La pozza del Felice / Il tempo immobile della montagna

25 Maggio 2021

Per la maggior parte dei lettori un libro di narrativa è riconoscibile nella misura in cui semplicemente racconta storie, qualunque sia il genere. 

Una storia e poi un paesaggio: che sia stanza, città, paese o foresta ma occorre un paesaggio per dare una concreta fisicità al muoversi della storia. E naturalmente, come sottofondo imprescindibile, un romanzo o un racconto sono sempre anche una scansione del tempo. Che sia ad esempio la forma dilatata e sensoriale secondo l’eccellenza proustiana o quella metafisica, labirintica e folgorante della lezione borgesiana con in mezzo e di lato tutte le possibili varianti, è lungo la scansione del tempo che si muovono le storie, i protagonisti e le comparse... che si muovono le parole.

 

È lo sviluppo temporale, un minuto, un’ora, un secolo che regge la trama, che racchiude un inizio e una fine. È il tempo che scandisce e dilata la narrativa, è sempre la dimensione temporale il convitato silenzioso presente in ogni pagina.

Questo almeno da un punto di vista generale, visto cioè attraverso le aspettative e le abitudini del lettore.

Eppure tra i diversi possibili generi, la narrativa di montagna sembra essere qualcosa che pur confermando quanto sopra se ne distacca con caratteristiche sue proprie.

È del resto solo in montagna che la narrativa deve fare i conti con una geografia pervasiva, un mondo verticale che non può essere ignorato: inevitabile che la trama allora possa sfumare per restare in secondo piano, come se le vicende umane che vi sono rappresentate fossero parte di qualcosa di più vasto o di un’“alterità” che non si può ignorare. 

 

È anche il caso di un libro ancora recente (Fabio Andina, La pozza del Felice, Rubbettino 2018) diventato in seguito un best seller in Germania e ora tradotto anche in francese e a breve in spagnolo. È la storia di un’amicizia di un giovane uomo – temporaneamente disoccupato da un lavoro e dalla città e rifugiatosi sui monti familiari del Canton Ticino – e di Felice, un novantenne del luogo, schivo quanto rispettoso di ogni forma di vita. Felice ogni giorno fa il bagno in una pozza di torrente, in alto sui monti: estate e inverno, nelle prime ore del mattino, partendo dal paese spesso ancora al buio, talvolta scalzo. In La pozza del Felice la montagna riempie ogni pagina, determinando la vita dei due protagonisti come della varia umanità tenacemente aggrappata a quei monti, alle necessità e al paese.

 

Una montagna contemporanea, appesa a un’economia rada come il turismo d’estate, attaccata ad abitudini che sono il proseguo di tradizioni ormai svuotate, il pendolarismo con i paesi in valle, gli adulti spersi tra baite e bar, i pochi ragazzi tra Natel (il telefonino in Svizzera) e motorini. È la montagna irrisolta dei nostri giorni, straboccante di natura e vuota di gente, umanità fragile in tutti i giorni a venire, protetta e al tempo stesso schiacciata dalle ombre dei monti, quest’ultime presenze certe e concluse tra ogni alba e tramonto.

Il protagonista comincerà ad accompagnare Felice alla pozza e nella sua vita quotidiana, condividendo parole (rare) e pranzi fatti in casa, fughe di poche ore in altri paesi e attenzioni reciproche. Sono il fuoco della Sarina (la cucina economica), i tagli della legna, il peregrinare più a valle a bordo della piccola vecchia Suzuki del Felice, le ospitate in bar e locali provvisori come gli avventori, sempre quelli, tra chiacchiere, motoseghe, neve, abitudini alcoliche e il mutuo ritrovarsi di ogni abitante nei soliti posti, sempre quelli. Insieme ai monti è questo il panorama in cui si svolge il romanzo.

Ad ogni pagina è via via più evidente come sia sempre e comunque la montagna a dettare la vita che scorre. Forse perché in questo romanzo come altri “di montagna”, quest’ultima, più di altri paesaggi può essere presenza assoluta e invadente? 

 

 

Almeno nella “sostanza della storia” la pensava così Fernand Braudel quando a proposito del mondo mediterraneo definisce la presenza della montagna invadente come quella del mare: per Fernand Braudel il mare (altra presenza assoluta) e le montagne sono i confini, fisici e non, entro cui descrivere la storia materiale come i destini delle genti mediterranee. Ma si vive sulle coste non sul mare, mentre solo la montagna è paesaggio e insieme luogo di esistenze vissute. 

 

Dalla storia materiale tornando alla narrativa si ritrova la stessa continuità se la montagna sembra rappresentare un’alterità che mette a nudo la fragilità umana, un’alterità che ha sempre fatto sentire vicino il sacro fin dalle origini della letteratura e dei canoni della civiltà occidentale, quando è dalla montagna che Mosè scende con i dieci comandamenti 

Certo anche il deserto e il mare profondo sarebbero altrettanto assoluti, ma con quest’ultimi che restano sempre “paesaggi cercati” e non luoghi dove scorrono esistenze quotidiane e comunitarie, giorno per giorno, stagione su stagione...

 

“Al tavolo da scopa si siedono l’Emilio, il Richetto e la barista Candida, sua figlia, che stende sul tavolo il tappetino di spugna verde. L’Emilio e la Candida contro la Gilda e il Richetto. La Gilda prende le carte le mischia e poi le fa spaccare dall’Emilio prima di darle fuori. Mentre le dà fuori tiene gli occhi fissi su quelli dell’Emilio in gesto di sfida e così fanno la Candida e il Richetto. Quando la Gilda mette giù il mazzo, fa per aprire bocca ma si blocca perché l’Emilio, sentendosi osservato, lancia un’occhiata dura in direzione del Felice come in cerca d’aiuto. Per due secondi cala il silenzio. Un silenzio di tomba. Solo la sedia, sulla quale siede un imbarazzato Emilio, scricchiola un po’. Poi il Felice gli ritorna lo sguardo, fa un mezzo sorriso alla Gilda e allora la barista Candida cala la prima carta e i quattro cominciamo a giocare senza dirsi niente... gli altri riprendono a parlottare di lupi, di volpi, di galline e a tracannare vino e grappini.”

 

Lunghe descrizioni come altrettanti quadri si rincorrono spesso nel libro; come quadri e come un “tempo congelato”, spalmato sulle abitudini, alla lunga immutabili quasi come lo è in assoluto la montagna. 

 

E allora attraverso le pagine il protagonista sembra via via spogliarsi dello sguardo e del “tempo urbano” e diventa parte di quegli stessi quadri: il lettore progressivamente ha davanti la secondarietà della trama, o meglio una sua minore importanza, mentre il protagonista diventa via via parte del paesaggio e di una dimensione differente del tempo.

È la montagna vista attraverso sguardi urbani che lentamente si trasformano... eppure forse occorrono occhi urbani, civili, acculturati insomma per leggere la montagna in tutti i suoi significati, per non essere preda del suo essere assoluto, per non essere cioè “sfondo su altri sfondi”.

Occhi urbani sulla montagna per la letteratura di montagna? 

Forse gli stessi occhi urbani che facevano dire a Carlo Levi: “Cristo si è davvero fermato a Eboli...Cristo non è mai arrivato qui, né vi è mai arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste...”

 

In La pozza di Felice il lettore lentamente diventa semplicemente tempo, un tempo nuovo che in città risulta inavvertibile, tempo che si ripete, ogni giorno e ogni ora all’infinito: la montagna parla attraverso la nudità delle cose e quel tempo non può essere quello del programmare e del volere ma solo quello di un presente che accade, anche nelle ore più drammatiche. Un presente come tessere di mosaico fragile e sbiadito che da sempre si ripete sostanzialmente uguale, dove le tessere sono le vite delle persone, vite spesso casuali, spesso ripetitive, con i loro gesti, le parole, le necessarie azioni. 

Non è forse quello che molti di noi hanno conosciuto nei lunghi mesi di isolamento, chiusi nelle proprie case e in un tempo diventato improvvisamente immobile e interiore? 

 

Potrebbe essere anche questo uno dei motivi del successo del libro...

Il cittadino – il protagonista o il lettore – avvezzo e cresciuto nel tempo lineare si mette di lato mentre assorbe il tempo immobile e condiviso della natura e della montagna, di quel che resta degli echi di un’antica civiltà.

Lassù la tecnologia come i tempi della modernità possono essere solo un alito distratto sulle montagne mentre qualunque smartphone a venire non sarà altro che un semplice Natel.

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