Ferdinando

28 Febbraio 2013

Arturo Cirillo continua a indagare autorevolmente le opere di Annibale Ruccello, scrittore di incredibile prolificità, scomparso giovanissimo nel 1986, all’età di trent’anni. Poco prima della morte repentina, aveva messo a punto, con la complicità di Isa Danieli, primadonna del teatro di Eduardo e di De Simone, da sempre attenta alla nuova drammaturgia, il suo esito maggiore: Ferdinando, che ora il regista e attore napoletano porta in tournée in un’applaudita produzione, che è passata la scorsa settimana al teatro Tieffe Menotti di Milano.

 

Siamo dalle parti di Teorema, a cui i rimandi sono molteplici, in una rovente cornice borbonica. La vicenda si svolge, infatti, nella stanza da letto della baronessa Lucanigro, che si è votata a una rancorosa dimora in letto, dopo la sconfitta di re Francesco. Insieme a lei sta Gesualda, una parente povera, costretta nelle vesti di cameriera, che è legata a lei da una morbosa relazione di schiavitù. Sullo sfondo Don Catello, forse figlio naturale di un nonno della protagonista, che lei sbeffeggia in ogni modo. Il prete ha la passione dei corpi, dello sporcare la tonaca in performance di sesso di rapina. In questo mondo soffocato dall’astio giunge dal nulla Ferdinando, ospite sacro che reca inscritto nel suo corpo il messaggio della fine dei tempi. Reca il nome del re di Napoli: un notaio ha annunciato la sua venuta, è un lontano parente della famiglia. La geometria dei sensi si fa strada rapidamente: il ragazzo entra nei letti di tutti e tre, scompiglia le carte di un quieto odio, e costringe a una disperata presa di posizione. Lo scioglimento è legato al delitto e alla rivelazione che non si tratta di chi aveva dichiarato. Anzi egli ha il nome di Filiberto, in omaggio all’odiato Savoia, e la sua missione erotica aveva come scopo quello di recuperare una collana rubata, che la baronessa recava con sé come talismano.

 

Cirillo riduce l’ambientazione all’osso per far risaltare la mortale schermaglia tra le identità di un mondo in violenta e radicale trasformazione. Dai panorami drag de Le cinque rose di Jennifer, alla rivisitazione dei miti hollywoodiani de L’ereditiera (entrambi testi portati in scena in spettacoli fortunati da Cirillo), nei testi di Ruccello si dipana una analisi di miracolosa finezza dei meccanismi di coercizione del linguaggio. La baronessa Lucanigro non vuole parlare italiano, perché quella è la lingua dei dominatori. Si consola facendosi leggere le pagine più ferventi di vanto per l’idioma partenopeo, tra cui la celebre Posilecheata di Pompeo Sarnelli. Ruccello aveva iniziato la sua attività nel teatro in una chiave antropologica, studiando uno dei testi capitali della tradizione: La cantata dei pastori di Andrea Perrucci, macchina sacra di strepitosa seduzione, citata nel finale.

 

Il corpo del nuovo regno, è quello di un ragazzo nudo e disponibile agli accoppiamenti meno giudiziosi, pur di ottenere uno scopo. In cambio, come la protagonista sottolinea con dolente visionarietà, questo nuovo mondo di arrampicatori, voltagabbana, non ha memoria. Dovrà attaccarsi a qualsiasi frammento del “mondo di prima”, per potersi giustificare un ruolo nel mondo. L’analisi che Ruccello compie dei modelli culturali come arma di offesa è finissima, sorprendente: Ferdinando (portato anche al cinema da Memè Perlini in un film riuscito a metà), a trent’anni dalla prima, si conferma opera importante: lucida e amarissima visione dei destini italici.

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