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Diario russo 11. Non c'è nessuna Itaca
Cento giorni di guerra. Se uno ci pensa, la cifra dice poco o niente, si tratta di un po’ più di tre mesi, una stagione dell’anno. A far la differenza è proprio il “di guerra”, la brutalità della violenza entrata nelle vite di milioni di persone, l’infamia dei bombardamenti, il cinismo della propaganda, e tanta quotidiana sofferenza. In un’epoca in cui per anni si è parlato di traumi, di fronte alla distruzione in corso non leggo più di una parola forse nel recente passato abusata, ma oggi attuale come non mai. Shock che attraversano famiglie, immobilizzano vite, sezionano coscienze. L’incertezza del domani è la realtà di queste giornate, e per chi è stato costretto a scappare ora si pone la questione di cosa fare, con l’ondata d’entusiasmo che inizia a rientrare, e la durezza di una esistenza all’estero.
La nostalgia inizia a essere un vero e proprio malessere fisico, in molti casi: lo vedo in me e nella mia famiglia, alla fine fortunati ad aver qui in Italia un tetto, i miei genitori e tanti amici solidali, per chi ha dovuto lasciar tutto è ancora peggio. È un sentimento strano, perché fa avvertire mancanze bizzarre, a me è successo di provare tenerezza nel pensare al vento nevoso nel grigio dell’inverno moscovita e tristezza nel constatarlo ormai lontano, o di sognare le aule, gli studenti, i colleghi, i momenti trascorsi nelle biblioteche. Mi ha colpito molto ritrovare queste sensazioni in un libro di Francesco M. Cataluccio, Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania, pubblicato recentemente da Humboldt Books.
L’autore, profondo conoscitore della realtà polacca e acuto curatore delle opere in italiano di nomi quali Czesław Milosz, Witold Gombrowicz, Ryszard Kapuściński, riesce nel suo viaggio a concentrare la nostalgia dei luoghi, degli ambienti, degli incontri e dei passati spesso sovrapposti e complessi della Lituania. Quando Cataluccio scrive dei vari nomi dell’attuale Vilnius, non ne fa una questione di mera toponomastica, e subito mi è tornato alla mente quel che raccontava Theodor Shanin, il sociologo pioniere degli studi sul mondo rurale russo-sovietico, in una serie di testi diventati poi la sua biografia, Nesoglasnyj Teodor (Teodor il dissenziente): Quando mi chiedevano: «Di dove sei?» per me era sempre un problema, come rispondere. Alla fine, è venuto fuori questo testo: mio padre è nato in Russia, mia madre in Germania, io sono nato in Polonia, eppure siamo nati tutti nella stessa città, che oggi è la capitale della Lituania. Un itinerario, quello di Non c’è nessuna Itaca, dove il suono del vento del Baltico si avverte leggendo le pagine e dove dominano, oltre alle personalità, gli spazi urbani e delle foreste, assieme alla grande tragedia della comunità ebraica lituana e alle vicissitudini del paese in età sovietica.
Anche qui il ricordo torna a Shanin, che ho incontrato per la prima volta nel 2013 (o era il 2014?) durante una conferenza per giovani studiosi, seduto ad ascoltare le nostre relazioni, sempre affabile e sorridente: deportato assieme alla madre il 14 giugno 1941 in Asia Centrale, il futuro sociologo riesce a sopravvivere all’Olocausto, tragedia nella quale morirono il nonno, la sorella (lasciata lì dai solerti agenti della NKVD perché non era nella lista) e altri parenti. E quando ho letto di questa tragedia, mi ha sempre colpito come Shanin fosse riuscito dagli sconvolgimenti e dal dolore a tirar fuori, con grande coraggio e tenacia, una vita e una carriera affascinanti e al tempo stesso poco riducibili a quanto scritto da Milosz, citato da Cataluccio a proposito della condizione dell’espatrio forzato. Scriveva il premio Nobel polacco: La sorte di un profugo è una decadenza così grave che non l’augurerei a nessuno, a meno che non sia dotato della salute di un cavallo, della vitalità di un coccodrillo e dei nervi di un ippopotamo, e ha ragione, perché dover partire in fuga, lasciare tutto, vuol dire non poter essere più padroni di sé stessi, però auguro a tutti quelli che oggi sono in Europa, alla ricerca di una precaria stabilità, di aver la sorte di Shanin.
Vilnius e Kaunas oggi sono il primo approdo di tanti bielorussi, russi e ucraini, arrivati lì negli ultimi anni perché era per loro impossibile vivere nei tristi e pericolosi circhi dittatoriali e bellici di quei paesi. Spesso diventano casa per molti, e parole russe risuonano nelle strette vie delle città e nelle aule universitarie, nei caffè e nei teatri. A Vilnius anni fa son stato a vedere lo spettacolo del ballerino Mikhail Baryshnikov, dedicato a Iosif Brodskij, e qualche giorno fa proprio lui ha ribadito che non esiste solo la Russia di Putin, rivendicando la propria identità. Il vostro mondo russo - un mondo di paura, un mondo che brucia libri in lingua ucraina - non ha futuro finché siamo qui ha scritto Baryshnikov in una lettera al presidente russo. E tanti russi andati via stanno costruendo, nonostante il senso di colpa e la nostalgia, una Russia diversa.
C’è chi insegna le lingue straniere, gratis, ai rifugiati (se qualcuno desidera offrirsi, può farlo qui), c’è chi ha messo una iniziativa stupenda, quella di inviare libri in ucraino e in russo in tutta Europa, dovunque vi sia una biblioteca o un’associazione disposta a dedicare uno scaffale ai rifugiati, con il sostegno della Biblioteca Lesja Ukrainka di Kiev (trovate l’iniziativa con l’hashtag #Книжки_вслiд), e c’è chi, tutti i giorni, dedica del tempo per costruire un presente degno di questo nome a chi fugge dalla guerra, lavorando nei centri e nei punti d’accoglienza.
Intanto siamo a cento giorni, lunghi e dolorosi. La favola della viltà, per usare una espressione presa da Cupe Vampe dei CSI (a proposito di un’altra, orribile, guerra europea), non sembra veder la parola fine. Eppure un nuovo mondo, forse, inizia a costruirsi, tra le nostalgie e la volontà di riscatto.