Martin McDonagh, “Tre Manifesti a Ebbing, Missouri” / Molto lontano dal paradiso in terra
Perché una storia come quella messa in scena da Tre manifesti a Ebbing, Missouri dovrebbe farci uscire di casa per andare al cinema a vedere, come tante altre volte, un’opera ambientata nella provincia americana, in un mondo abitato da persone ordinarie, che fanno lavori comuni, si urlano addosso, mangiano e si vestono male, si sfondano di birra o di cereali su vecchi divani davanti alla tv, oppure passano il tempo usando come confine del mondo la balaustra della propria abitazione; che quando non stanno in casa sono in macchina, in qualche ufficio, in un negozio o in un locale, senza altri luoghi della socialità, e insomma mandano avanti una vita così insensata, ripetitiva, inutile e uguale a tante altre?
A prima vista, il terzo lungometraggio di Martin McDonagh, inglese di origini irlandesi considerato tra i drammaturghi contemporanei più importanti, non sembra trattare un soggetto così notevole: siamo in Missouri, la porta per l’Occidente, “Gateway to the West”, come si chiamava un tempo; la scena parte on the road, nella profonda provincia, dalle parti di Ebbing: una donna di mezza età e dall’espressione indurita, mentre guida per una strada anonima, ha una specie di agnizione. Come tre specie di giganti dimenticati, le appaiono infatti, tre vecchie strutture in disuso per manifesti pubblicitari. Da qui parte l’azione, perché Mildred, che è la madre di una ragazza violentata e uccisa senza che, a sette mesi di distanza, si sia ancora trovato il colpevole, decide di acquistare quegli spazi per farci affiggere tre semplici messaggi, su fondo rosso: “Seviziata mentre mentre moriva”, “E ancora nessun arresto”, “Come mai, sceriffo Willoughby?”.
Questa azione sarà l’incidente che rompe l’equilibrio della comunità, dando avvio al racconto. Per certi aspetti il film svolge un archetipo ricorrente nelle finzioni che hanno al centro una relazione tra una madre e una figlia, perché è anche, in un certo senso, una rivisitazione del mito di Demetra che non si dà pace per la scomparsa di Persefone. Inoltre, la trama ricorda anche La prossima vittima (Eye for an Eye, 1996), diretto da John Schlesinger e interpretato da Sally Field, nel ruolo di una madre che vendica lo stupro e l’omicidio della figlia diciassettenne. Anche qui, infatti, ritorna il tema di una rabbia materna irrisarcibile. Ma il film di McDonagh racconta, soprattutto, un ambiente umano in quanto habitat, perché ci mostra e ci fa vivere il mondo dell’americano comune, cioè il sistema di relazioni e di valori a suo tempo discussi in alcuni libri di Christopher Lasch (1932-1994): per esempio in Il paradiso in terra (1991). E lo fa molto bene, in una storia che talvolta usa i codici del thriller e di cui pertanto qui parleremo senza svelarne gli snodi.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri, è un film che appassiona perché è pieno di suspense e colpi di scena; che sembrerebbe dimenticabile, oltre il tempo della visione, ma a cui invece si torna a pensare. Ha già vinto molti premi: per la sceneggiatura, a Venezia, per la regia, per la protagonista e per l’attore non protagonista (Sam Rockwell) ai Golden Globe, e certamente sarà un’opera competitiva agli Oscar.
Le ragioni per cui, anche senza fare troppo clamore, Tre manifesti potrebbe diventare uno dei film che avremo visto più volentieri nel 2018 possono per adesso essere fissate in quattro punti principali. Anzitutto è bella – perché funziona in senso narrativo, visuale e cinematografico – la trovata dei tre cartelloni, che, come fa capire anche il titolo, e come accadrà grazie a un trattamento dinamico della loro presenza scenica, svolgono la funzione di protagonisti fantasmatici. Quei tre colossi nel nulla rendono visibile, con le loro accuse così dirette, ciò che la comunità di Ebbing non ha voluto vedere, facendo massa, squadra attorno a questo silenzio, come Mildred, a un certo punto, grida al prete che vorrebbe spiegarle come stare al mondo – anche il dentista, più avanti, farà la stessa cosa, pagando un prezzo meno simpatico di una brutta risposta e via. In più, quei tre manifesti che guardano scorrere le storie dei personaggi, e li interpellano per tutta la durata del film, ci parlano anche dell’unica relazione che ha valore tra gli abitanti di quella comunità, fatta per lo più da persone che socialmente esistono solo in quanto acquirenti, che si incrociano e si affrontano mentre comprano cose, consumano.
Il premio veneziano alla sceneggiatura ha poi dato valore a una drammaturgia fatta di dialoghi e tempi di azione studiati perfettamente: ogni volta che pensiamo di aver capito la progressione dei fatti sta per accadere qualcosa di imprevisto. La recitazione dei protagonisti, in questo senso, che ferma la nostra attenzione come in un dramma teatrale, è il terzo aspetto rilevante – Frances Mcdormand a cui il regista ha pensato già mentre scriveva il soggetto del film; Woody Harrelson e Sam Rockwell, già apparsi in 7 psicopatici (Seven Psychopaths, 2012) sempre diretto da Martin McDonagh, che sono ottimi interpreti di un modello di identità nevrotica sconnesso da grandi drammi sociali o famigliari, quasi si trattasse, soprattutto nel caso di Sam Rockwell, di un personaggio emblematico della provincia americana – simile, per certi aspetti, a certi ruoli della filmografia dei fratelli Coen.
Ma a convincerci dell’autenticità e dell’interesse del mondo rappresentato in Tre manifesti è soprattutto il modo in cui il film sa impossessarsi degli stereotipi. Non ci parla infatti di quanto siano falsi e stupidi i modi di vita di una comunità concentrata in progetti di autoaffermazione completamente sganciati da ogni progettualità collettiva. Al contrario, ci parla con serietà di un universo dove i luoghi comuni hanno ripreso il sopravvento e sono fatti vivere in maniera ora seria, ora umoristica, ma senza didascalie autoriali. E così il film è pieno di clichés, usati nel modo più scorretto possibile: ci sono i maschi alfa, ci sono i negri, ci sono i gay, ci sono le donne stupide, ci sono persino i nani. Ma ognuno di loro appartiene a uno spazio proprio, e in questo senso autentico. Poche volte abbiamo visto raccontare così bene il dramma legato alla scoperta di un cancro come nel caso della vicenda, così antipatetica eppure così commovente, dello sceriffo.
Pochi finali sono così scorretti come quello di Tre manifesti, che conclude una parabola di affermazione se si vuole raccapricciante: con una madre superprepotente e un figlio mammone che diventano alleati e riscoprono una relazione umana in nome di un progetto omicida. Ma funziona, è vero: ci interessa.