Il mondo è tutto inumano?
Pochi mesi fa Giorgio van Straten, in un suo saggio molto interessante (Invasione di campo. Quando la letteratura racconta la storia, Laterza editore) si interrogava sul rapporto tra letteratura e storia, al di là della fluttuante casella del romanzo storico. La sua analisi ruota attorno a due esempi concreti: Primo Levi e Beppe Fenoglio. La complessa risposta che segue alla sua analisi è, sintetizzando: la storia attinge alla letteratura, la letteratura attinge alla storia. Anche se asserragliato nella famosa torre lo scrittore è sempre immerso nella storia, esattamente come il poeta e come tutti.
Oltre il valore semplicemente testimoniale poeti e scrittori ci trasmettono qualcosa che un manuale di storia può soltanto accogliere numericamente: la vita stessa. Come sarebbe possibile una storia della Francia ottocentesca senza Balzac? Senza Baudelaire? O la storia della Resistenza italiana senza Beppe Fenoglio? O la tragedia della Shoah senza Primo Levi e Anna Frank? Il libro di van Straten mi ha accompagnato nelle mie letture successive, e il dialogo con lui è andato avanti con altri personaggi di altri paesi: il piccolo, straziante libro di Vasilij Grossman, Ucraini senza ebrei, e Jozef Czapski, La terra inumana (entrambi pubblicati da Adelphi, quest’ultimo tradotto da Andrea Ceccarelli e Tullia Villanova). Di Vasilij Grossman e della sua fondamentale dilogia (Stalingrado e Vita e destino, che dobbiamo alla bella traduzione di Claudia Zonghetti) ho scritto negli anni diverse volte e ne scriverò ancora. Il contenuto storico, lo riassumo brutalmente, è così scandaloso che la sinistra europea (e soprattutto italiana) ha fatto di tutto per cancellarlo, quasi fino ai nostri giorni.
Ricordo che Stalin fece sequestrare anche i nastri della macchina da scrivere con cui aveva scritto la sua opera. Grossman ci mostra una verità ancora non del tutto chiara: non è stato Stalin a respingere Hitler, ma un popolo intero. Stalin infatti non solo tardò a rispondere all’attacco della Wehrmacht, permettendo un affondo quasi fatale, ma era stato fino a un istante prima alleato di Hitler. Si cita spesso il patto Ribbentrop-Molotov sottoscritto dai due dittatori, ma il messaggio non è giunto ai lettori se non come accordo quasi burocratico e occasionale, addirittura tattico secondo la volgare giustificazione dei cosiddetti intellettuali dell’epoca. La spartizione della Polonia e la persecuzione ai limiti del genocidio della sua popolazione sono tra gli episodi più violenti della storia contemporanea. “Il Montanaro del Cremlino”, come lo definì Mandel’štam nella poesia che gli costò la vita, “dalle tozze dita grosse come vermi”, non era un uomo intelligente.
Era un rozzo paranoico, forse frutto inevitabile della Rivoluzione d’ottobre, ma soprattutto era stato un alleato di Hitler, che godeva della sua massima fiducia. Tanto che, negli anni ’30, aveva fatto sparire l’intero corpo dirigente dell’Armata rossa (tutti “trotskisti”, e in effetti scelti dal loro ex comandante Lev Trotskij), che per mesi subirà l’attacco della Wermacht. Il versante polacco di questa tragedia è stato raccontato da un altro scrittore, Jozef Czapski (nato nel 1896 e in vita più noto come pittore), che per le sue nobili origini ha potuto viaggiare sin dall’infanzia, vivendo esperienze tutte memorabili: nato a Praga da genitori polacchi si trova a Pietroburgo nei giorni cruciali della rivoluzione. Quindi è stato bielorusso e russo nella giovinezza e ha trascorso in Polonia soltanto nove anni, vivendo in Francia il resto della vita. “Cosmopolacco” si definiva. Sin da giovane si dichiara pacifista e tolstoiano, e anche da militare accetterà incarichi senza armi. Le sue incredibili esperienze lo costringeranno a cambiare idea e a un certo punto imbraccerà le armi. La rivoluzione bolscevica si trasforma quasi subito in tirannide, e il massacro degli anarchici di Kronstadt annuncia la fine del sogno comunista.
Anche i marinai di Kronstadt per il regime erano spie nemiche, tutti gli oppositori erano “fascisti”, soprattutto i polacchi, ma anche gli uzbeki, i contadini, i poeti, gli scrittori. Le stesse parole che oggi Putin (ammiratore di Stalin e suo degno successore) rivolge agli ucraini. L’assurdo è che gli alleati di Hitler erano i sovietici, e insieme hanno sterminato e dilaniato il popolo polacco. Vorrei sottolineare questa parola: insieme. Fucilazioni di massa, campi di sterminio nazisti, lager sovietici. Ricordiamo i prigionieri di un Gulag raccontati da Grossman: l’invidia che provavano per i loro compagni torturati nei lager nazisti, forse la pagina più agghiacciante della letteratura contemporanea. Grossman e Czapski raccontano la stessa storia da due angolazioni (e con due lingue) diverse. Il primo, dotato di un enorme talento letterario, compone un romanzo-verità, con personaggi letterari che si mescolano a personaggi storici con maestria tolstoiana e delicatezza cechoviana, il secondo sceglie una narrazione esplicitamente autobiografica ma con una particolarità che lo rende unico: il personaggio Czapski quasi non appare.
Nessun narratore del proprio ombelico contemporaneo può essere accostato a uno scrittore del suo livello. Il fatto di essere nato pittore gli dona la capacità straordinaria di descrivere come in un disegno gli infiniti luoghi e le migliaia di persone che incontra nel paesaggio infernale della guerra. In questi due autori emerge con prepotenza un personaggio collettivo, una folla di individui tutti diversi eternamente in viaggio dentro una terra inumana, dove sangue e violenza si mescolano alla menzogna del potere totalitario. Per tornare alla riflessione del van Straten: senza questi due scrittori non si può capire niente di quel che è successo in quegli anni infernali nell’infernale girone dell’Europa orientale. Sono sempre e solo gli scrittori a offrirci i mattoni di verità che compongono la storia degli uomini. Non offrono soltanto contributi suggestivi e documentali ma sono, sin dalla più profonda antichità, fonte primaria della Storia.
Il percorso di Grossman da Stalingrado, forse la battaglia più importante del 900, ci porta fino a Berlino e alla fine del nazismo. Grossman, con la sua divisa da ufficiale dell’Armata Rossa descrive tutto quello che vede, nei suoi libri e nelle sue memorabili corrispondenze di guerra, quasi tutte censurate, spingendosi fino al punto di intervistare le ragazze tedesche ripetutamente violentate dai sovietici. Il percorso di Czapski è molto più complesso. Gli anni non hanno mai la stessa durata. I tre anni trascorsi da Czapski in Russia (la Terra Inumana), dal 1941 al 1943, sembrano eterni. È addirittura impossibile riassumerli in un articolo. Soldati e ufficiali dell’Armata polacca scompaiono nel nulla a decine di migliaia. Le fosse comuni di Katin’ diventeranno un grottesco caso internazionale: nazisti e sovietici si accuseranno reciprocamente del massacro, attribuibile senza alcun dubbio ai sovietici. Molte fosse comuni verranno trovate anni dopo. I sopravvissuti nei lager (questo sono i gulag), sopravvissuti alla fame e alle infinite epidemie mortali, verranno all’improvviso liberati: Stalin ha bisogno di uomini.
I polacchi, prima sterminati e imprigionati dai sovietici perché combattevano contro i nazisti invasori loro alleati, vengono ora parzialmente liberati dai russi per combattere contro i nazisti non più alleati dei sovietici ma invasori. Inizia quindi una fase che neppure Beckett avrebbe potuto immaginare. Dai molti lager cominciano a raggrupparsi le truppe polacche residue, che verranno convogliate verso sud-est, ma in realtà subiranno sempre un trattamento quasi da reclusi. Saranno sorvegliati a vista dalle spie sovietiche, e molti continueranno a sparire all’improvviso. Czapski ha perso i contatti con i suoi compagni di prigionia e naturalmente li cerca, ricevendo dai sovietici, compreso Stalin in persona, ampie assicurazioni ma vaghe risposte, cioè le solite infinite menzogne sovietiche. Dove sono finiti i suoi compagni dei campi di Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaskov? Si tratta di decine di migliaia di soldati. Naturalmente sono tutti già morti da tempo: si ritroveranno i loro teschi, tutti bucati da un proiettile. Era questa la tecnica sovietica nelle esecuzioni di massa: un solo proiettile nella nuca.
La ricomposizione di un’armata polacca è lenta e difficile. Mentre Grossman è nell’inferno di Stalingrado, Czapski e i polacchi, in mille rivoli, continuano il loro viaggio disperato verso sud: dal gelo di Kolyma, dove il 70% dei detenuti era già sotto terra, uccisi dai sovietici o più spesso dalle malattie infettive e dalla fame, attraversano deserti infiniti e caldissimi, e fanno tappa in Uzbekistan, dove la devastazione etnica dei sovietici ha raggiunto il culmine. Gli uomini a migliaia di chilometri nei gulag siberiani, donne e bambini stremati dalle malattie e dalla fame, raggruppati in campi disperati. Il comandante dell’armata di miserabili polacchi è un uomo descritto stupendamente da Czapski, il generale Anders: “ufficiale di straordinario valore, elegante, estremamente cortese, con qualcosa di freddo negli occhi grandi, distanziati e scuri”. È lui che li guiderà nell’infinito viaggio che li porterà a Cassino e poi a Bologna.
I polacchi sono in pratica un esercito di prigionieri, e la loro alleanza forzata con i sovietici, che li controllano ovunque facendo ogni tanto sparire qualcuno, resterà ambigua fino alla fine della guerra. Il libro di Czapski si ferma prima dello sbarco in Italia: l’esercito dei disperati staziona a lungo in Iran, dove la penna-pennello di Czapski si distende in descrizioni umane (le infermiere, stupende) e naturali. Riesce a cogliere la gentilezza in tutti i visi che vede. Descrive anche i sentimenti religiosi più reconditi delle persone. Spesso, nei campi pieni di malati gravissimi, bambini scheletrici, feriti, si diffonde il suono sommesso di una preghiera disperata. Non importa di quale religione. Assiste anche una ragazza vittima di un incidente, che si dice contenta di morire lì e non in Russia, nella terra inumana. Molti commilitoni che incontra e descrive, tutti reduci da malattie lunghe e spietate, troveranno in Italia la loro tomba. Per anni, quando frequentavo l’università, sono passato accanto a un cimitero polacco con la mia automobile scassata. Lo guardavo e naturalmente mi colpiva: quei morti dovevano avere tutti, più o meno, la mia stessa età di allora. Morti per liberare gli italiani dai nazi-fascisti, quindi anche da loro stessi. Czapski e Grossman, nella loro comune ossessione della verità, danno un volto a milioni di croci tutte uguali. Contro la verità c’è soltanto un’arma, usata da tutti i tiranni e dai loro lacchè: la rimozione. Ma la letteratura e la poesia dispongono di una forza ai loro occhi incomprensibile: la persistenza. Mandel’štam verrà letto finché ci saranno occhi per leggerlo. Stalin sarà ricordato come uno dei tanti tiranni della storia; in fondo era soltanto “il montanaro del Cremlino dalle tozze dita grosse come vermi”.