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Carteggi amorosi 11 / Anaïs Nin, Henry Miller: noi apparteniamo al futuro

19 Dicembre 2020

“Ho conosciuto Henry Miller. È venuto a colazione con Richard Osborn, un avvocato che avevo dovuto consultare a proposito del contratto per il mio libro su D. H. Lawrence. Mi è piaciuto subito, non appena l’ho visto scendere dalla macchina e mi è venuto incontro sulla porta dove lo stavo aspettando. La sua scrittura è ardita, virile, animale, magnifica. È un uomo la cui vita inebria, pensai. È come me. Era caldo, allegro, disteso, naturale. Sarebbe passato inosservato in una folla. Era snello, magro, non molto alto. Ha occhi azzurri, freddi e attenti, ma la sua bocca rivela emotiva vulnerabilità.” (Henry e June) 

 

Anaïs Nin e Henry Miller si conoscono verso la fine del 1931. Angela Anaïs Juana Antolina Rosa Edelmira Nin y Culmell, conosciuta come Anaïs Nin o, come a lei piaceva definirsi, la “donna bambina” spagnola, ha ventotto anni, è sposata, inquieta, sensibile e tiene un diario segreto. L’“autore gangster” o come a lui piaceva, il “ragazzo di Brooklyn” Henry Miller, sta per compiere quarant’anni, la moglie gli ha pagato il biglietto per andare in Europa e lui, con una valigia piena di manoscritti non pubblicati, è arrivato a Parigi, dove passa le giornate fra amici, donne e avventure. È un lampo, l’attrazione reciproca è immediata e irrimediabile e d’altra parte nessuno dei due ha la minima intenzione di resistere. Miller è un uomo dalla sensualità dirompente, la Nin una donna che vuole assaporare tutto della vita e che non ha ancora avuto modo di esprimere tutta la forza del proprio desiderio. Non ci vuole molto perché gli entusiasmanti incontri intellettuali fra i due divampino in una passione che coinvolge tutti i sensi. Ho l’impressione che fin dal primissimo inizio, da quando hai aperto l’uscio e mi hai porto sorridendo la mano, io sono rimasto preso, ero tuo, dice Miller il 6 marzo 1932, in una delle innumerevoli lettere che iniziano a scambiarsi quasi quotidianamente. 

 

 

Li accomuna la medesima ossessione: scrivere. La stessa cosa che rende indistruttibile Henry è quella che rende indistruttibile me: è il fatto che il nucleo di entrambi sia uno scrittore, non un essere umano (Henry e June). Miller è un vero grafomane, scrive in continuazione, quando non si dedica alla letteratura, scrive lettere, solo nel primo anno manda ad Anaïs oltre 900 pagine battute a macchina. Buon Dio, mi pare davvero di impazzire se penso di dover trascorere anche un solo giorno senza scrivere. Mai, mai riuscirei a riprendere. È per questo, non c’è dubbio, che scrivo con tanta veemenza, in maniera così distorta. La mia è disperazione. (Henry, 4 febbraio 1932) La Nin non è da meno, da anni scrive quotidianamente sul diario annotando e analizzando ciò che le accade, scrive saggi di letteratura e sta iniziando i primi esperimenti di narrativa. Il nucleo di cui parla, l’essenza profonda di entrambi che non è un essere umano, ma uno scrittore, è ciò che li terrà legati insieme anche quando, inevitabilmente, la passione dei sensi si dissolverà. Anche se in quel primo anno la sensualità fra i due è ai suoi vertici, la scrittura non solo non scompare mai, ma continua ad essere al centro del loro rapporto. 

La donna continuerà a sedere in eterno nell’alto seggiolone nero. Io sarò l’unica donna che mai avrai… vivere in eccesso appesantisce e blocca l’immaginazione: noi non vogliamo vivere, vogliamo solo scrivere e parlare per gonfiare le vele. (Anaïs, 2 marzo 1932)

Anaïs, sei stata tu a dare il via allo scorrere della linfa. (Henry, 6 marzo 1932) 

 

Le prime lettere sono piene di consigli recipoci sulla scrittura, i due si leggono e correggono, chiamando in causa Lawrence, Gide, Proust, Dostoevskij che per Miller è un riferimento imprescindibile: Cogli in Proust ciò che va fatto rivivere per via di retrospezione e introspezione. E ti raccomando di guardarti, almeno un pochino, dalla tua ipersensualità! Perché tu ce l’hai. Mi fai pensare a Casanova, salvo il fatto che, tra un’impresa erotica e l’altra, lui era noioso, mentre tu, in pieno erotismo e proprio a causa di esso, diventi profondo. (Anaïs, 12 febbraio 1932) 

Parlando di brani di “Mona” che divenne La casa dell’incesto Miller scrive: Ce ne sono di così crudeli e rivoltanti, da sembrare inumani – non sono più pensieri o sentimenti, ma la nuda essenza del dolore e della perfidia. L’insieme è simile a una sanguinosa eiaculazione, l’orgasmo di un mostro, un getto di serpi, veleni, bile e arsenico. Se cerco di capire a chi sei debitrice di questo stile, non ne vengo a capo: non ricordo nessuno con cui tu abbia la benché minima somiglianza. Mi ricordi solo te stessa, gli ultimi volumi del tuo diario in cui riveli il tuo sviluppo. (Henry, 13 ottobre 1932)

 

 

 

Miller è costantemente senza soldi, accetta un lavoro che gli procura il marito di Anaïs, lei gli passa denaro e di fatto per diversi periodi lo mantiene.

Ieri sera mi chiedevo come fare a mostrarti… a mostrarti… con quello che mi costerebbe più di tutto… che ti amo… e l’unica cosa cui sono riuscita a pensare è di mandarti denaro da spendere con una donna… ho pensato alla negra, mi piace, perché almeno posso sentire la mia morbidezza sciogliersi in lei… Ti prego, non andare con una donna troppo a buon mercato, troppo volgare. E poi non farmelo sapere, perché io sono certa che l’hai già fatto. Lasciami credere che l’idea te l’abbia data io. (Anaïs, 23 luglio 1932)

Per un breve periodo vivono insieme in quello che chiamano il laboratorio di pizzo nero dove fanno due sole cose: scrivere e amarsi. 

 

Lentamente, la donna bambina si evolve, se sulle prime per uscire dal bozzolo sembra appoggiarsi all’uomo Miller, poi sviluppa ali che in breve tempo la portano molto più in alto. Alla fine del giugno 1933, Anaïs incontra il padre a Valescure. Molto si è detto e scritto di questo incontro. È reale? È immaginato? Quando il marito legge per caso un brano del diario in cui si descrive un incontro con Miller, lei gli racconta che quello che ha letto è il diario inventato, che scrive per compensare ciò che non fa. L’immaginazione è al centro di ogni atto di scrittura, è necessaria alla scrittura, e il confine con la menzogna è molto labile e a volte indecifrabile. Acuni critici letterari sono dell’opinione che gran parte dei diari, e ancor più quelli non censurati, sia frutto della fervida immaginazione della Nin. Per alcuni critici, forse non senza motivo maschi, sembra risultare strano, quasi fastidioso, che una donna uguagli o addirittura superi in libertà di pensiero e sessuale gli uomini, ne deriva che certe situazioni che descrive, che farebbero impallidire Don Giovanni e la marchesa de Merteuil, frutti peraltro di scritture maschili, debbano necessariamente essere il risultato di un’immaginazione che non si esita a definire perversa.

Mentre percorrevo il corridoio buio diretta alla mia stanza, con un fazzoletto fra le gambe perché il suo sperma è abbondantissimo, il mistral soffiava e io sentivo un velo tra la vita e me, tra la gioia e me. (Incesto, 23 giugno 1933)

 

 

Che differenza c’è fra vivere qualcosa immaginandolo e viverlo realmente? Per entrare nel reale, abbiamo comunque bisogno di trasformarlo in racconto, quindi dov’è il limite fra reale e immaginario? Esiste? Per l’Anaïs dei diari, nel reale mentire è necessario per non dare dolore. La menzogna come necessità, come possibile soluzione per un’anima immensa, incontenibile e incontentabile, qualcosa che ha a che fare con quanto Moliere fa dire al suo Don Giovanni: Non c’è nulla che riesca a frenare in me l’impeto del desiderio: mi sento un cuore da contenere tutta la terra. L’unica possibilità per la verità è la scrittura, per lei, la scrittura dei diari. Ecco cosa scrive quando rivede Miller dopo l’incontro col padre.

 

Quando ho incontrato Henry alla stazione mi è piaciuta la sua bocca, morbida. Ma il suo abbraccio in albergo non ha suscitato alcuna emozione in me. Ero terrorizzata. Eravamo degli estranei. Lui sempre uguale, ma più pallido. Io ossessionata dall’altro mio amore. Troppo tardi. Adesso ero con Henry. E per la prima volta lo guardavo senza illusioni. Mi rendevo conto che la nostra sintonia era stata raggiunta grazie alla mia adattabilità. (…)

Abbiamo vagabondato per Avignone. Io mi mostro gaia, tenera. Lui ha tanti bisogni; è pietoso. Comperiamo vestiti per lui. Lui è nel suo elemento, vagabondando, vivendo per le strade. 

Nel frattempo io sono ossessionata, cupa, sgomenta. La mia passione per Henry che muore, muore. Anche fisicamente, sessualmente, lui è diminuito. Il mutamento è solo in me? È mio padre che mi ossessiona a questo modo, che oscura ed eclissa tutti gli altri?

Ora lo sforzo di illudere Henry. Mi uccide.

Mentre sono con lui devo scrivere a papà delle lettere che devono essere imbucate a Londra da un amico. Nascondo il mio diario e le mie lettere tra le molle del nostro letto, di cui ho aperto, con una lama di rasoio, la tela che le ricopre. (Incesto, 2 luglio 1933)

 

 

Henry è felice. “Ricomincio a funzionare. Sono come una enorme ruota che non può girare finhé non arrivi qui con la tua minuscola, accurata attrezzatura. Un piccolo, piccolissimo tocco, e tu mi rimetti in moto. Devo ammettere che, al pari di Lawrence, non posso fare niente senza una donna dietro di me. (…) Carte. Lavoro. Impegni. Lettere. Amo vivere, muovermi. Ebbrezza. Sono ebbra. Domani, la dattilografa e Allendy. Giovedì, Artaud. Venerdì, Henry. Bonarie bugie a tutti. A Henry, per placare la sua gelosia per mio padre. A ciascuno do l’illusione di essere il prescelto. Se tutte le mie lettere fossero messe insieme, rivelerebbero sorprendenti contraddizioni. Giungo a dire a Henry: “Parlo moltissimo di mio padre, ma per me non significa quanto significhi tu.” Perché immagino che la gente abbia bisogno di queste bugie, mensonges vitaux! La verità è aspra e sterile. Dico ad Allendy: “Sono appena arrivata. Quando posso vederti?” Come se fosse il primo a cui ho telefonato, e pensare che sono già andata a letto con Henry.

 

Umorismo. Quando papà mi racconta benevoli bugie del tipo: “Questa è la prima volta in cui ho desiderato un sacco di quattrini,” (per raggiungermi, per farmi doni), scopro l’insincerità. Papà ha desiderato avere denaro mille volte di più, come del resto io. Altre volte può darsi che abbia persino scritto in questi termini ad altre donne. Sorrido. Sudo freddo. Tutto l’incenso che ho bruciato per altri, adesso mi torna in faccia. Tutti i miei sotterfugi e bugie, eccomeli offerti come se non fossi in grado di scoprirli. (…)

Questo diario comprova un terribile, insaziabile anelito di verità, perché scrivendolo rischio di distruggere tutti gli edifici delle mie illusioni, tutti i doni fatti, tutto ciò che ho creato, la vita di Hugo, la vita di Henry; tutti coloro che ho salvati dalla verità, io qui li distruggo. (Incesto, 21 luglio 1933)

 

A poco a poco, nelle lettere di Anaïs si iniziano a scorgere segnali di quella che sarà una separazione dall’amante Henry, ma non la fine della sincera lotta per l’affermazione dello scrittore Miller.

Non hai capito perché stamattina ho avuto uno scatto. Sono stanca, Henry, stanca da morire di aver bisogno di cose, di volere cose, e questa mattina Hugh mi ha dato duecento franchi per comprarmi biancheria e calze. Li porto a te. Intanto, tu dai a Lowenfels gli assegni che hai ricevuto, i primi assegni che ti sono arrivati. Non ti è venuto in mente di pensare a me. Non ti sei neppure sognato di comprarmi qualcosa, di potermi regalare qualcosa con quei soldi. Sono molto stanca. Se vado a New York, è con l’idea, frutto della disperazione, di fare qualsiasi cosa che mi permetta di uscire da queste difficoltà finanziarie che mi soffocano. Ti prego di non far rilegare il libro, è un lusso eccessivo. Ci sono altre cose di cui ho effettivo bisogno, per esempio, un cappotto.

 

 

Ti sei comportato così cento volte. E lo farai sempre. Sempre. Sono terribilmente stanca della tua perenne mancanza di sollecitudine, preoccupato come sei solo di te stesso. Ti comporti come un bambino, un bambino che non fa che chiedere, chiedere, chiedere, senza preoccuparsi mai di niente e succhiando il sangue agli altri, e io me ne sto qui a piangere perché è del tutto inutile aspettarsi che tu sia diverso. (Anaïs, ottobre 1934)

I nuclei da scrittore dei due continueranno a scriversi, a gravitare l’uno intorno all’altro anche quando la distanza sentimentale, fisica e temporale si farà sempre più ampia, e le lettere testimoniano incontri, passioni, desideri che non smetteranno mai di ardere. 

 

Nella lettera che mi ha scritto a proposito del libro (Tropico del Cancro), e di cui ti accludo copia, Dudley mi dice che Marcel Duchamp è andato di recente e trovarli e che del tutto spontaneamente ha espresso una sconfinata ammirazione per il libro, che ha letto con grande piacere, eccetera. Penso che, tramite suo e tramite Queneau e Jacques Baron, riuscirò finalmente ad attirare l’attenzione del gruppo surrealista, e magari anche della colonia di sudamericani che a quanto pare gravita attorno a Dalì e a sua moglie Gala. (Buñuel è in Andalusia, come ti ho detto, a filmare un lungo documentario di una piccola colonia isolata di “spostati” dove incesto e crudeltà sono all’ordine del giorno. Quanto mi piace Buñuel!) (Henry, 29 novembre 1934)

 

La mia vicenda personale mi ha portato alla fine degli anni Settanta, intorno ai vent’anni, a imbattermi nel Tropico del Cancro e ad esserne folgorato già dalle prime pagine, dove incontrai la frase: Un anno, sei mesi fa, pensavo di essere un artista, ora non lo penso più, lo sono. Trovai quella scrittura potente, piena, turgida, visionaria, mi aprì la mente ed ebbe una serie di effetti secondari, per esempio dopo Miller, Bukowsky e tanti altri mi sembrarono acqua tiepida, ma l’effetto più importante fu che attraverso di lui, arrivai, molti anni dopo, alla Nin. L’avevo seguito nel Capricorno, a Clichy, nella Primavera Nera, nella trilogia in rosa e in molti altri, senza più trovare quella potenza che mi aveva inebriato nel primo Tropico ma ascoltandolo volentieri come si fa con un vecchio amico che ti parla di Dostoevskij, Nietzsche e delle donne e libri che ha conosciuto. Nel frattempo, avevo assaggiato qualcosa della Nin senza esserne rimasto particolarmente colpito e l’idea di immergermi in diari che sapevo tagliati, non mi convinceva. Nel 1966 i Diari vengono pubblicati nella versione censurata, la Nin, che muore nel ’77, aveva dato disposizione che non uscissero integrali fino alla morte del marito che avviene nel 1985. Nell’86 esce la versione non censurata che viene portata in Italia da Bompiani nei primi anni Novanta.

 

Lessi Henry e June, Incesto e Fuoco voracemente, uno dietro l’altro, incontrando nomi che conoscevo, da Otto Rank ad Antonin Artaud e tanti altri visti con l’occhio di Anaïs nella loro quotidianità e soprattutto conobbi una donna straordinaria e una scrittice sopraffina al cui confronto Miller mi apparve quasi grossolano e insignificante. Le donne non dovrebbero mai leggere questi diari, cominciai a dire sperando di suscitare la reazione opposta. La libertà di pensiero, azione, sentimento di Anaïs risultavano talmente efficaci e concrete da andare ben oltre la liberazione della condizione femminile per arrivare a una liberazione da ogni condizionamento psicologico, sociale e di genere. Altro tempo è passato da allora, e quello che resta della storia di questa passione fra due scrittori, tutti i dubbi, le certezze, le bugie, le delusioni, le rivelazioni, le risate, tutto è racchiuso in una frase che Henry scrisse alla sua Anaïs in una lettera del 29 dicembre 1934: Noi apparteniamo al futuro.

 

(Le citazioni delle lettere sono tratte da: Anaïs Nin, Henry Miller, Storia di una passione, Bompiani, Milano 2000).

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