Prima traduzione integrale / Anne Sexton, Il libro della follia
«Bella e dannata, sexy e infantile, sposata e sciupamaschi, indifesa ed esibizionista, plurisuicida con un incrollabile senso dell’umorismo, fragile ma carismatica, autodidatta e docente universitaria, atea e religiosa benestante, signora drogata di torazin e alcolizzata»: così in Love Poems (Le Lettere, 1996), Rosaria Lo Russo descrive Anne Sexton. La stessa Lo Russo cura oggi la prima traduzione integrale di The Book of Folly (Il libro della follia, La Nave di Teseo, 2021), pubblicato per la prima volta nel 1972. Il libro è diviso in tre parti: 1. “Trenta poesie”; 2. Tre racconti, “Ballare la giga”, “Il Balletto del Buffone”, “Cala le ciocche”; e una sezione poetica finale, “Carte di Gesù”.
La prima poesia, “L’uccello ambizioso”, recita così: «Eccola, arriva / – l’insonnia delle 3.15 – / all’orologio s’inceppa il motore // come se a una rana sulla meridiana / le prendesse un colpo apoplettico / proprio al quarto d’ora. // Trafficare con le parole mi tiene sveglia. / Bevo una cioccolata / calda mamma marrone» (LDF, p. 15). Se le parole sono maschere, Anne Sexton le usa in modo scandaloso, blasfemo, antilirico, frantumando il paesaggio conciliante di una scrittura convenzionale. Fragile, scorticata, indifesa, sprofondata nella nudità psichica di un dolore inimmaginabile. la “malata d’anima” Anne Sexton è anche attrice della rappresentazione allegorica della sua follia bipolare, dove vero e falso si impastano e si modellano insieme, fra autobiografia e immaginazione.
Anne Gray Harvey, ragazza di buona famiglia e ultima di tre sorelle, vive un’infanzia solitaria e non frequenta corsi di studio regolari. Si sente «chiusa a chiave nella casa sbagliata». I suoi genitori conducono una vita sociale da benestanti ma entrambi sono gravi alcolisti. Solo la giovane prozia Nana è un punto di riferimento per Anne, ma per poco tempo poiché soffre di gravi disturbi psichici. Personaggio centrale della sua vita, doppio identitario nella follia, viene evocata così nella magnifica “Anna che era matta”: «Sono stata io / a farti ammattire? / Sono stata io / a farti fischiare una sirena negli auricolari? / Sono stata io / ad aprire la porta allo psichiatra mustacchiuto / che ti ha trascinato fuori a viva forza come una golf car? / Sono stata io / a farti ammattire? / Dalla tua sepoltura, Anna, scrivimi! / Non sei altro che ceneri ma, purnondimeno, / impugna la Parker che ti regalai! E scrivimi. / Scrivi» (LDF, p. 77).
All’inizio dell’estate del 1944, non ancora sedicenne, Anne conosce Kayo Sexton, se ne innamora, fugge con lui e lo sposa. Nel 1953 nasce la prima figlia Linda Gray, nel 1955 la secondogenita Joyce Ladd. Ma, una sera di luglio del 1956, dopo che Kayo e le bambine si erano addormentati, Anne estrae da un cassetto la fotografia e il diario di Nana e le pillole per dormire che le aveva prescritto la psichiatra: è il suo primo tentativo di suicidio. Kayo la trova in veranda, priva di sensi. Anne viene ricoverata e salvata. In un’intervista rilasciata alla Paris Review nell’agosto del 1968, Sexton ricorda così le sue crisi nervose: «Fino ai ventotto anni avevo una specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Credevo di non avere nessuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata e che mio marito si aspettava da me. Questa vita di facciata crollò quando a ventotto anni ebbi una crisi psichica e tentai di uccidermi».
Entra in cura con un nuovo psichiatra, che le consiglia di sviluppare il suo talento creativo e le consiglia di scrivere. Dopo alcuni mesi di scrittura compulsiva, approvata sia dallo psichiatra che dalla madre, le tentazioni suicide ricompaiono e il 29 maggio del 1957 tenta di nuovo di togliersi la vita. Ma Anne, ora, vive la scrittura come un argine. Detesta che le parlino della pazzia come di qualcosa di romantico e creativo: sa che lei può scrivere dei propri tormenti solo se è in buone condizioni psichiche. Si decide a frequentare il corso tenuto da John Holmes, al Boston Center for Adult Education. Maxine Kumin, poetessa ebrea, che lei conosce a quel seminario e che sarebbe diventata la sua migliore amica, la ricorda come bellissima, elegante, ingioiellata, rossetto e smalto per le unghie perfettamente abbinati. L’analisi psichica e le performances poetiche occupano la sua vita.
La scrittura è per lei l’unica ragione di vita e il luogo dove permettersi di rinascere una seconda volta, senza madre né padre. Nel 1958 il poemetto “La doppia immagine” viene pubblicato e durante quei mesi, fondamentali per la costruzione della sua identità Anne incontra una giovane scrittrice il cui destino diventerà parallelo al suo: Sylvia Plath. Dopo la morte della Plath, Sexton ricorda così le ore trascorse insieme: «Spesso molto spesso, Sylvia e io riparlavamo dei nostri primi tentativi di suicidio: molto, in dettaglio e in profondità fra una patatina fritta e un’altra. Il suicidio, dopo tutto, è il contrario della poesia. Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla luce elettrica». Nel racconto “Cala le ciocche” (LDF, p. 167) scrive, un po’ bugiarda e un po’ sincera, della sua vocazione ascetica e spettacolare: «A dire il vero, sono un’eremita. Sono esitante come Emily Dickinson. Sono tutta vestita di bianco, come una novizia. Un’eremita, sì. Eppure ogni giorno attraggo le folle».
In Il Libro della follia i tre racconti, “Ballare la giga”, “Il Balletto del Buffone” e “Cala le ciocche” sono impressionanti per la vividezza allucinata delle scene rappresentate, vicine a certe pagine di Clarice Lispector ma modulate su un timbro esaltato e furente, cariche di una tensione orientata verso il caos, la disgregazione, la “fiaba nera”. I versi e le prose di Anne non riflettono una dissociazione silenziosa, come nelle stupefatte evocazioni di Emily Dickinson, ma un furore contratto e schizoide, dove anima e corpo non sono più contenute in gusci spirituali o fisici ma sono pronte a essere scannate, arse sul rogo. Questa è la potenza di Anne Sexton, la sua psicosi “cruenta”, dove il corpo sanguina, cannibalizzato, distorto, sconsacrato, mutilato, in una estroversione feroce e teatrale del dolore, dove metafore beffarde innescano scene di allarme, di tragedia, di scandaloso sarcasmo. «Quando qualcuno bacia qualcun altro o tira lo sciacquone / il Doppio si acciambella e piange. / Il Doppio mi batte il tamburo di latta nel cuore. / Il Doppio stende i panni quando cerco di dormire. / Il Doppio piange e piange / quando indosso il vestito da sera. / Piange quando spelluzzico patatine. / Piange quando butto baci alla gente. / Piange e piange e piange / finché non mi metto una maschera dipinta / e sbircio la Passione di Gesù. / Allora ridacchia. / È uno schiacciapollici. / L’odio lo rende chiaroveggente» (LDF, p. 69). E, nella lunga poesia “Scarpette rosse”, ispirata alla fiaba di Andersen e forse al celebre film di Powell e Pressburger sulla follia di una danzatrice, Sexton racconta, come in una tragica ballata, la potenza dei piedi in corsa che trascinano con sé, verso la fine, in una grottesca metamorfosi, tutto il resto del corpo: «Tutte le ragazze / che portavano scarpette rosse / salirono su un treno che non si fermò. / […] Con loro si giocò. / A loro le orecchie / come spille da balia si strappò. / E caddero le braccia / diventarono cappelli, / E rotolarono le teste, / cantarono per strada […] Ma i piedi continuavano / i piedi non riuscivano a fermarsi […] / Non badavano a te e a me. / Non potevano ascoltare. / non potevano fermarsi. / Quel che fecero / fu la danza della morte. // Quel che fecero le finirà».
Anne pubblica oltre dieci libri, vince premi prestigiosi, e simultaneamente sprofonda nella disperazione e nella solitudine, nonostante le numerose relazioni amorose e l’amicizia con Maxine Cumin. Il suo leggendario fascino non viene mai meno, ma il declino fisico incombe. I taccuini della morte, il suo ultimo libro, riscuote il consueto successo. Niente lascia presagire il futuro imminente: chi la vide, il giorno prima e la mattina del giorno in cui si uccise, il 4 ottobre 1974, non nota nulla di diverso in lei. Pranza con Maxine, che è l’ultima persona a vederla viva, telefona alle persone che avrebbe dovuto incontrare quella sera; poi si avvolge nella vecchia pelliccia della madre, si versa un bicchiere di vodka, si chiude nel garage, accende il motore dell’auto, e muore asfissiata dal monossido di carbonio.
Scrive Lo Russo di The Book of Folly: «La Signora Benestante che scrive occasionalmente versi rispettando le forme metriche lascia il posto, definitivamente e consapevolmente, al personaggio della Poetessa Martire della società benpensante e all’aspirante suicida, in un rovesciamento parodico dei valori patriarcali, accostando l’alto senso del tragico all’ironia e alla caricatura, la metafora lirica al sarcasmo più blasfemo. Con una scrittura più vicina a quella delle canzoni rock che alla poesia sua contemporanea, la lingua inconfondibile della Follia di Anne Sexton ha influenzato, per stile e tematiche, non solo la poesia successiva americana e poi internazionale, ma anche la scrittura di divi del pop rock come Peter Gabriel e Kate Bush».
Se Wallace Stevens intitola uno dei suoi libri più importanti Note per una finzione suprema, si potrebbe dire che Anne Sexton vive, come Stevens, la sua arte in quanto "supreme fiction" e Il libro della follia ne è ulteriore testimonianza, svelando la sismica, frenetica sensibilità dell’artista attraverso partiture cangianti e immagini feroci: «che mi dici di una mamma verde melma / la prima che mi obbliga a cantare»; e insiste nell’osservare il mondo con una percezione esasperata, simbolo della sua “tempesta emotiva”, come nel racconto “Ballare la giga”: «Senza guardarli, so esattamente che aspetto hanno e che non mi notano. Prendo un altro drink. Lo assaporo. Una sedia può sentire un sapore? È questo il mio errore più grave, pensare di essere una sedia, provare a restare fissa. Ci provo per non muovermi, non seguire la musica, non ballare la giga. Provo a restare fissa. Ma non ci riesco mai» (LDF, p. 135). Dipendente dalla terapia psicofarmacologica, vittima di continui scompensi bipolari, Anne non ha mai potuto controllare la sua inguaribile inquietudine e si è sempre vista dentro un mondo fluttuante, inafferrabile, angoscioso. Scrivere ha solo dilazionato il tempo della sua fine.
L’unica cura possibile, per il furore della sua anima, dilaniata fra stati di esaltazione e silenzi depressivi, era fermare brutalmente la vita con il suicidio. Solo in questo modo avrebbe potuto assaporare la quiete mai vissuta, smettere di trafficare con le sue mille metamorfosi di “personaggio poetico”, fra reading e performances, e affidarsi, ormai fuori da ogni maschera, alle parole già scritte. «Sicuramente le parole continueranno perché sono, di ciò che resta, l’unica verità» (LDF, p. 29). Anne Sexton, in piena coscienza, descrive in modo esatto la sua stessa tomba «Non mi vedrete mai. Una stanza di pietra al quinto piano, a forma di giostra, undici piedi di circonferenza. Una stanza simile all’interno di una campana» (LDF p. 169).
Libri citati:
Anne Sexton, Il libro della follia (LDF), Milano, La nave di Teseo, 2021.
Anne Sexton, Poesie d’amore (LP), Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1996.