J.M. Cain. La falena

6 Maggio 2014

«La prima cosa di cui ho ricordo è una grossa falena caudata. […] Non avevo occhi che per quella splendida cosa verde, tutta palpitante di luce, che si allontanava svolazzando tra gli alberi, libera e viva. Era una sensazione che immagino gli altri provino pensando a Dio.»

 

Comincia con questa preghiera laica la storia di Jack Dillon, storia di un bambino prodigio, capace di stregare tutti con la sua voce angelica; storia di un atleta promettente, che può migliorare le prestazioni chi gli sta al fianco grazie alla sua intelligenza tattica; storia di un meccanico dalle mani d’oro, nemesi di un padre avvocato finito a riparare auto perché è l’epoca che lo richiede; storia dell’imprenditore di se stesso, che sa rivoltare il proprio destino lavorandolo con umiltà e intraprendenza. Quella di Jack, però, è anche la storia di un amore illegittimo, di un vagabondaggio senza meta, di una continua scelta tra la buona coscienza e una sicurezza da raggiungere anche a costo di qualche infrazione.

 

Stella polare di questo percorso rapsodico e vertiginoso è l’immagine di una «grossa falena caudata», che non a caso dà il titolo a quello che viene considerato il romanzo più ambizioso di James M. Cain. Padre nobile dell’hard-boiled americano, autore di Il postino suona sempre due volte (1934) e del recentemente scoperto La ragazza del cocktail (2012), Cain si cimenta con La falena (ISBN, 2014) in un racconto che, almeno per le prime cento pagine, ha tutta l’aria di un Bildungsroman.

 

Per comporlo l’autore attinge un poco anche dalla propria personale biografia; per contrappasso però. Se a lui non fu dato di avere una voce all’altezza della ambizioni di cantante d’opera, Jack invece è capace, cantando, di toccare il cuore di chiunque lo ascolti. D’altra parte, la stessa figura materna che infranse il sogno canoro del piccolo James, è ciò che manca nella vita di Jack Dillon, cresciuto, fin dall’età di tre anni, dal padre e dalle due zie. Una sola volta Jack ha visto sua madre; e l’ha saputa riconoscere dal profumo, assaporato mille volte tra le pieghe di un vestito scoperto in soffitta e custodito gelosamente, e dallo sguardo. Uno sguardo magnetico, che lega per sempre il cuore di Jack a quelle donne che, come lei, sapranno spogliarlo della sua ingenua prosopopea semplicemente fissandolo negli occhi.

 

 

Di questo sguardo, purtroppo, non è dotata Margaret, figlia del proprietario di uno dei più importanti alberghi di Baltimora, che accompagna le esibizioni di Jack suonando il pianoforte. Margaret però è quel che si dice un “buon partito”, cosa, questa, che neanche chi ha conosciuto fin da ragazzino le luci della ribalta e il dolce fruscio dei dollari può permettersi di ignorare. Perché nel frattempo, su Baltimora come su tutti gli Stati Uniti, si è abbattuto il “martedì nero”, il Big Crash del 29 ottobre 1929, l’inizio della grande crisi.

 

I Dillon, vissuti fino a quel momento in una certa agiatezza, si ritrovano improvvisamente a dover fare economia di ogni cosa. In una simile situazione, un matrimonio d’interesse diventa qualcosa di diverso da un semplice atto di opportunismo; diventa un gesto di sopravvivenza. Soprattutto se i risparmi dei successi di Jack sono stati persi da un padre fin troppo scrupoloso nel fare gli interessi del figlio. «Forse avete dimenticato gli anni fra il 1930 e il 1932, io no, di certo. Tutte le cose che mi avevano insegnato sulla vita, l’amore e non so che altro, i fari che avrebbero dovuto guidarmi nella rotta, mi si erano spappolate tra le mani fino a non servire ad altro che a far ridere i ragazzi dell’università, quando avevano un po’ di birra in corpo.»

 

Jack, però, non è tipo da accettare compromessi e farsi incastrare; soprattutto se a fargli vagheggiare l’idea di un’alternativa è ancora quel senso di commozione che esplode di fronte a un irresistibile sguardo di donna. La donna in questione, tuttavia, ha solo 12 anni, e per di più è la sorella minore di Margaret, diventata nel frattempo sua futura sposa. Per quanto pudica e priva di ogni malizia, l’infatuazione per Helen diventa una ragione sufficiente per mandare all’aria ogni piano. Anche perché a consacrarla è arrivato un segno inequivocabile.

«Guardai, ma sapevo già cosa fosse prima ancora di alzare gli occhi. Era una grossa falena caudata, che svolazzava sopra di noi, piena di chiaro di luna. Quando se ne fu andata, la sua mano era nella mia.»

 

Di fronte all’esplodere di una passione quasi inverosimile, la penna di Cain, che non è certo narratore di amori sdilinquenti, s’impenna e trova un inatteso cambio di ritmo. Quel romanzo di formazione avviato sulla strada di un’educazione sentimentale anticonformista e provocatoria, si trasforma improvvisamente in un romanzo picaresco. E della miglior specie. L’ira paterna, suscitata dal diffondersi delle malelingue in un paese ancora troppo ancorato alle proprie origini puritane, è ragione sufficiente per fare in fretta il proprio bagaglio e partire. Inizia così un vagabondaggio destinato a durare tredici anni, che porta Jack a ingrossare le fila di un esercito di miserabili e sfaccendati, fermi agli angoli delle strade o nascosti nelle stanze di alberghi a basso costo, nuovi figli di un’America prostrata dalla crisi. E la strada, così, diventa adesso la sua unica casa.

 

Ai tempi dell’università, quando ancora le cose andavano per il verso giusto, Jack aveva trovato nella macchina, regalo paterno e oggetto degli sguardi dei coetanei invidiosi, più che un semplice mezzo di trasporto, un moltiplicatore di possibilità, un estensore di orizzonti, la promessa di tante alternative quante erano le tratte della rete stradale americana. Ora quella rete si è ridotta a una linea retta; anzi due. Quelle delle rotaie del treno, lungo le quali un popolo di affamati si assiepa in attesa di un convoglio merci su cui salire e smettere di pensare. New Orleans, Kansas City, Chattanooga, St. Louis, Yuma, San Bernardino, Las Vegas: sono le tappe di un viaggio senza meta, il cui unico nord è la ricerca di qualcosa che rimetta in moto la macchina del desiderio, d’amore e di vita. Scelte irriflesse quanto ciniche e inaspettati colpi di fortuna offrono a Jack l’occasione di salvarsi; la sua capacità di sfruttare le situazioni propizie fa il resto. Rispolverando le sue abilità di meccanico e la sua voce sempre suadente, Jack risale la scala della condizione umana, e con essa della gerarchia sociale, arrivando a dirigere un’intera impresa petrolifera.

 

Fortune che possono capitare solo al tempo di un capitalismo a grado zero, legato a ritmi, abitudini e attese quasi elementari, issato su un tessuto sociale e legale addirittura primitivo (per cui per dirigere un pozzo petrolifero non serve neanche una licenza). Attraverso la parabola di Jack Dillon, Cain racconta, con tono orgoglioso e smaliziato, un’America che non ha sacrificato il proprio candore al fuoco della crisi: la curiosità, l’intraprendenza, la capacità di dare alle fantasie i contorni di un progetto restano qualità sufficienti per distinguersi, per fare fortuna, o comunque per nutrire la speranza di riuscirci. L’epopea del self-made man s’intride di un romanticismo che dal campo degli affari trapassa facilmente a quello dei sentimenti. Lusso, soldi, amori facili e frequentazioni altolocate non possono soddisfare neanche l’ultimo degli arrampicatori: l’uomo è legato a passioni infantili, a sentimenti scoperti quando il cuore ancora non si era indurito al freddo delle sofferenze della vita adulta. Il su e giù di una trivella non basta a ripristinarne il battito. Solo la potenza labile del sogno, di un orizzonte incerto ma gravido di felicità può rianimare il suo spirito. Alzando lo sguardo al cielo, Jack vede tante stelle quante sono le promesse di successo che il futuro gli potrà riservare. Ma, tra quelle luci, lui cerca un’ombra, il riflesso chiaroscuro di un’illusione a cui è impossibile rinunciare: simbolo di un sogno infranto, allegoria di una felicità sempre possibile, solo la falena porterà pace nell’animo di quest’uomo.

 

«Non saprei quando fu, un’ora dopo, o forse più, che guardai il mare e, lungo il sentiero d’argento, la luna, conscio che se la falena l’avesse attraversato a volo, avrei potuto fissarla, amarla, senza che nulla mi accadesse.»

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