Turisti dello sguardo
Il cinema è come il crimine: lascia sempre delle tracce dove passa. Sono parole di un grande regista, Joseph L. Mankiewicz, e descrivono perfettamente ciò di cui andiamo in cerca quando i film restano nella mente e chiedono di ripresentarsi nello spazio. La memoria cinematografica, oltre che enciclopedica o sentimentale, legata a un momento, uno stato d’animo, una conoscenza, è anche geografica: legata cioè a dei luoghi.
Luoghi privati, ma soprattutto collettivi, conosciuti nella finzione e rivissuti dal vivo, in sostituzione del reale. Se il cinema, come insegna il piccolo Hugo Cabret, è un’esperienza del mondo, e se amare il cinema significa trovare un posto nel mondo, allora la geografia che ogni film impone al suo spettatore offre la possibilità di un’esplorazione, di un viaggio immaginario ed emotivo nel mondo.
E in questo senso c’è un solo luogo che ciascuno di noi, attraverso il cinema, ha visto, immaginato, ricostruito e in certi casi, se fortunato, infine incontrato. Una città che appartiene non ai suoi abitanti, ma al mondo intero, agli spettatori di un immaginario che plasma la realtà: New York, ovviamente.
New York con i suoi racconti, i suoi film, la sua silhouette, la sua impietosa arroganza. La città più immaginata che esista e per questo l’ideale punto di partenza di un viaggio puramente cinematografico, fatto di sguardi e memorie.
Questo non è un pezzo su New York, ma un tentativo – abbozzato e in fieri – di capire cosa rappresenta ancora, collettivamente e individualmente, il cinema come macchina di desiderio e di proiezione, di conoscenza ed esperienza del mondo.
Ogni film è un viaggio, lo sappiamo. Un viaggio che si compie a distanza, in differita, senza conoscere i rumori e gli odori dei luoghi che visita; un viaggio con gli occhi di un altro e soprattutto con le gambe di un altro: nei film, infatti, si cammina parecchio, e così deve essere perché si accompagna lo spettatore in un luogo nuovo, lo si introduce alla città, in un certo senso compensando l’immobilità della sua posizione. Come nella Finestra sul cortile, ma al contrario, con l’esperienza del cinema non più impotente ma mobile, dentro un luogo da conoscere e riconoscere.
Lo spettatore è un turista dello sguardo e della memoria, e un luogo come New York, più ancora di Parigi, Londra, Roma o Hong Kong, si conosce senza averlo visitato.
La geografia del cinema è fasulla, offre scorci e non posizioni, lavora per immedesimazione e non per precisione: ma grazie al cinema è come se New York l’avessimo vissuta dal vero, due, tre, dieci, cento, mille volte. All’ennesima visione cinematografica si ritrovano luoghi noti e luoghi sconosciuti, la memoria registra parole, direzioni, indicazioni (Downtown, Midtown, East Side, West Side) che entrano a far parte di una geografia immaginaria, tra scorci da cartolina, icone postmoderne o sobborghi e ghetti che poco importa se sonnacchiosi o malfamati, basta che rappresentino un altrove a cui appartenere.
Che valore hanno, per noi spettatori innamorati dello spazio americano, le mean streets di Scorsese, così violente, sporche e bellissime, filtrate dalla grana del 16mm anni ’70 e per questo territori selvaggi e idealizzati? Chi ci vorrebbe vivere per davvero in quei posti? Nessuno. Ma chi vorrebbe almeno per un momento respirare dal vero l’energia poderosa di quelle strade? Chiunque. Il cinema incarna un desiderio e al tempo stesso lo esaudisce, lo spettatore vive nel qui e nel dopo, vive l’esperienza di un luogo e la visione di un piacere.
New York è in fondo una città-spettacolo al servizio dei suoi spettatori: è violenta e mozzafiato anche quando sfodera il proprio lato luccicante, da sesso nella città. La camminata di Carrie Bradshaw nella sigla di Sex and the City, ad esempio, con la party girl che si confonde nella folla ed emerge per la falcata, per l’immagine sulla fiancata dell’autobus, per lo schizzo d’acqua che quasi la colpisce, riproduce l’anima selvaggia della city nella forma lieve ma pur sempre simbolica di una quotidiana lotta per la distinzione sociale. E New York si fa palcoscenico, messa in scena di se stessa, passerella su cui sfilare. A New York i palcoscenici non sono solo nel Theatre District attorno a Times Square: Broadway, con la sua mitologia del sogno che diventa realtà, della lotta per il successo come paradigma della vita americana, ha finito per trasformare ogni strada in una chorus line, ogni metro d’asfalto, come succedeva in Saranno famosi, in una pista da ballo.
E ogni spettatore-viaggiatore, nel suo rapporto personale e intimo con il cinema e le sue rappresentazioni più seducenti e ingannevoli, può pensare di possederla quella pista: in fondo i film americani questo raccontano, l’ingresso in un mondo (il mondo di una storia, il mondo di una città) e il tentativo di trovarvi un posto. E di New York, come scriveva Romano Giachetti, “ce n’è una sola. E appartiene ai newyorkesi. Che poi vuol dire al mondo intero”.
E dunque siamo tutti newyorchesi. Almeno da quando la città abbiamo cominciato ad attraversarla con l’andatura incerta, disperata, spaventosamente seducente, dei beat, dei jazzisti di Cassavetes, di Robert De Niro, di Jon Voight, di Al Pacino, di tutti quei personaggi della New Hollywood e di qualche anno prima, che la vivevano come non solo come scenografia o come trasparente, ma come tessuto urbano, sopra l’asfalto, tra le luci al neon, sul ponte di Brooklyn, in Amsterdam Avenue, nel Village e nel Queens. Ancora negli anni ’50 un film come Un amore splendido considerava l’Empire State Building un’icona distante e inerme, simbolo di un amore mancato; coi ’60, invece, si scende per sempre in strada, regalando l’illusione di possedere la città attraverso lo sguardo.
Cosa ne sarebbe oggi di New York senza i guerrieri della notte? Chi amerebbe così tanto la cultura underground, chi la considererebbe una tappa fondamentale dell’immaginario postmoderno, senza quei graffiti, quei locali al neon, quei costumi da giocatori di baseball impazziti, quella spiaggia di Coney Island su cui solo vent’anni prima prendeva il sole Lana Turner e nessuno si sognava di prendere la metro e farsi un’ora di viaggio per andare a visitare una ruota panoramica e una spiaggia uguale a tutte le altre? New York vive di se stessa, della propria normalità trasformata dall’affezione dello sguardo in mitologia contemporanea. La conosciamo così bene perché la viviamo da personaggi e da sempre la osserviamo come spettatori dall’alto.
La cosa, a pensarci bene, vale anche per la letteratura: un libro come Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan non è un racconto, ma uno sguardo su New York; i suoi protagonisti la osservano dall’alto di un grattacielo, dal basso di una banchina sull’East River, dall’interno delle vie notturne del Lower East Side, attraverso istantanee sugli ultimi anni d’oro di Downtown. Nell’ultimo capitolo ambientato nel futuro, la città è addirittura sprofondata sotto il livello del mare, come se fosse ripiegata su se stessa, e la sua gente per vedere il tramonto è costretta a salire sulle banchine montate attorno al perimetro dell’isola: ogni cosa è nascosta a se stessa, a New York, perché forse il suo vero compito è quello di specchiarsi.
New York è anche e soprattutto una posa. L’uomo da marciapiede, il tossico esagitato di Needle Park, il tassista reduce e incazzato di Taxi Driver, con la loro presenza aliena nello spazio urbano e la loro fisicità disturbante, col tempo sono diventati icone di pose generazionali, e così facendo hanno fatto da tramite tra lo spazio americano e lo sguardo cinematografico: uno sguardo non più catturato dall’immaterialità del cinema, dalla sua dimensione onirica (come se ogni luogo da sognare fosse la Brigadoon di Minnelli), ma messo di fronte a una terra desolata da conoscere e attraversare. È questa terra desolata, per noi contemporanei, l’unico sogno possibile: negli anni ’70 la città era un panorama da solcare nonostante il degrado, l’asfalto, l’oscurità minacciosa. Ma è così che abbiamo imparato a conoscerla, osservandola e vivendola come una terra di frontiera, come se fosse il deserto di un western.
Qualche anno dopo invece, più meno a metà degli ’80, forse anche prima, di sicuro a partire da un film come Fuori orario, Manhattan è diventa la tana del coniglio, il paese delle meraviglie spaventose, una città così nota nella sua iconografia e geografia (Soho, di notte, tra loft e appartamenti interrati) da essere teatro dell’inconscio, scena incomprensibile di un sogno lungo una notte. L’esperienza del cinema, che vent’anni prima aveva cominciato a evocare il respiro della realtà, oltre il racconto classico e la patina del trasparente, con Scorsese (e altrove con Lynch, ma lì siamo nell’iconografia della provincia: altri luoghi da desiderare…) perde nuovamente il contatto con il mondo. La differenza è che questa volta si non fugge più in un paradiso di sogni e corteggiamenti amorosi, ma in un limbo di tragedia e grottesco.
Il protagonista del viaggio al termine della notte newyorchese diventa egli stesso un’icona, murato vivo in una statua di gesso a ricordare l’urlo di Munch: la luce del sole è ritrovata nello stesso punto da cui si è partiti, ma la realtà ormai è stata scardinata, non esiste più, New York non esiste più, e dunque la si può vivere ovunque come smarrimento e alienazione.
Ed è questo che si fa nel cinema degli anni Duemila: si cammina ancora, ci si disperde ancora nella folla, ma fuori tempo e fuori posto. Alieni, per l’appunto, uomini che non sono qui o uomini che non ci sono. Come la rockstar invecchiata di This Must Be the Place, a cui Sean Penn regala la sua espressione stordita mentre scivola mollemente lungo la 47ma strada e la straziante Happiness, malinconica e indie, intima e arrendevole, lo accompagna al rallentatore. Sono pochi e folgoranti attimi di rivelazione: tocca al corpo sfatto del reduce sancire la distanza definitiva tra individuo e città, come se ciascuno fosse spettatore della propria esperienza. La città non ci conosce più, non è più territorio da conquistare, ma è una presenza distante. Necessaria, ma assente.
L’urlo soffocato si trasforma in quiete arrendevole e come nel romanzo della Egan lo sguardo sbatte contro la superficie e si rivolta verso se stesso. Prendete il broker sessuomane di Shame, l’ultima grande elegia newyorchese e al tempo stesso un film spaventosamente in ritardo, al passo col tempo della crisi ma distante due decenni dalle ovvie ossessioni di Ellis: nella scena più bella del film (l’unica?), in piena notte l’uomo fluttua come un ghost dog tra le via di Midtown, lungo la 31st fino al Madison Square Garden. La città è quieta, la luce sfarfalla al ritmo di un neon guasto, il preludio e la fuga di Bach provengono, non a caso, dalle cuffie di un iPod (musica interiore impossibile da ascoltare) e il nuovo eroe fuori orario è un corpo prigioniero della propria ossessione, intrappolato, come tutti è ovvio, in una città-isola che si presta naturalmente a essere immagine riassuntiva di ogni altra. Siamo tutti newyorchesi, ricordate, e New York racconta la nostra progressiva separazione dalla realtà.
Lo sguardo non è più frontale, ma laterale, con un carrello che accompagna la corsa del redivivo uomo del passato; il personaggio non emerge dalla città come un tempo Travis Bickle, creatura compromessa e unica, specchio e distorsione della nostra coscienza, ma le scorre a fianco, come se attraversasse la scenografia di un palcoscenico o il procedere inesorabile di un film che scorre per i fatti suoi.