L’ultimo film di Ken Loach / Sorry We Missed You: dalla parte degli sfruttati

25 Gennaio 2020

Cosa si prova uscendo dalla sala in cui abbiamo visto l’ultimo film di Ken Loach? Come uscendo da un incubo in cui siamo stati picchiati ingiustamente, perseguitati, spinti ai gesti più disperati per cercare di sopravvivere, tutti inutili, tutti patetici. Il piccolo pubblico, che ha assistito con grande partecipazione emotiva, si divide in gruppi sempre più piccoli che si allontano nel freddo intenso della notte. Pochi i commenti. Nessuno dice che bel film o che brutto film. Un giovane serio dice a un altro: “Ha fatto bene Antonio a non venire. Me l’ha detto: se sei messo male, meglio che non lo vedi”. 

 

A me invece è tornato in mente un libro scritto da un ragazzo tra il 1842 e il 1844, durante la sua lunga permanenza a Manchester, cuore della rivoluzione industriale. Il ragazzo (poco più che ventenne) si chiamava Friedrich Engels e il suo libro, il primo di una lunga serie, La situazione della classe operaia in Inghilterra. Non interessano qui le interpretazioni politiche e tantomeno le previsioni (per lo più sbagliate) contenute nel libro, che ricordo appena, ma contano le descrizioni. Gli operai vivono molto peggio dei loro genitori, muoiono di varie malattie giovanissimi, vivono di stenti e di umiliazioni. Per loro la rivoluzione industriale è soltanto morte e emarginazione sociale. Sono trattati come prigionieri, subiscono ogni genere di vessazione senza potersi difendere.

 

 

Il confronto con il film di Loach non è arbitrario, anche se sono passati quasi due secoli dall’uscita di quel libro. Perché tutto è cambiato ma niente è cambiato. Forse le classi non esistono più ma l’Inghilterra è ancora fortemente classista. Gli operai schiavi, nella metafora di questo film, si sono trasformati in padroncini messi l’uno contro l’altro dal programma di un computer, che traccia orari, consegne, velocità di movimento. Lavorano per una grande ditta di proprietà anonima: il capetto ducesco, che non fa che eseguire ordini, si riferisce soltanto a misteriosi azionisti. Devono consegnare pacchi e pacchetti ordinati su internet. Quello della distribuzione è il grande tema del secolo: eliminati tutti gli intermediari resta il momento delicato della consegna a casa del cliente. Spendendo il meno possibile e senza assumere nessuno, con condizioni di lavoro semi-schiavistiche non più sindacalizzabili. I colleghi di Ricky, il protagonista maschile, anche loro disperati e distrutti dalle strazianti giornate lavorative interminabili e piene di multe e penalità da pagare, non possono esprimere alcuna solidarietà. Non hanno alcun potere, sono niente, tutti sostituibili in cinque minuti. Basti pensare alla truffa (non ostacolata da nessuno) delle partite IVA in Italia. Un esercito di schiavi-padroncini e schiavi-imprenditori. 

 

Ricky e sua moglie Abby (interpretati da due ottimi attori: Kris Hitchen e Debbie Honeywood) sono ancora giovani, e hanno due figli, un sedicenne problematico e una bambina più piccola. Sono genitori responsabili, entrambi grandi lavoratori. Lei è una sorta di badante e vaga per la città (Newcastle) assistendo anziani che non le risparmiano niente ma che non infrangono la sua buona disposizione d’animo; sorride anche di fronte a spettacoli strazianti di vecchi dementi sprofondati in solitudini assolute. Abby tratta tutti come se fossero i suoi vecchi genitori, con la stessa pietà, direi addirittura con lo stesso amore. È uno splendido personaggio, dalla dolce fermezza illuminata da un sorriso mai forzato. Per permettere al marito di acquistare il furgone per il suo nuovo lavoro deve vendere la sua utilitaria e spostarsi con i mezzi pubblici, aumentando quindi di molto il tempo dedicato al lavoro.

 

 

I due coniugi si ritrovano a casa la sera alle nove, e sono entrambi distrutti, con pochissime energie da dedicare ai figli. Naturalmente il maschio adolescente crea problemi sempre più grandi: non va a scuola, fa il graffitaro, ruba le vernici che gli servono per i graffiti in un supermercato e la polizia lo ferma. Un ritmo infernale, così simile alla vita quotidiana di molti che qualcuno ha trovato il film artefatto, troppo adagiato sulla catena di disgrazie che inevitabilmente si susseguono. Le storie artificiali, magari con più sorrisi e speranze che comunque si sviluppano, sono più credibili delle storie vere, o che vere vogliono essere nella sostanza. In realtà, la vita di questa giovane coppia racconta esattamente la vita quotidiana di milioni di persone, ormai così schiacciate in questa realtà che non potrebbero neppure sopportare la visione del film, che per certi versi potrebbe apparire impietoso. 

 

Come si esprime su grande scala questo sentimento? Dove si sfogano rabbia e frustrazione? Voglio dare dell’attuale Inghilterra una visione esterna ai suoi confini. Viaggiando nei paesi dell’Europa orientale si nota una presenza extracomunitaria assai fastidiosa ovunque. Non ci sono nigeriani, da quelle parti (“Non siamo razzisti ma i negri non li vogliamo”, è la frase più diffusa nei bar): gli extracomunitari più temuti sono proprio gli inglesi, che arrivano a migliaia con i voli low cost e passano tre giorni ubriacandosi e rendendo sgradevole la vita di tutti. Bande di decine di giovani inglesi (ma non mancano persone più mature) che si aggirano pieni di vodka e gin gridando e attaccando briga nei locali. In un bar dell’aeroporto di Cracovia, alle sette di mattina, ho visto tre coppie di ultrasessantenni inglesi farsi un doppio whisky a poco prezzo prima di partire. Dai loro vestiti si capiva che non erano pezzenti e barboni, e neppure operai, forse erano quel che restava della vecchia middle class, qualcosa che non ha più neppure una classe di appartenenza o un nome – ma che ha votato Johnson e Brexit. 

 

 

Pensando alla pulizia della City, alle infinite automobili di lusso e ai grattacieli sempre più stile Manhattan, con poliziotti a ogni angolo di strada, dove ti multano se fumi nel parco, ci rendiamo conto che l’antica descrizione di Engels dialoga ancora con il presente. Le infezioni che falcidiavano i primi operai della nascente industria lasciano il posto alla cirrosi epatica e all’angoscia individuale. Engels prevedeva ingenuamente una prossima rivoluzione sociale mai avvenuta, oggi non ci sono più illusioni. Il nazional-populismo anglo-americano segna il declino del grande sogno della democrazia occidentale. In fondo questo è il tema del film, che infatti si conclude con una scena di pazzia. 

 

Con una scrittura in questo momento forse troppo meccanica (in una struttura che è invece compatta e fluida, con ottimi dialoghi a volte quasi teatrali), Loach ha scelto di chiudere il film con una piccola apocalisse: Ricky viene rapinato e picchiato a sangue da una banda di giovani delinquenti e deve pagare tutti i danni, non essendo un dipendente della ditta. Con costole rotte e un occhio chiuso per le botte decide di riprendere subito il lavoro, mentre la sua famiglia disperata cerca di fermarlo. Non ha scelta, non può fare nient’altro. Sembra un suicida ma non è altro che una persona perbene e responsabile che si batte fino all’ultimo per la sua famiglia. Per essere responsabile deve diventare irresponsabile. Non ha altro, né compagni di lavoro né sindacati. Se davvero Sorry We Missed You sarà l’ultimo film di Loach il suo messaggio è chiaro e coerente con la sua lunga storia d’autore: anche se non si può più parlare di classi (eliminate dalla lingua ma non dalla realtà) lui resta sempre dalla parte degli sfruttati.

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