Templi, giardini, cimiteri / Tanizaki a Kyōto

28 Giugno 2021
Dormo, e sogno bambini nel cortile di un tempio in rovina, ricoperto di muschio, giocare a ombre e demoni. (Lafcadio Hearn)

 

La passeggiata lungo il canale fiancheggia le pendici dei monti orientali di Kyōto, dai quali prende il nome la storica area di Higashiyama, e conduce in prossimità di alcuni templi e santuari tra i più suggestivi dell’antica capitale dell’Impero. Inaugurata alla fine dell’Ottocento, percorsa quotidianamente nei decenni successivi dai pensatori della prestigiosa Scuola di Kyōto, è oggi nota in loro memoria come il Sentiero della Filosofia (Tetsugaku no michi) e frequentata soprattutto all’inizio di aprile, sotto l’incanto rosa dei ciliegi in fiore. Durante la mia visita i passanti si contano sulla punta delle dita, ma il silenzio dei quartieri assonnati in cui i rumori del traffico urbano si mescolano ai canti degli uccelli, in questa tarda mattina di fine dicembre, pare invitare alla scoperta di una bellezza meno appariscente, e forse impalpabile. Sceso dal tram, ho seguito per un po’ il sentiero deserto prima di addentrarmi nei vicoli che salgono verso il tempio buddhista Hōnen-in, uno dei tesori meglio conservati e nascosti della città.

 

La prima impressione può essere paragonata a un incantesimo, o più precisamente al passaggio di una soglia invisibile: sui lunghi gradini di pietra, le strade soleggiate che ho visto fino a pochi secondi fa sono già un ricordo remoto, mentre l’ombra dei pini mi accompagna tra le lapidi di un piccolo cimitero dove si respira l’aria fresca e profonda della montagna. Grovigli di radici scoperte invadono il sentiero, come il verde dei muschi lambisce i bordi delle pietre. «Entro la cinta del tempio il silenzio era davvero assoluto», osserva il protagonista di una delle ultime opere di Tanizaki Jun’ichirō (1886-1965), Diario di un vecchio pazzo (1961-62), «stupito al pensiero che ci trovavamo in una grande città», a pochi passi dalle rotaie del tram municipale e dal canale costeggiato dai ciliegi. Agli occhi dell’anziano visitatore in cerca di un terreno per la sua tomba, la quiete e la bellezza del luogo sono incomparabili al disordine della Tōkyō in cui risiede, divenuta una città estranea ai ricordi della sua fanciullezza. Riflessioni che ricalcano quelle che Tanizaki cominciò a sviluppare nei suoi saggi attorno al 1923, anno in cui si trasferì nel Kansai dopo che il grande terremoto del Kantō si era abbattuto sulla sua casa a Yokohama, come un altro terremoto, nel 1894, aveva distrutto la casa della sua infanzia a Nihonbashi, in un quartiere di artigiani e mercanti che nella città bassa (shitamachi) avrebbe conservato ancora per poco il fascino della vita preindustriale. Pur essendo nato a Tōkyō, per questo, prossimo alla morte è la «nostalgia di Kyōto, di quella sua caratteristica atmosfera che ricorda la Tōkyō di un tempo», a fargli scegliere il riposo di un piccolo tempio che una magia sembra aver sottratto all’impatto travolgente degli anni.

 

 

 

Nelle memorie d’infanzia di Tanizaki, le case e i templi sono il teatro dei ricordi più antichi, e non si tratta certo di una casualità. «L’infanzia giapponese trascorre soprattutto nei cortili dei templi» notò un osservatore attento come Lafcadio Hearn (1850-1904), che più volte evocò il fascino delle festività e dei luoghi consacrati a terreno di gioco per i bambini. Al di là del mondo assolato dei giochi e delle celebrazioni collettive, del resto, il connubio tra infanzia e templi si sostanzia in una precoce e intima esperienza dell’ombra. Tanizaki ricorda in particolare un piccolo santuario in cima a una collina, che assieme ad altri bambini si divertiva a scalare di corsa, e in una cappella la terrificante figura del Re Enma, il giudice infernale cui la nonna si riferiva come a uno spauracchio. Conteso da una strana attrazione e dalla paura di essere divorato, come si narrava fosse successo a un bambino disobbediente, osserva che ogniqualvolta si trovava a giocare in quei cortili, irresistibile lo prendeva la voglia di recarsi al cospetto del Re degli inferi e interrogare i suoi occhi infiammati di rabbia.

 

Il gioco e la morte, talmente prossimi da confondersi, attraggono l’infanzia e la memoria nel regno dell’alterità, come accade anche in una fulminea esperienza iniziatica descritta nell’Autobiografia di un monaco zen di Deshimaru Taïsen (1914-1982). Invitato nel tempio buddhista Mampuku-ji di Kyōto, Deshimaru bambino scarabocchia con un pennello un prezioso dipinto, e spaventato dagli sguardi del nonno e del custode scappa fino a inoltrarsi nel cimitero, dove ricorda di essersi nascosto proprio dietro la stele di legno dei suoi antenati, «tutta ricoperta di patina e tarlata», e di aver provato una tristezza indicibile, legata alla consapevolezza della solitudine. «La solitudine non è sulla montagna, ma nelle strade», conclude Deshimaru citando un filosofo della scuola di Kyōto, Miki Kiyoshi (1897-1945), e proiettando così sul ricordo il sentimento dell’impermanenza di tutte le cose che anni dopo l’avrebbe spinto a voler prendere gli ordini. Nel cimitero del tempio il bambino ha intuito forse per la prima volta la fragilità della vita, ma per la sua tristezza la tomba logorata è diventata un prezioso rifugio; leggendo il brano, credo sia naturale immaginare le sue mani stringere il legno consunto, anzi, abbracciarlo.

 

 

Qualche giorno fa, passando davanti al tempio, mi venne voglia di visitare quella tomba, e ne chiesi notizia all’ingresso. […] Ancor oggi, di tutti i cimiteri della città, questo, il più tranquillo, domina un meraviglioso panorama. (Tanizaki Jun’ichirō, La storia di Shunkin, 1933)

 

La tomba è contrassegnata da una pietra di forma irregolare, lasciata allo stato grezzo. Tanizaki vi riposa assieme alla moglie Matsuko sotto un ciliegio piangente piantato da lui stesso, accanto al luogo dove sono sepolti la sorella minore di quest’ultima, Shigeko, e suo marito Akira. Il carattere jaku sulla pietra, inciso secondo la sua grafia, significa letteralmente “tranquillità”, ma corrisponde anche a sabi, uno dei termini più importanti dell’estetica giapponese. Come spiega D. T. Suzuki, «jaku è sabi, ma sabi contiene un significato molto più vasto dell’idea di “tranquillità”. Il suo equivalente sanscrito, śānta o śānti, significa “tranquillità”, “pace”, “serenità”, mentre jaku è stato usato spesso nella letteratura buddhista come sinonimo di “morte” o “nirvāna”». Nella cerimonia del tè implica inoltre i concetti di “povertà”, “semplificazione”, “solitudine”, e in questo senso si ricollega a una visione estetica nota come wabi-sabi, fondata sul riconoscimento della transitorietà come forma di bellezza, dove wabi identifica uno stato soggettivo o uno stile di vita, mentre sabi ha una valenza più concreta, legata all’effetto del tempo su un oggetto o su un luogo. È sabi la patina antica che l’uso prolungato conferisce a un utensile, l’assenza di artifici e ostentazione, la semplicità di un ambiente rustico e l’imperfezione di un’opera incompiuta o abbandonata.

 

Bashō (1644-1694) si riferiva al sabi quando scriveva che il «Padiglione ove cadono i cachi» (Rakushisha) di Kyōto, casa di campagna dell’allievo Kyorai, in procinto di cadere in rovina «è più commovente e più incantevole di quanto lo poté essere al tempo in cui era perfetto». In un’epoca più antica, come ad esempio nelle poesie di Saigyō (1118-1190), sabi era la malinconia lirica di scene desolate, ma col passare dei secoli il termine si sarebbe arricchito di molte altre risonanze. Donald Richie ne annotò una splendida lettura etimologica, adatta anche a illustrare questo fenomeno di germinazione semantica: «il fiorire del tempo». Descrivendo un antico orologio a incenso cinese (hsiang yin, letteralmente “sigillo di profumo”) in cui l’incenso che si consuma, bruciando, assume la forma di un sigillo che rappresenta un fiore, Byung-Chul Han ha evocato la concezione di un tempo avvolgente, estranea alle consuetudini europee: «Il tempo che profuma non scorre né passa. E nulla si svuota. Il profumo dell’incenso riempie piuttosto lo spazio, anzi spazializza il tempo, conferendogli in tal modo la parvenza di una durata».

 

A coloro che pregano solo perché i ciliegi fioriscano

come vorrei mostrare la primavera 

che balena da una macchia di verde 

nel mezzo del villaggio di montagna coperto di neve!

Fujiwara Iyetaka (1158-1237)

 

Il concetto di sabi riecheggiò anche nelle riflessioni estetiche di Tanizaki sul confronto fra tradizioni orientali e modernità occidentale, tra le pieghe di un Giappone completamente mutato nel giro di pochi decenni. In Libro d’ombra (1933-34), sabi è la materia che custodisce il tempo e intrattiene un profondo legame con l’esperienza dei sensi e con la natura. Sabi sono i gabinetti di legno immersi nella penombra degli alberi, le nicchie e i sobri arredi antichi, la calda opacità della carta artigianale e il chiarore soffuso delle lanterne, molto più affini alla sensibilità orientale rispetto alla fredda lucentezza degli ambienti in vetro, ceramica e metallo, delle macchine e dell’illuminazione elettrica diffusa ovunque, perfino attorno allo stagno di un monastero: «La luna era lassù, e tuttavia si sarebbe detto che non ci fosse». Se la luce della tecnica è un sole artificiale che allontana la notte, simile a uno smalto che copre le imperfezioni e annulla le differenze, l’ombra prediletta da Tanizaki è un ricettacolo che le integra: la prima ricorda lo splendore di un diamante che abbaglia, la seconda la luminescenza torbida della giada, in cui gli sembra di scorgere «tutto il lungo passato di una civiltà, ispessito e coagulato in quel suo interno opaco e nuvoloso». Sotto la superficie di un’evoluzione fondata sul controllo e sul dominio del mondo naturale, l’intuizione di una cultura che si sviluppa in piena armonia coi sensi riscopre nel corpo la sua matrice originaria.

 

Una veduta del giardino della Sekison-tei, la casa in cui Tanizaki abitò dal 1949 al 1956.


Il corpo e la natura, e più in generale la meditazione sul passato, rimandano incessantemente per Tanizaki all’archetipo materno, dunque a un rapporto di fusione tra il bambino e la madre, che nel ricordo intreccia il piacere al rimpianto. Dopo una giovinezza influenzata soprattutto da modelli occidentali, il suo interesse per la cultura e le arti della tradizione crebbe a partire dagli anni ’20, ed è spesso associato al trasferimento dal Kantō al Kansai, ma già in precedenza, non a caso, aveva trovato espressione in uno dei suoi racconti più evocativi basati su questo archetipo, scritto due anni dopo la morte della madre e poco prima di quella del padre. In Nostalgia della madre (1919) un bambino cammina nelle tenebre della notte tra filari di pini in uno scenario apparentemente sconfinato, seguendo i bagliori che intravede in lontananza, il rumore delle onde del mare e i suoni di voci e strumenti musicali che richiamano il Giappone di un tempo, come visioni di una fantasmagoria. E come in un altro racconto in cui Tanizaki reinventò la propria infanzia nella magnifica casa di Kyōto dove visse per alcuni anni dal 1949, Il ponte dei sogni (1959), due sono le figure femminili che incontra: dapprima una matrigna che scambia per sua madre, in una casa di contadini dal tetto ricoperto d’erba miscanthus, e lungo la strada, infine, la donna che stava cercando, dagli «occhi sottili come una inflorescenza di susuki», e che in un primo momento stenta a riconoscere.

 

Come interpretare questa esitazione? E perché, riflettendo sulla sua passione per l’antico Giappone, Tanizaki la paragonò a quella di un turista straniero, o al sentimento di chi studia un paesaggio come fosse un quadro? Credo che l’apparente contraddizione alluda alla possibilità di ritrovare nella distanza l’intimità perduta, in una ricerca che nel suo caso si concretizzò soprattutto sul piano letterario, ma non solo nella stesura di romanzi e racconti. Il “Ponte dei Sogni” che apre l’omonima novella, nel verso di una poesia che il narratore non sa se attribuire alla madre o alla matrigna, è anche il titolo dell’ultimo capitolo della Storia di Genji (Genji monogatari) di Murasaki Shikibu, capolavoro dell’XI secolo scritto e ambientato nella Kyōto imperiale, che Tanizaki tradusse in giapponese moderno, e che influenzò notevolmente la sua poetica nelle opere della maturità. In Neve sottile (1943-48), l’ampio respiro del romanzo e il caratteristico senso del fluire del tempo fanno pensare a una prodigiosa rinascita della tradizione letteraria dell’epoca Heian, nonostante l’ambientazione novecentesca. In altre opere come Vita segreta del Signore di Bushū (1931-32) e La madre del Comandante Shigemoto (1949-50), rispettivamente ambientate nel XVI e nel X secolo, sono invece gli inserti poetici, accostati a citazioni apocrife, a introdurre il lettore in modo quasi ipnotico in un mondo dove l’arte non rappresenta una finzione, né un surrogato consolatorio, ma la strada maestra di una consapevolezza capace di proiettarsi al di là delle contingenze storiche, sociali e individuali di una determinata età. Penso alle strettoie labirintiche dei documenti con cui Tanizaki risale al passato per svelare antichi orizzonti di bellezza, o al sentiero su cui il bambino di Nostalgia della madre attraversa la notte, o ancora al ruscello che nel Ponte dei sogni collega la casa al santuario shintoista di Shimogamo, ma penso anche al segreto per cui la forma di certi riti e convenzioni sociali, in Giappone, è una via e non un ostacolo per l’espressione della gentilezza, della gratitudine e di altri sentimenti affini che legano anche il mondo dei vivi a quello dei defunti, ovvero dell’amore per il prossimo che nasce dal riconoscimento di una profonda interdipendenza.

 

Sedevo fuori da un tempio a Kyōto sui lunghi gradini che portano all’entrata, ascoltando il canto che proveniva dall’interno. Ho avuto una intensa sensazione di essere già stato lì prima; anzi, di avervi già vissuto una vita in precedenza. […] Nel conosciuto non pensato io conoscevo l’articolazione giapponese della forma-come-comunicazione: il mondo relazionale costituito dalla Umwelt madre-bambino. (Christopher Bollas)

 

 


Proseguendo la visita al tempio Hōnen-in, sono numerosi gli indizi che rivelano nella custodia del tempo, sotto ciò che a prima vista appare come un passato cristallizzato, i segni di una fioritura che non conosce stagioni. Davanti alla soglia lo sguardo indugia sul tetto di paglia che sovrasta il portale, la cui bellezza rustica non ha eguali nello sfarzo dei templi più celebri, e una volta oltrepassato l’ingresso si sofferma sulla coppia di rilievi di sabbia bianca rastrellata, simboli di un percorso di purificazione del corpo e della mente preliminare all’accesso al giardino, contrassegnato a sua volta da un ponticello. I disegni tracciati sulla sabbia sono decorazioni astratte che richiedono ai monaci un lavoro continuo di cura e rinnovamento, mentre le dimensioni leggermente dissimili dei due rilievi dimostrano una consapevole ricerca dell’asimmetria, principio cardine dell’estetica giapponese che ispira anche la composizione di scenari privi di un centro, dove ogni passo ribadisce la compresenza di infinite prospettive. Si cammina nel giardino come all’interno di un sogno che si trasforma assieme al proprio sguardo, e nel frattempo, come scrisse James Hillman in un saggio sui giardini di Kyōto, si sperimenta un nuovo rapporto di integrazione tra corpo e psiche: «non più l’anima nel corpo, ma il corpo che passeggia in quel giardino che è l’anima».

 

Anche ignorando la storia del tempio, costruito nel 1680 in memoria del monaco che nel XII secolo fondò la scuola Jōdo, è netta la sensazione di trovarsi all’interno di un eremo, come tale era in effetti il luogo all’epoca del maestro Hōnen; e immagino che l’atmosfera sia la stessa che sedusse Tanizaki, e che perduri anche in occasione di letture, concerti, esposizioni artistiche e altri eventi culturali. Il tempio non è da intendersi semplicemente come spazio di preghiera o ritiro individuale, suggerisce il priore Shinshō Kajita nei suoi interventi, ma come luogo in cui abbandonare le etichette della vita di tutti i giorni per coltivare a un livello più profondo la relazione con le altre persone della comunità (Sangha). Dalle camelie agli stagni ricolmi di foglie e di pesci, dalle lanterne di pietra al magnifico Buddha nero esposto in una piccola nicchia appartata, ogni cosa sembra invitare con la massima spontaneità a una meditazione rigenerante, ma credo che un’immagine più di qualsiasi altra, anzi un colore, condensi al meglio l’incanto del luogo, naturale e spirituale al contempo. Si osserva il verde dei muschi, con le sue distese dai contorni fluttuanti e il suo tocco morbido sulla pietra ruvida, e lo sguardo accarezza un paesaggio che assorbe le luci e i rumori più intensi, simile a un fondale marino dall’impressionante nitidezza. «Ombroso e dolce,» nelle parole dell’elogio che gli ha dedicato Véronique Brindeau, «il muschio sposa la terra, la ricopre d’un manto, come si dice della neve,» e proprio come accade ai fiocchi di neve caduti, altrettanto impossibile è separarne i ciuffi che lo compongono. Chi può aver tessuto un tappeto «senza trama né ordito», si domandava già l’anonimo autore di una poesia contenuta nella più antica raccolta giapponese, il Man’yōshū, risalente al VIII secolo. E ancora oggi, a Kyōto, il mistero di queste divinità silenziose è il respiro del tempo che fiorisce nella quiete dell’ombra.

 

 

Note di lettura

Le citazioni di Lafcadio Hearn sono tratte da “The Chief City of the Province of the Gods” (1891, in it. nel volume Giappone, Ibis 2016, p. 52) e “The Nun of the Temple of Amida” (contenuto in Kokoro, 1896, in it. Luni 2019, p. 56).

Le citazioni di Tanizaki sono tratte da: Diario di un vecchio pazzo (in Opere, Bompiani 1988, pp. 1102-1103); La storia di Shunkin (in Opere, cit., pp. 601, 603); Libro d’ombra (Bompiani 2016, pp. 25 e 81); Nostalgia della madre (SE 2010, p. 117). Il ricordo d’infanzia di Tanizaki si può leggere in Childhood Years (University of Michigan Press 2017, pp. 46-47). Sul paragone tra la sua passione per il Giappone antico e lo sguardo di uno straniero, cfr. Ken K. Ito, Visions of Desire. Tanizaki’s Fictional Worlds (Stanford University Press 1991, pp. 110-111).

Le altre citazioni sono tratte da: Taïsen Deshimaru, Autobiografia di un monaco zen (SE 2000, pp. 14-16); Daisetz T. Suzuki, Lo zen e la cultura giapponese (Adelphi 2014, pp. 39-41 – dove si legge la poesia di Fujiwara Iyetaka – e p. 233); Bashō, Elogio della quiete (SE 2001, pp. 34-35); Donald Richie, Sull’estetica giapponese (Lindau 2017, p. 40); Byung-Chul Han, Il profumo del tempo (Vita e Pensiero 2017, pp. 65-67); Christopher Bollas, La mente orientale (Raffaello Cortina 2013, pp. 187-188); James Hillman, “Nei giardini. Un ricordo psicologico” (in Politica della bellezza, Moretti & Vitali 1999, p. 150); Véronique Brindeau, Elogio del muschio (CasadeiLibri 2013, pp. 44, 47).

L’immagine conclusiva è tratta dalla copertina originale del libro di Véronique Brindeau, Louange des mousses (Picquier 2012), che nell’edizione italiana è sostituita da una foto del portale del tempio Hōnen-in.

 

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