Di matrice femminile
Da maggio, ancora per poche settimane (fino al 1° settembre) il MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna, ospita un progetto anomalo, che si compone di una mostra, di un ciclo di conversazioni, azioni e proiezioni dal titolo Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell'arte italiana contemporanea.
Di primo impatto suona come una mostra sulle donne, un progetto pretenzioso, ridonante, finanche datato e anche un po' autoreferenziale se si pensa che è organizzato non dal direttore del museo ma da un “collettivo” (come si definiscono) di dipendenti, naturalmente donne, del museo stesso. Ma, se si pensa che in Italia la relazione che lega arte e politiche femministe è un tema praticamente rimosso dalla storia dell'arte, che sono pochissimi i testi fondamentali dei gender studies anglosassoni tradotti in italiano, che una figura come Carla Lonzi, storica dell'arte prima, quindi attivista femminista non viene praticamente menzionata nelle scuole d'arte e che il titolo stesso della mostra Autoritratti si ispira proprio alla sua raccolta di interviste del '69 Autoritratto ripubblicata solo nel 2010 e al saggio del '96 della storica dell'arte Griselda Pollock Inscription in the Feminine.
Sì, se si pensa al ritardo italiano, e al ruolo che un'istituzione museale deve avere nel veicolare una riflessione critica sul proprio presente a partire dal proprio passato e si chiede al pubblico uno sguardo un po' più personale, un'attenzione un po' più dedicata in cui trovare il proprio spazio di pensiero... allora sì, la mostra si rivela qualcos'altro, un'occasione rara se non unica per aprire una discussione non solo estetica ma anche critico-teorica sull'identità femminile dell'arte.
Ma partiamo dall'inizio, dalla sua genesi. Uliana Zanetti è la figura, interna al museo, che ha dato il là all'intero progetto:
Ho iniziato a lavorarci nel 2011, a misurarmi coi vari linguaggi che venivano chiamati in causa in una platea davvero eterogenea, composta di critiche, artiste, ma anche di un direttore, di politiche locali, di un pubblico prima di tutto. Ho coinvolto tutte le persone che lavorano dentro al museo, tutte... non dovevamo precluderci nessuna parte di questa platea, perché questo è il nostro lavoro. Il lavoro è nato riflettendo proprio sul museo nel suo complesso, dalle collezioni, al senso di fare dei progetti, fino al suo pubblico, come coinvolgerlo. Ma soprattutto siamo partite dal lavoro che noi facciamo. Ci siamo interrogate su di noi. Il progetto nella sua essenza consisteva nel proporre una pratica femminista all'interno del museo. La scommessa era più teorico-metodologica che estetica. Abbiamo scelto criteri che rendessero visibili tramite le opere i processi che sono stati innescati anche grazie alle teorie femministe ma che non sono ancora molto esplicitati nel discorso sull'arte italiana, pur essendo chiaramente presenti. Ad oggi non è ancora stato fatto un collegamento teorico tra femminismo e arte in Italia...
Più che una mostra sulle donne Autoritratti infatti è un progetto sul “lavoro” come pratica femminile e sull'arte muliebre del narrare (come l'ha definita Adriana Cavarero).
Se i direttori, gli autori, i giornalisti di risonanza, si sa, sono in percentuale più uomini, coloro che occupano gli incarichi subordinati, interni, talvolta nascosti dentro la macchina della produzione culturale, coloro che siedono, spesso senza mai alzarsi, alle scrivanie dei numerosissimi uffici, che ricevono, intercettano, rimandano, gestiscono e rendono possibile... sono in percentuale più donne.
Perché? Beh, per rispondere occorrerebbe scomodare sociologi, antropologi ed economisti o semplicemente dare un occhio alla storia del nostro paese... anche più recente.
Qui ci basta riflettere su un altro aspetto, che riguarda la propensione della donna ad occupare questi ruoli nella cultura, con un'attitudine che definirei politica, meno pubblicamente politica e forse più intimamente e onestamente politica. Un talento, se vogliamo, che non viene quasi mai sottolineato e che non coincide completamente con la matrice professionale di stampo maschile e patriarcale, che ne rimane al di fuori, che non procede per modelli ma per individualità.
Non abbiamo fatto un'indagine storica – continua Uliana – ma abbiamo deciso di utilizzare la pratica del riconoscimento tra donne come prima ipotesi di lavoro, di lavorare su un concetto di autorità che non fosse legato alla professionalizzazione in senso stretto. Abbiamo deciso di prestare attenzione a quelle artiste che hanno lavorato con noi, che sono in collezione, e abbiamo fatto una selezione che rendesse conto di due filoni principali: uno riguarda gli stereotipi di genere o linguistici, che finiscono col designare forme di differenza che possono diventare anche discriminatorie, l'altro è rivolto a quelle pratiche che secondo noi fanno riferimento al femminismo.
Dicevo, una mostra sul lavoro... Il lavoro della donna nasce e prosegue incessantemente a casa, in ascolto della famiglia e della cura della sua vita quotidiana. Impegni che non aspettano, per cui non ci si può dare malati e soprattutto che vincolano a tempi e spazi che reclamano un abile adattamento a una violata dimensione individuale. È il lavoro cui la donna non può né vuole rinunciare, ma è un lavoro sottinteso, privato, quasi segreto, una lavoro di relazioni complesse tra affetti, doveri, conquiste, un compromesso costante tra se stesse e ciò che il mondo attorno richiede, tra l'essere donna con tutte le sue implicazioni che segnano la storia di genere e l'essere donna punto e basta.
Chiara Camoni
I due lavori di Chiara Camoni Notturno e (Di)segnare il tempo presenti in mostra raccontano, con poesia quasi ipnotica, il tempo nascosto di una madre durante il sonno del figlio accanto a quello di una nonna di altra generazione che del tempo, in assenza di famiglia e mestiere, non sa bene che farsene. Un tempo che le due donne scandiscono diversamente, ma entrambe attraverso l'esercizio tenace del segno. Un segno notturno, appunto, che intreccia il pensiero ossessivo e segreto dell'artista allo sguardo fresco quasi infantile di una donna anziana rivolto alle stelle in decine di notturni a giorno. Generazioni diverse si incontrano anche nel lavoro di Letizia Renzini e Moria Ricci. Entrambe riflettono sulla relazione che le lega visceralmente alle rispettive madri senza possibilità di liberazione: la prima attraverso ritratti classici in cui le due donne, l'artista e la madre, potrebbero sovrapporsi in contesti domestici diversi che rimandano però alla comune origine; la seconda servendosi di un gioco di prestigio fotografico che la vede assistere la madre nella sua giovinezza, laddove lei non è mai potuta entrare.
Tutte e tre le artiste le troviamo vicine nella selezione (M)Others di Arabella Natalini, una tra le otto storiche dell'arte cui è stato chiesto di dare direzioni di indagine sul progetto assieme a Cristiana Collu, Letizia Ragaglia, Maria Antonietta Trasforini, Emanuela De Cecco, Laura Iamurri, Francesca Pasini il collettivo a.titolo.
(M)Others... si concentra su un aspetto in particolare, su quel qualcosa che potremmo indicare come “l'impronta della madre”, ombra e eredità, forma e vuoto impressi in noi, per considerare ciò che ci resta della pratica di vita di nostra madre, dei suoi pensieri, dei suoi gusti e delle sue passioni, del suo essere donna e madre. Quello che c'è di lei in noi, ma anche quello che noi siamo in reazione a lei. (Arabella Natalini, dal testo in catalogo)
La casa come luogo d'accoglienza, la casa sempre dentro, dentro le opere che come frammenti alla deriva danno ospitalità a chiunque vi voglia abitare (Cristiana Collu, dal testo scritto in catalogo in omaggio a Maria Lai, scomparsa un mese prima dell'inaugurazione). Oltre la casa continua l'ascolto e lo sguardo sul mondo, l'annusare onesto di se stesse, del proprio sentire, vedere, capire, e il coraggio di un proprio collocarsi e indagarsi, il lavoro intellettuale che non riguarda solo storiche e ricercatrici...
In una stanza dedicata, isolata in un angolo appartato del museo Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini si siedono a un tavolo e invitano il pubblico all'ascolto delle storie che stanno dietro e dentro al museo: “... quello che ci interessava era metterci in relazione non solo con il luogo inteso come spazio, ma anche e soprattutto con le persone che abitano questo luogo ogni giorno e lo fanno funzionare, in quanto spazio di produzione culturale, come servizio per la collettività.” Le voci di otto donne dello staff del museo che parlano della loro relazione con gli uomini in Some kind of solitude is measured out in you, you think you know me, but you havent got a clue (2013) ci riportano alla condizione di incomunicabilità che ci circonda, alla “consapevolezza della reciproca impossibilità di capirsi fino in fondo” – dicono i due artisti.
Paola Anzichè
L'arte dell'ascolto e del racconto ritorna costante in tutta la mostra, dalle pagine copiate a mano dei Quaderni di Simon Weil di Sabrina Mezzaqui a I racconti del lenzuolo di Maria Lai, dai racconti criminali in Assassine di Liliana Moro al film Sulle tracce di Lygia Clark di Paola Anzichè.
Percorrendo i sentieri cui apre la mostra, pagine di appunti privati che aprono a pensieri di ogni individualità, ci si immerge nell'essere “autentico” di cui parla proprio Carla Lonzi, che indaga il chi e non il cosa, nel lavoro stesso dell'essere artista, nella pratica che estorce il dettaglio, nell'ostinazione che ne determina la forza. Il lavoro, si diceva, è il vero protagonista di questa mostra, lavoro inteso come gesto artistico e politico, come ascolto del sé e dell'altro, come relazione tra il sé e il mondo.
...ciò che per certo si rintraccia nei loro percorsi è la presenza costante di una domanda verso il proprio agire artistico, uno sguardo auto riflessivo che si interroga sulle scelte messe in campo e lascia spazio perché sia possibile un incontro ma non obbligatorio, uno sguardo/corpo che non perde mai la concretezza e la necessità di mantenere viva questa relazione non nasce e si esaurisce all'interno di un discorso di auto affermazione dove il sé e il mondo coincidono. (Emanuela De Cecco, dal catalogo della mostra)
Sono più di sessanta tra artiste e critiche coinvolte nella mostra, nelle conversazioni e nelle proiezioni che si sono susseguite al museo...tutte insieme definiscono una mappa che non è solo analitica e teorica, bensì reale, una rete di relazioni e, se vogliamo, anche di amicizie, di dialoghi, e, perché no, di persistente solidarietà che non è qualcosa di nuovo ma rispecchia una situazione già presente:
... sono emerse un intreccio di storie che – dice Uliana Zanetti – se non fanno una storia ufficiale dell'arte sono significative di un modo di lavorare che può essere alternativo a quello solito. Questa non è la mostra di convalida per l'artista. Vero protagonista è il tema della collaborazione, che ci ha visto tutte impegnate a tenere sempre in considerazione tutte le altre.
Ma partiamo dall'inizio, partiamo pure dalla prima delle opere che si incontrano, la documentazione dell'intervento Legarsi alla montagna (1981) di Maria Lai ad Ulassai in Sardegna, uno dei lavori di arte pubblica più significativi degli ultimi decenni. Qui l'artista, originaria del paese sardo, alla richiesta di erigere ai caduti in guerra un monumento, risponde con un racconto, tracciando e redigendo una storia, senza parole, di solo segni, una storia i cui autori e protagonisti sono gli stessi abitanti, lei compresa. Ecco che giorno dopo giorno si tesse un dialogo e un intreccio reale di tela di jeans tra le case di questa montagna, tra i vicini di casa, tra chi si ama e chi si odia, tra parenti e amici, una trama che si nutre di segni espressivi nascosti che sono quelli che si instaurano nelle relazioni tra le persone...
Il risultato è sorprendente, così come lo sono le problematiche che questo lavoro porta con sé. La decisione di non cedere di fronte alla richiesta di produrre un monumento secondo tradizione; la decisione di coinvolgere i cittadini su un tema delicato come le relazioni interne, infine la scelta di lavorare consapevolmente in un terreno dove sono difficili da tracciare i confini tra il gesto rituale e il gesto artistico... (Emanuela De Cecco, dal catalogo della mostra).
Tutto il processo è raccolto nel catalogo Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell'arte italiana contemporanea, MAMbo-Museo d'Arte Moderna, Corraini Eduzioni (2013) che segna, oltre a una fondamentale documentazione del progetto, un'importante raccolta estetico-teorica nel percorso di ripensamento di un altro rimosso storico della cultura italiana come quello che lega l'arte al femminismo. Dalla seconda di copertina, i nomi di ognuna: Tiziana Abretti, Alessandra Andrini, Paola Anzichè, a.titolo, Marion Baruch, Valentina Berardinone, Enrica Borghi, Anna Valeria Borsari, Chiara Camoni, Mariela Canchari, Alice Cattaneo, Annalisa Cattani, Elisa Maria Cerra, Cristiana Collu, Daniela Comani, Emanuela De Cecco, Marta Dell'Angelo, Daniela De Lorenzo, Federica De Ruvo, Elisabetta Di Maggio, Liliana Fenu, Maddalena Fragnito, Eva Fuchs, Elena Gerla, Silvia Giambrone, Goldiechiari, Alice Guareschi, Laura Guerinoni, Carlotta Guerra, Monica Guidi, Laura Iamurri, Maria Lai, Monica Lasgani, Christiane Löhr, Donatella Lombardo, Claudia Losi, Alessia, Lusardi, Anna Maria Maiolino, Eva Marisaldi, Giulia Martini, Alessia Masi, Sara Menegatti, Sabrina Mezzaqui, Marzia Migliora, Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, Maria Morganti, Margherita Morgantin, Liliana Moro, Arabella Natalini, Chiara Pagliai, Simona Paladino, Francesca Pasini, Angela Pelliccioni, Chiara Pergola, Giulia Pezzoli, Letizia Ragaglia, Francesca Rebecchi, Letizia Renzini, Moria Ricci, Margherita Righini, Mili Romano, Anna Rossi, Sabrina Samorì, Maria Savoldi, Anna Scalfi Eghenter, Elisa Schiavina, Barbara Secci, Elisa Sighicelli, Giorgia Benedetta Soncin, Alessandra Spranzi, Rosetta Termenini, Federica Timeto, Grazia Toderi, Nicoletta Tomba, Sabrina Torelli, Maria Antonietta Trasforini, Traslochi Emotivi, Tatiana Trouvè, Elvira Vannini, Marcella Vanzo, Grazia Varisco, Giusi Vecchi, Uliana Zanetti.