Chiamare a giudizio i vivi e i morti / Zong! Poema di una nave negriera
Zong! sembra l’urlo di una guerra per gioco tra piccoli indiani o l’onomatopea per significare la caduta di qualcosa di molto ingombrante che pure rimbalza. Invece è il nome olandese di una nave negriera salpata dalle coste nordafricane nel 1781, otto anni prima della Rivoluzione francese e quasi due secoli prima di I have a dream. Il capitano della nave aveva fatto il chirurgo per tutta la vita, si chiamava Luke Collingwood, ed era molto malato. La nave era carica di centosettanta schiavi e doveva arrivare in Giamaica con un viaggio di nove settimane al massimo, ma impiegò quasi quattro mesi a causa di un’infilata di errori elementari di navigazione. Com’è ovvio le riserve di acqua e di cibo non bastavano per tutti quei giorni, così alcuni uomini del carico morirono di fame e di sete, ed altri centocinquanta furono buttati in mare.
La storia di Zong! probabilmente inizia qui, a furia di rileggere questa riga: “ed altri centocinquanta furono buttati dalla nave”. Il punto è che all’origine della sciagura della Zong non c’è una narrazione, ma una interpretazione piuttosto lineare del contratto con l’assicuratore da cui – secondo il buon Luke Collington e il suo secondo James Kelsall – risultava chiaro che l’assicurazione avrebbe pagato solo se gli schiavi fossero morti in un incidente. In caso contrario, i proprietari della nave, i signori Gregson, non avrebbero visto l’ombra di un quattrino. Dunque, era meglio fare annegare gli schiavi piuttosto che lasciarli morire di fame.
Nelle poesie della poetessa canadese M. NourbeSe Philip, però, non c’è niente di tutto questo.
Non così. La spiegazione razionale dei fatti è affidata a un racconto in prosa nella postfazione del libro: una ventina di pagine in totale, a cura di Andrea Raos. Il resto sono rantoli e bisbigli del mare. Os, Sal, Ventus, Ratio, Ferrum, Ebora, cioè i sei lunghi componimenti che danno luogo al libro, non intendono ricostruire l’accaduto, e tantomeno farlo con le categorie razionali del prima e del tempo, perché come dice la frase dell’Amleto che precede i primi versi: «Il tempo è scardinato». Si potrebbe aggiungere una banalità: il tempo e il linguaggio sono sempre scardinati di fronte a ciò che non ha senso. Sono casi in cui si parla per parlare, ma la voce non è niente più che un suono puro e disarticolato, spesso straziante. E così le parole delle poesie di Philip girano a vuoto, disperse nella notte del mare.
Assomigliano alle classiche assi di legno che affiorano in superficie dopo il violento naufragio che ha distrutto la nave. Non c’è più nulla da tenere insieme, solo singoli pezzi senza destino usciti perciò dal tempo, dunque impossibili da spegnere. Sono stralci di frasi dette prima e dopo, termini in dialetti dell’Africa, corsivi e tondi, in ogni caso molto spaziati: in mezzo, forse, c’è l’acqua, e il suo silenzio di mondo. Niente di più distante dal famoso mercante fenicio di Thomas Stearns Eliot che morendo per l’acqua guadagna una forma di pace: «Forgot the cry of gulls, and the deep seas swell | And the profit and loss». Qui, in Zong!, non c’è spiaggia, né porto, è come se i morti non fossero ancora morti. Sono in sospeso e parlano, come possono. Dal profondo.
Per mettersi a scrivere in poesia di questo evento, M. NourbeSe Philip, che prima di fare la scrittrice era un avvocato, ha studiato gli atti del processo Gregson vs. Gilbert, cioè la rissa tra i proprietari della nave e gli assicuratori che non avevano nessuna intenzione di pagare. Il processo si è chiuso una prima volta a favore dei signori Gregson, scornando l’assicuratore, ma più tardi è stato riaperto anche grazie all’interessamento di Granville Sharp, uno dei primi signori inglesi contrari alla tratta degli schiavi.
Nonostante le conclusioni del secondo processo siano state in parte diverse da quelle del primo, nessuno ha mai pensato di condannare Collington o Kelsall per omicidio: nelle parole della corte si trattava in fin dei conti di avaria di merci. In compenso i giudici si impegnarono molto e senza successo per capire se gli schiavi erano stati gettati in mare per dare una chance in più di sopravvivere al resto dell’equipaggio, o soltanto per averne in cambio dei soldi una volta attraccati in Giamaica.
Molta strada è stata fatta da lì a qui, o nessuna strada è stata fatta da lì: dipende. Comunque sia, il common law condivide con il naufragio e con la poesia di Zong! la tendenza a riportare periodicamente a galla le parole e le cose. Così anche le carte del processo Gregson vs. Gilbert sono ritornate in superficie, di tanto in tanto. Come dice la poetessa il diritto e la poesia nutrono la stessa «preoccupazione inesorabile per la lingua».
L’idea su cui si basa il lavoro di NourbeSe Philip, in fondo, appare semplice. All’inizio della postfazione viene scritto chiaramente e dopo non si fa che ripeterlo: «Non c’è modo di narrare questa storia; questa storia deve essere narrata». Sembrano due frasi banali, ma col punto e virgola si spalanca una specie di buco nero. Per guardarlo più da vicino si può usare quella storiella tedesca che Primo Levi semina nel finale di I sommersi e i salvati: un tizio viene messo sotto da un’automobile in una zona dove le automobili non possono circolare, quindi è impossibile figurarsi che sia morto. Detto in termini più generali, noi esseri umani facciamo fatica a immaginarci ciò che è moralmente inaccettabile. E in tutta la retorica del processo che ruota attorno alla Zong non c’è mai un appiglio morale. Sembra che il fatto sia un puro fatto, allo stato minerale, e se viene trattato soltanto in questi termini noi uomini siamo incapaci di estrarlo dalla cava dei fatti per portarlo nella bottega delle interpretazioni. Capita così ogni volta che la morte viene considerata – è sempre Levi a dirlo – come una faccenda «triviale, burocratica e quotidiana». Allora nel suo mistero non c’è ombra o discorso, non c’è lo spazio per la storia, ma solo per il resoconto. E l’anima dei morti, qualunque cosa significhi anima, continua a vagare.
Per dare una dimora rispettosa alla storia senza storia del massacro di Zong, Philip ha pensato di trattare le parole così come la sorte ha trattato gli schiavi: «– sbianchetto e annerisco le parole (c’è differenza?) | – mutilo il testo così come venivano mutilati il tessuto della vita africana e le vite di questi uomini, donne, bambini | – assassino il testo, lo taglio materialmente a pezzi, castrando i verbi, strangolando gli aggettivi…». E, in effetti, nelle pagine di Zong! la violenza è visibile e furiosa. Più che leggere, si sbanda. La poetessa si è sforzata di sottrarre sistematicamente il significato dai suoi versi sbrindellati, perciò la lettura provoca una specie di nausea, un mal di mare: lo sguardo si sposta da una riga all’altra senza trovare neanche un punto di senso compiuto su cui riposare. Come capita studiando alcuni quadri (dal XX secolo in poi) sarebbe da stupidi confondere un’operazione così sofisticata con un giochetto da ragazzi. Evitare il significato non è affatto semplice. E la traduttrice Renata Morresi ha compiuto uno splendido lavoro.
Il risultato è che «tutto ciò che accade sembra riguardare l’acqua»: chiunque abbia passato una manciata di secondi a osservare il mare da vicino, magari da una barca, conosce la specifica forma di irrequietezza che può avere una distesa liquida e ipnotica. Philip spiega di provare un certo senso di colpa per l’anarchismo, per avere forzato e scassinato le sue proprie regole, quelle del linguaggio, ma d’altra parte non raccontare era l’unico modo di raccontare. Verso la fine del libro le parole sono addirittura cancellate: si leggono in grigio, sottotraccia, lavate svaniscono.
Tielleci ha fatto un buon lavoro tipografico. In effetti, la prima impressione che si ha a tenere in mano il volume blu, senza neppure avere ancora capito di che cosa parla, è che sia un oggetto da avere: ottima carta, il giusto font, le pagine sono disposte in una geniale progressione di follia. Quando poi si comprende che non è soltanto bello, è ancora meglio. Il primo notevole innesco di fiducia nella poetica di NourbeSe Philip è scoprire che ha scelto questa lingua per parlare di una tragedia lontana.
Per descriversi come poetessa, lei dice di sentirsi «censore» e «maga»: censore perché ha da decidere chi vive e chi muore (tra le parole innanzitutto), e maga perché evoca gli spiriti degli annegati. Oltre a questo, però, nonostante si sia sforzata di cambiare vita, è proprio in funzione di censore e maga che NourbeSe continua a fare l’avvocato, a chiamare a sé, in giudizio, i vivi e i morti. A contarli.
Un’altra figura ricorrente dell’opera, infatti, è la lista. Le poesie sono seguite da un glossario di parole e frasi udite a bordo della nave Zong, sempre estratte dagli atti giudiziari. E dopo c’è un elenco del carico che comprende le lingue parlate, gli animali (compresi numerosi pidocchi e un gufo), le parti del corpo, gli Alf e i Ted dell’equipaggio, i cibi e bevande da acqua a zuppa, gli oggetti di natura, e le quattordici donne in attesa.
Alla fine Zong! è una sorta di genealogia. Mostra il punto esatto in cui le cellule hanno cominciato a impazzire. Se ne possono sempre trovare altri altrettanto perfetti: nuove date, eventi diversi, più indietro o più avanti nel tempo, eminenti e non, ma il senso della genealogia è sempre lo stesso, cioè riportare un fenomeno alla sua forma più pura, archetipica, e usarlo come una pianta modello per studiare il resto. Studiare per correggere, per vedere che cosa si potrà fare di meglio la prossima volta.
Anche se la schiavitù è stata abolita da un pezzo, il fatto inquadrato dalla sensibilità di Philip resta la matrice di tanti minori naufragi. Il duro insegnamento della poesia è di non farne mai altrettante storie. Ma ascoltarli, perché non impazziscano nel silenzio del mare.
Ciò che non può essere narrato, può essere comunque ascoltato.
È la poetessa a notare la musica simmetrica di Zong con Song, e lo fa mentre canta.
M. NourbeSe Philip, Zong! Come narrato all'autrice da Setaey Adamu Boateng, a cura di Renata Morresi e Andrea Raos; traduzione di Renata Morresi; tavole di traduzione di Mariangela Guatteri. Tielleci Editrice, collana "Bestway Series", pp. 236.