Miniature di un'infanzia / L'abbaglio del tempo di Ermanna Montanari
Un paese, un piccolo paese, nel quale abbiamo vissuto l’infanzia, può essere una specola da cui osservare, per contrasto, e come dall’ombra, il mondo. O può, quel paese, diventare esso stesso il mondo, o essere, del mondo, un compendio animatissimo, in cui appaiono, nella prossimità e nel nitore, tutte le forme di vita che altrove sono invece chiuse in un’obliqua lontananza. Campiano, il paese del ravennate che Ermanna Montanari racconta, il suo paese, è questo mondo. E il libro che lo mette in scena (L’abbaglio del tempo, edito ora per La nave di Teseo, scritti introduttivi di Marco Belpoliti e di Igort), con i suoi quadri e i suoi scorci diventa un album in cui ogni disegno ha la grazia di un’affezione cresciuta nella distanza, e mai affievolita. Ma ha anche l’umore e l’ironia di chi può di quel mondo sorridere, perché esso è già tutto dentro di sé, ritmo del proprio corpo, musica silenziosa della propria lingua: sogni, voci, fantasmi, paure, dolori, destini di donne e di uomini, figure animali, presenze arboree, suoni della terra e succedersi delle stagioni appartengono al respiro di colei che scrive.
Queste “miniature” di un’infanzia e di un’adolescenza non sono un “racconto di formazione” – logora formula per classificazioni di genere – ma un’incursione avventurosa, insieme meditativa e fortemente visiva, nel teatro della propria interiorità. Un teatro che nel caso della narratrice, che è attrice e regista, appare come il sottofondo – radice e principio – dell’altro, concreto teatro, quello che annoda sulla scena corpo e parola, rito e rappresentazione, suono della poesia e figurazione gestuale.
Il movimento narrativo è un’onda che trascorrendo tra le brevi raffigurazioni via via definisce un ritratto, illumina il carattere d’una persona, il suo modo di mostrarsi nel recinto domestico o del paese, secondo un giuoco reciproco di sguardi: colei che narra si racconta attraverso lo sguardo degli altri, e costoro prendono figura e tono e parola sotto lo sguardo della narratrice. Un’autobiografia per frammenti, e a specchi: tessere luminose che vanno a comporre una storia, o meglio una sequenza di apparizioni che si fa storia. La vita di un paese, come la memoria l’ha accolta e preservata, si racconta senza stereotiparsi nel bozzetto e senza assottigliarsi e svanire nel fiabesco.
Nelle pagine del libro circola un’aria fresca, pulita: finestre aperte sulla luce e sui volti, sulle voci e sul paesaggio. E questa aria ha una lingua (Marco Belpoliti la definisce “lingua dura e pastosa insieme, secca e morbida, una lingua essenziale, eppure elegante e forbita”), una lingua con modulazioni che dialogano con il dialetto: la vera lingua che sta sotto, preme, affiora, e non può essere separata dal gesto e dallo sguardo del nonno, del padre, della madre (so bene come questo accada, conosco la forza di questa altra lingua o prelingua, o propria lingua, perché anch’io, come ricorda di sé l’autrice, ho imparato l’italiano a scuola).
Le prose brevi di Ermanna Montanari si aprono al dialogo, al monologo, al verso, e via via, lungo la scansione, vanno a comporre l’affresco di un mondo contadino che, se sfiora il magico, vive soprattutto nel rigore della frugalità, nel senso forte dell’appartenenza alla terra, ai suoi riti, alle sue stagioni, alla sua lingua: in questo si può avvertire ancora quella sacralità che, come mostrava Pasolini, non è una religione della terra, ma una sorta di integrità – o meglio, di fantasticata anteriorità – propria della cultura contadina: soglia da cui muovere per la critica di una civiltà tutta risolta nel consumo, nell’adeguazione alle mode, nell’omologazione ai costumi, insomma nella mercificazione del desiderio.
Ma è lo humour che in questi racconti riesce a non fare dello sguardo sul passato una postura, o un insegnamento, o un rimpianto. E il piacere del raccontare diventa stile, modulazione dei toni, partecipazione a quel “popolare” che è corrispondenza profonda con gli umori, e le storie, e i fantasmi di una regione come la Romagna. Una terra in cui il rapporto della scrittura con l’oralità contadina, rurale, paesana, trova un ventaglio meraviglioso, variegatissimo, nella tradizione poetica dei trebbi, nella storia della zirudèla e delle altre forme compositive proprie di quella lingua: un’esperienza del dire poetico alla quale non è estranea l’altra tradizione divenuta popolare, quella della poesia cavalleresca. Questa memoria, poetica e popolare insieme, trascorre sul fondo delle rappresentazioni di Ermanna Montanari
Ma il tempo di queste prose è anzitutto un tempo interiore, fondato dunque sul ricordo, con il vuoto e l’oblio che circonda ogni ricordo, ma anche con la resistenza all’oblio di alcune figure sognate o reali: i piedi nelle zolle nere, le rose della nonna, l’altalena, il cimitero, il grido del maiale sgozzato, le “liturgie di carezze” con cui il nonno si accosta alle sue mucche, il sogno del cancello al di là del quale c’è un animale furioso, il teatro dei burattini e l’esercizio delle voci, le parti diverse impersonate in una recita, il piccolo trattore guidato tra i filari della vite, le albe e le notti che si dischiudono sull’aia e sui campi, i nomi delle suore, i profili degli zii, dei familiari, delle amiche, tutto viene come da una lontananza che da sempre è stata tenuta viva, e scrutata, e protetta, dentro di sé. E viene con un impeto di qualcosa che deve farsi presenza, e racconto. Il ricordo si appiana poi nella descrizione, che restituisce, con il paesaggio, l’incantamento infantile. Così, dinanzi alla neve mattutina: “Ero incantata da tutto quel bianco che si allargava fino all’orizzonte, un bianco che imbarbagliava gli occhi tanto era denso, tacito, illuminato dal sole che lo trasformava in una coltre di metallo spugnoso”.
E poi ci sono, lungo il racconto, le immagini che raccolgono come in esemplare raffigurazione la trama per dir così destinale delle proprie esperienze: la “camera da ricevere”, intatta, riservata al ricevimento natalizio e pasquale dei parenti, con le poltrone coperte ancora dal nylon, che si trasforma in luogo del nascondiglio e dell’ascolto e del travestimento, in luogo in cui il corpo incontra la vita e la finzione del teatro; e in dialogo con quella stanza, il perimetro disegnato sulla sabbia a Diol Kadd, nella savana senegalese, per delimitare lo spazio scenico in cui la vita del villaggio si fa forma, danza, teatro, e che evoca il recinto del paese, anch’esso un cerchio dove prende voce e figura la tumultuante e enigmatica avventura che è la vita stessa.
L’“abbaglio del tempo”, che sulla soglia del libro indica la luce particolare che sottrae il passato dell’infanzia all’ordine del reale, via via, lungo il susseguirsi delle scene, si trasforma in un’altra luce, quella che emana da una scrittura capace di dare voce e presenza a quel che è lontano, di restituire al lettore il qui e ora di un mondo che proprio dalla sua lontananza interroga il nostro tempo.