Claudio Ascoli e Chille de la balanza / Per una drammaturgia della distanza

3 Luglio 2020

Gli anni ’70 e i suoi 70 anni. È molto più di una semplice inversione di parole. Per Claudio Ascoli Napule ’70 racchiude il tempo di una vita, pensata e vissuta a teatro come atto di ribellione, di rovesciamento, di rivoluzione dell’ordine costituito. Personale, perché collettivo. E viceversa.

È una conquista mai definitiva, mai raggiunta una volta per tutte e per sempre; è un orizzonte, piuttosto, che si sposta in avanti a ogni passo: che non cerca, trova. «Nella gamma delle mie priorità – afferma – la più alta è la libertà ed è il motivo per cui soffro l’istituzione. Io sono molto attratto dal sapere, non sono interessato al potere. Con Napule ’70 non voglio raggiungere un punto fermo, ma un punto di riflessione per capire cosa fare di nuovo, per trovare senso ai sensi».

Parliamo a margine di una prova in vista del debutto nazionale al Napoli Teatro Festival Italia il 14 luglio (alle 21 e in replica straordinaria alle 23). Ci incontriamo a casa sua, ovvero nel Padiglione 16 dell’ex-manicomio di San Salvi, a Firenze. È la “città nella città” che lo ha accolto nel 1998 con Sissi Abbondanza, la sua compagna d’arte e di esistenza da oltre 40 anni, e i Chille de la balanza, la compagnia che Ascoli ha fondato a Napoli nel 1973.

 

“Napule ‘70”, ph. di Ivan Margheri.


È ormai estate, il sole che irrompe dai finestroni ci coglie seduti nel lungo corridoio. L’ingresso e l’uscita, il dentro e il fuori, qui si confondono. L’uno ha in sé l’altro, è l’altro, nel momento in cui scegli di fermarti, come il passato e il presente quando l’attore-regista napoletano ha deciso di affrontarli per davvero. In parte, grazie anche al nostro dialogo iniziato per il libro Pazzi di libertà. Il teatro dei Chille a 40 anni dalla Legge Basaglia e che ha portato a una serie di domande arrivate a insidiarlo fin sopra il palcoscenico.

Sinora, infatti, i nessi-legami tra ieri e oggi li ha toccati in tanti dei suoi lavori, forse in tutti, ma soltanto in modo inconsapevole. «Adesso, invece, ne sono molto consapevole. La curiosità dei bambini è nell'immediato, in quello che hanno davanti, per gli adulti o, meglio ancora, per i vecchi, è nella distanza. Ho recuperato la memoria di cose antiche, essenzialmente le ho capite di più: sono riuscito a metterle in ordine. Certo, mentre capisci qualcosa, dimentichi qualcos'altro. Per capire, a quest’età, bisogna un po' dimenticare».

Lontano dall’amarcord, quanto dalla confessione-racconto, Napule’70 si presenta come un incontro nella distanza: un ossimoro che apre alla visione ribaltante di Claudio Ascoli, di cui ho detto in apertura. La sua è una creatività “ostinata e contraria”, che non poteva non farsi teatro. «Napoli è già di per sé una sala teatrale, come dice Luca De Filippo la città è “una forza che coinvolge tutti”. Gli anni '70, dal canto loro, sono stati gli anni della partecipazione, della vita di comunità, che è proprio come io intendo la nostra compagnia».

Quindi, la narrazione è in dis-equilibrio tra memoria e realtà, è discontinua, secondo la lezione di Antonin Artaud, seduto peraltro accanto ad Ascoli per tutto il tempo del nostro colloquio: «L’uomo e il mondo non si posseggono che per schiarite». «Artaud da giovane chiedeva e, nel mio piccolo, anch'io con Napule '70 chiedo che il pubblico mi possegga per momenti, cioè che sia disposto a non ragionare, a non emozionarsi in modo lineare, ma, al contrario, che accetti di passare attraverso mutevoli sospensioni di spazio e di tempo, attraverso continue riaperture emotive. Deve ricostruire lui le sue connessioni».

 

“C’era una volta il manicomio”, ph. di Paolo Lauri.


Questo susseguirsi di “schiarite”, disordinato e vitale, viene tenuto insieme da una forza invisibile, eppure mai così presente: la famiglia. Il nonno Giuseppe, capostipite e capocomico della compagnia teatrale Ascoli, morto pochi giorni prima della nascita di Claudio. E ancora, il padre Antonio, abile costruttore della maschera di Pulcinella, che ha usato nel 1975 per Uè, Pulecenè e che recupera ora in scena. «La mia famiglia mi “acchiappa” nelle schiarite. Per fare questo mestiere, difatti, abbiamo bisogno di fare dei salti e vedere che succede. Ma devi trovare delle braccia che ti accolgono quando cadi, sennò non salti. Il teatro è la mia malattia ereditaria: il mio modo non è molto diverso da quello di mio nonno. Io faccio negli anni Duemila una “capocomicale” come lui all'inizio del ’900. Intendo riguardo all’assunzione di responsabilità verso la nostra compagnia, non perché mi atteggio da prim’attore. E se ha potuto riprendere a lavorare lui dopo le leggi razziali del 1938, posso riuscirci pure io dopo il Covid-19».

L'attore, del resto, è il malato per eccellenza, «impossibilitato a stare eretto», secondo il commento di Jacques Derrida. E la metafora artaudiana della peste come “doppio” del teatro per Claudio Ascoli è una realtà non solamente “familiare”, ma anche storica: nel ’73, a Napoli, negli stessi giorni in cui i Chille risistemano a Port’Alba uno scantinato, che di lì a poco diventa il piccolo Teatro, Comunque. (con la virgola e il punto, come a sottolinearne la necessità), scoppia il colera. La colpa è della cozza, tanto che Eduardo De Filippo le dedica una poesia, L’Imputata: «“Cara còzzeca, tu staie nguaiata”, / dicette ’o magistrato. “’o fatto è chisto, / ccà nun te salva manco Giesu Cristo: / o l’ergastolo, o muore fucilata...”». «Il teatro, come un morbo, prende il corpo – commenta Ascoli – l'attore sa che ha davanti solo guarigioni temporanee. Quando finisce uno spettacolo, ha bisogno di ripensarne un altro, di riammalarsi. Per me la malattia è il momento della lotta per la vita, non è il suo accompagnamento alla morte».

Fino all’anteprima di quest’inverno, l’infezione era scritta unicamente nel copione e proiettata in scena su teli bianchi come panni stesi ad asciugare. I pescatori, il porto, le proteste, le file in attesa di essere vaccinati. La rinascita con la Festa Nazionale de l’Unità alla Mostra d’Oltremare nel 1976, il comizio di Enrico Berlinguer davanti a una folla oceanica, i Chille e Un cane randagio, esplicito omaggio a Vladimir Majakovskij, programmato da Giulio Baffi insieme al ritorno di Eduardo con Natale in casa Cupiello. Poi, a marzo scorso, il contagio delle idee è tornato a essere quello dei corpi. Si è diffuso il Coronavirus nel mondo, portato da un altro animale, il pipistrello. «Con il senno di poi, sembrava che me lo sentissi dentro. Dopo mesi di fermo per via della quarantena imposta per decreto, ora sto lavorando su di me non per nascondere le difficoltà a ripartire, ma per evidenziarle. Voglio far capire che ci sono, che lotto con tutto me stesso: in fondo è questo il mio compito di teatrante».

 

“Napule ‘70”, ph. di Paolo Lauri.


Alla stregua del virus, Napule’70 non scherza: è un dispositivo che ha creato a posta per costringersi a dire la verità. «Più che vederlo, lo devi percepire sensorialmente. Nei nostri spettacoli ricerco e invito gli spettatori a esercitare uno sguardo di altro tipo, sinestetico, che ha un odore, un sapore. È qualcosa che non tocchi, tanto quanto il SARS-CoV-2, ma c’è, è molto vero».

È così, con un simile grado di scambio reciproco, che i Chille hanno costruito attorno a San Salvi la loro rete di relazioni in più di 20 anni di residenza stabile a Firenze, dopo aver lasciato Napoli in seguito al terremoto del 1980, aver vissuto largamente in tutta Europa ed essere approdati nel 1985 in Toscana, a Pontassieve. Un patrimonio umano a cui sono voluti tornare appena è stato possibile. “Appena” nel vero senso della parola: 15 secondi dopo la mezzanotte del 14 giugno, ossia già nel 15, il giorno stabilito per la riapertura dei teatri nel Dpcm sulla “Fase 3”. C’era una volta… il manicomio?, l’affabulazione di e con Claudio Ascoli giunta alla 609ª replica, è stato il primo evento teatrale aperto al pubblico in Italia in tempo di pandemia.

 

Un’edizione speciale, nel cui titolo è stato aggiunto all’originale un beffardo, amaro punto interrogativo, riservata a 15 spettatori. Il continuo ritorno di questo numero non è affatto un caso: nella smorfia napoletana il 15 indica «’o guaglione: il ragazzo che abbia eletto per proprio regno la strada». Una strada negata dalle normative vigenti, che hanno privato la creazione del suo consueto momento itinerante, ma spalancata sul confronto tra la realtà manicomiale di un tempo e l’oggi. «Sopravvivere e vivere, allora come adesso, spesso sono alternativi tra loro – ragiona Ascoli – l’assenza della persona, il dominio del numero, la morte nascosta, il potere assoluto dei tecnici sono altri punti in comune. Di forte attualità è poi la favola del serpente che entra nel corpo e domina l’uomo che lo ospita, tanto da impedirgli di agire pure una volta uscito: l’ho ripresa da L’Istituzione negata di Franco Basaglia come invito a ritrovare il senso della vita una volta restituiti a una qualche forma di libertà».

Alla fine, assume quella di un cerchio di comunità nel giardino sul fianco sinistro del Padiglione. Tutti insieme stringiamo una corda per dei cerchietti giocattolo. «La corda può dare la sensazione dell'essere legato e quindi della contenzione. Però, dal momento che la prendo io per primo, come un pifferaio magico o un sacerdote, e poi Sissi te la passa in un modo affettuoso, tu ti senti libero. La libertà c’è quando sei circondato da affetto: il nostro teatro ha un simile livello di iniziazione e di dolcezza. Inoltre, quei cerchietti colorati ti riportano subito alla dimensione del gioco: sai che ci sono le regole, ma quando giochi sei libero».

 

E in Napule '70 la corda a chi va? «Ha sicuramente dentro qualcosa del testamento, del passaggio di testimone alla nuova generazione di chillini, come Matteo Pecorini. Tale passaggio lo vedo come una corda che lancio da terra e che finisce in acqua. Occorre darsi una mossa a prenderla per sbarcare. La mia sensazione è che questo momento, invece, sia dominato dall'attesa. Io non ho certo la soluzione, ma ho la possibilità di innescarla».

L’interrogativo resta sospeso, le prove devono ricominciare. Il cerchio si chiude per riaprirsi ancora e ancora, come in un perenne moto ondoso, in cui non bisogna arrivare da nessuna parte. Basta solamente essere e restare. Se ne hai il coraggio. «Puoi comprarti il biglietto di uno spettacolo, ma non l'attore. L'attore, ripeto, deve essere libero – spiega Claudio Ascoli poco prima di salutarmi – essendo la vita breve e piena di scogli, forse hai più libertà se ti radichi in un luogo. Ti devi far scegliere. Poi, però, devi guidare quella scelta, altrimenti al primo problema demordi. L’importante è agire, anche contro le regole, agire comunque. Come diceva Don Lorenzo Milani: “Se non siete d'accordo, non lo farò più, però intanto l'ho fatto”».

 

L’ultima immagine, da C’era una volta il manicomio, è di Ivan Margheri.

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