte comparivano davanti allo schermo altri membri della famiglia, un fratello anche lui costretto a seguire le lezioni in DAD, una zia che era interessata alle lezioni di storia, anche un nonno che dalla sua poltrona, col panno sulle gambe, seguiva una lezione sulla Seconda guerra mondiale e di sicuro aveva nostalgia per l’epoca in cui era bambino. 

La DAD dava la possibilità di entrare nelle vite degli altri, ambienti austeri e ambienti popolari, quadri alle pareti e biblioteche fornite, in certi casi, oppure mobili dozzinali e divani sommersi dal disordine. Tutto assumeva dei tratti più umani, meno ufficiali, meno formali. Si vedeva spuntare un gatto che faceva le fusa sulle gambe di uno studente. Un cane abbaiava. E una volta ho visto comparire un drago barbuto, quei lucertoloni australiani con le squame scure, appuntite, non proprio gradevoli alla vista, anche se la studentessa che lo aveva sulla scrivania ne decantava l’indole mansueta. Un animale docile, diceva, affettuoso, che si faceva accarezzare volentieri. 

 

Mondi eterogenei che a me piaceva vedere, e avrei anche voluto che ognuno dei miei studenti illustrasse agli altri la propria casa. Mi piacerebbe ascoltare. Dopotutto sono tanti anni che parlo, e sarebbe bello se potessi sedermi e sentire qualcosa dai miei studenti, qualcosa di autentico, non frasi impersonali ispirate a quello che si dice o che si pensa in genere.

 

Domenica 13

 

Oggi pensavo di dormire un po’ di più, invece alle sette del mattino ho cominciato a sentire i cacciatori. Erano almeno una quindicina, disposti più o meno a dieci metri l’uno dall’altro. Camminavano lentamente risalendo la pendenza che porta verso la collina. Urlavano e facevano rumore con dei bastoni. Alcuni arrancavano faticosamente sul terreno, aggrappandosi a un sostegno. Sembravano senza fucili. Forse avevano l’intenzione di spingere lepri, fagiani e caprioli verso un altro tratto di campagna, magari dove c’era un’altra squadra di cacciatori muniti di fucili. Oppure avevano appena liberato degli animali allevati per poterli poi braccare con la doppietta.

Una scena residuale. Un mondo scomparso che ho guardato dalla finestra come se una macchina del tempo mi avesse spinto indietro, fino all’Ottocento. 

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