Come non insegnare filosofia
Nell’Introduzione al libro appena uscito di Massimo Mugnai (Come non insegnare filosofia, Raffaello Cortina Editore, 2023), compare una domanda che può apparire paradossale: i filosofi, per svolgere il loro lavoro, hanno veramente bisogno di conoscere la storia della filosofia? E di cos’altro dovrebbero nutrirsi, risponderà qualcuno? La filosofia non è per definizione una disciplina a carattere storico? Lo penseranno di certo molti studenti ed ex studenti che hanno frequentato un liceo italiano. In realtà, la risposta alla domanda dipende dall’idea di filosofia che s’intende sostenere. E a indicare la propria, Mugnai riporta la battuta dell’amico e filosofo Marco Santambrogio: per svolgere il loro lavoro, i filosofi hanno bisogno della storia della filosofia quanto i pesci della bicicletta. Una battuta che vale un colpo di frusta, almeno sul lettore mosso, diciamo così, da interesse professionale e tenuto ad insegnare filosofia, come nel mio caso, attraverso la scansione dei programmi tradizionali. Benché Mugnai riconosca che la battuta di Santambrogio abbia qualcosa di “eccessivo”, un’affermazione tanto icastica annuncia con chiarezza una critica radicale alla vena storicista che ha dominato in Italia, e che secondo Mugnai comporta un approccio “scettico-relativista” nei confronti della filosofia stessa. Dunque esordio ruvido ma leale, che anticipa la tesi di fondo evitando cautele e paludamenti nella polemica contro gli eredi di “un hegelismo che ha fatto il suo tempo”.
Uno sguardo ai programmi e ai manuali liceali conferma l’analisi di Mugnai. Perlopiù s’inizia con Talete, poi si passa ad Anassimandro, si continua con pitagorici ed Eleati, e così via, fino a culminare con Socrate, Platone e Aristotele. E si procede allo stesso modo in quarta e quinta, secondo una sequenza in cui ogni filosofo sembra destinato a contraddire il precedente, salvo essere poi smentito, e superato a sua volta, dal successore: “una grande zuppa filosofica”, scrive Mugnai, senza che si riesca mai a capire “da che parte stia la verità”. Per di più a un certo punto ci s’imbatte in un filosofo convinto che la verità stia proprio nella “zuppa”, cioè nella totalità degli ingredienti portati a sintesi nel concetto di Assoluto.
Certo, una caricatura, ma efficace nel chiarire che filosofia e storia della filosofia non sono identificabili, e questo solleva molti problemi perché la proliferazione delle conoscenze che ha caratterizzato il Novecento, con la conseguente virata verso lo specialismo anche in filosofia, richiede il superamento di una formazione tradizionale: “a cosa serve o è mai servita – si chiede Mugnai – tutta la persistente erudizione di storia della filosofia, legata a una manualistica ormai obsoleta”? In effetti, sarebbe preferibile che nella preparazione filosofica degli studenti fossero incluse maggiori competenze di tipo logico, anche se questo implicherebbe un lavoro aggiuntivo per i professori, visto che si può conseguire la laurea in filosofia senza sostenere neppure un solo esame di logica. E forse l’insegnamento della filosofia dovrebbe confrontarsi anche con altri sviluppi della ricerca, non ultimo quello legato alle scienze cognitive. Ne deriverebbe una sterzata dalle vistose conseguenze. Si potrebbe insegnare, almeno in parte, iniziando dai problemi per cercare poi nella storia della filosofia gli spunti che essa offre per affrontarli.
Al riguardo, Mugnai avanza un’ipotesi del tutto condivisibile sul diffuso pessimismo che circola attorno agli studenti, “generato da una sostanziale sfiducia nella sensibilità, curiosità e intelligenza dei giovani”, i quali, posti di fronte ad autentici problemi filosofici, come la natura delle scelte o dei valori morali, o la natura della verità e la nostra capacità di conoscerla, mostrerebbero “interesse e partecipazione”. Ha ragione, Mugnai, lo avverto quando rallento lo svolgimento del programma per discutere dei “problemi”. Ad esempio, affrontando la filosofia pratica di Kant mi capita di ricorrere a un noto esempio dalle numerose implicazioni. Immaginiamo un presunto colpevole catturato da una folla accecata e inferocita che cerca di ottenere giustizia sommaria. E immaginiamo che le forze dell’ordine intervengano per mettere l’indiziato sotto custodia in attesa di processo. E se la folla assediasse la caserma delle forze dell’ordine? Se minacciasse di assalirla per impossessarsi del presunto colpevole? Come dovrebbero agire le forze dell’ordine? Interrogativi che sollevano l’interesse e la partecipazione di cui parla Mugnai.
A sostegno della tesi di fondo, il libro propone anche una sorta di calcolo costi e benefici: come mai la presenza dei filosofi italiani sulle principali riviste internazionali è bassa, almeno in rapporto alle ore di filosofia, decisamente maggiori in Italia che negli altri paesi europei? Non c’è qualcosa che va sprecato in una tale impostazione dell’insegnamento? Mugnai è stato professore di storia della filosofia e storia della logica. Ha insegnato alla Normale di Pisa. E stando a compiti e colloqui dei numerosi candidati che hanno tentato l’ammissione ha dovuto registrare una preparazione sempre più superficiale, non solo in filosofia ma nell’intero ambito umanistico, dall’italiano alla storia. Gli unici insegnamenti che almeno in parte abbiano evitato il declino, dice Mugnai, sono quelli “più tecnici” di greco e latino. Per il resto la preparazione sembra poggiare su schemi e sommari, a discapito della lettura diretta dei testi. E vengono anche riassunti alcuni esempi dal risvolto comico. Ne riporto uno.
C’è un autore che preferisce? – chiede Mugnai. Sì, Hegel – risponde il candidato. E come mai? Perché è l’unico che capisco! Bene – osserva Mugnai stupefatto. Uno stupore ben comprensibile: Hegel è un autore “difficile”, “scomodo”, come ha scritto Ernst Bloch. E cos’ha letto di Hegel? – chiede allora Mugnai al candidato. Niente – risponde lui – lo conosco dal manuale. Naturalmente un caso simile è dovuto a un eccesso d’impudenza, non ai difetti dello storicismo. Ma è comunque l’indizio di un problema che investe l’insegnamento della filosofia.
La diagnosi di Mugnai è netta e poggia sulla convinzione che “illustrare il contesto in cui è sorta e si è sviluppata una determinata filosofia è un compito diverso da quello di spiegare i nessi interni che ne legano fra loro le parti”. Il contesto storico in cui cresce una filosofia è altra cosa dalla struttura che assume. Cosa deve fare il filosofo? Analizzare i nessi interni di un sistema di pensiero, metterne in luce la coerenza, e questo, tra l’altro, solleva la questione della verità, che lo storicismo trascura, o svaluta, ma senza “la guida di un’idea di verità, comunque la si intenda, nessun’indagine, nelle scienze naturali come pure nell’ambito delle discipline umanistiche, ha senso”.
Dunque, l’approccio “storico diacronico della disciplina, così com’è concepito” va rivisto, per lo più si traduce in formule da rotocalco spesso filologicamente approssimative, accompagnate da scarsa coerenza logica e poca coesione, da insufficiente chiarezza intorno all’architettura di pensiero a cui vengono riferite. Il che comporterebbe numerose conseguenze riguardo alla formazione dei docenti, alla definizione dei programmi e alla stesura dei manuali, sui quali Mugnai si sofferma con un lungo e approfondito capitolo del libro, includendo anche l’esame dei manuali in adozione in altri paesi europei.
Non c’è dubbio che dovendo affrontare molti autori, la preparazione tende a un nozionismo da Bignami. Scorrendo l’indice di un manuale qualsiasi, compaiono decine e decine di filosofi, più “una miriade di autori minori”. Come evitare che la preparazione sia basata su frasi fatte? Tesi, antitesi e sintesi; scuola del sospetto; dissoluzione del soggetto; dominio della tecnica: uno studio spesso ridotto a un repertorio di formule destinate agli stucchevoli collegamenti da esibire durante i colloqui all’esame di stato. Senza contare che oltre “un certo limite”, dice Mugnai, “l’eccesso d’informazione diventa un «rumore di fondo» e non viene più registrato distintamente”. La conseguenza, come si registra sempre più spesso, è che lo studio si fa passivo, ammesso che sia studio: e chi si comporta passivamente si addormenta presto.
Mugnai conclude che sarebbe meglio “ridurre al minimo il manuale” e limitare l’insegnamento della filosofia alla lettura di alcuni classici, dedicando il tempo all’inquadramento e all’approfondimento delle dottrine che vi sono contenute. Meglio leggere direttamente Platone o Aristotele, altrimenti cosa resta nella memoria degli studenti, anche dei più volonterosi? “Un cumulo di platitudes”, risponde Mugnai, una massa di luoghi comuni.
L’autore affronta anche una domanda di fondo: a cosa serve la filosofia? Alcuni potrebbero porla con la malcelata intenzione di gettare discredito sulla filosofia stessa, per ridurla o eliminarla dai curricula scolastici. Altri invece, con atteggiamento aristocratico, potrebbero considerarla al di sopra di qualsiasi necessità pratica, come riteneva uno storico della filosofia al quale allude Mugnai. Con intento polemico si era chiesto chi mai, avendo bisogno di un idraulico, avrebbe fatto ricorso a un filosofo. Peraltro, aggiunge Mugnai, uno storico della filosofia che “detestava la filosofia”. Forse non a caso, aggiungerei, perché in assenza di idraulici, cioè in condizioni di emergenza, un filosofo che avesse preparazione logica e fosse abituato a riconoscere strutture e analogie, non si troverebbe così a mal partito nemmeno nel campo delle riparazioni idrauliche.
La proposta di una radicale riforma dell’insegnamento avanzata da Mugnai nasce proprio da una chiara prospettiva sulla natura della filosofia. È ormai assodato che al di là delle numerose specializzazioni in cui s’è andata articolando, “la filosofia non indaga direttamente il mondo, bensì i nostri modi di concepire e conoscere il mondo”, migliorando la nostra comprensione di ciò che già sappiamo. È dunque utile, sostiene Mugnai, in quanto permette d’indagare e conoscere i fondamenti delle nostre convinzioni, dei pregiudizi e delle credenze, come sosteneva Bertrand Russell. Per questo la filosofia svolge “una funzione estremamente importante nella formazione intellettuale e morale degli esseri umani”, ha il compito d’insegnare ad affrontare in modo rigoroso, e soprattutto coerente, problemi legati alla logica, all’etica, alla politica, all’epistemologia e alla conoscenza in generale.
Consideriamo ad esempio il caso dei cosiddetti “controfattuali”, ai quali ricorriamo sia nella ricerca scientifica che nella vita quotidiana. Il controfattuale corrisponde a ciò che in grammatica si definisce periodo ipotetico dell’irrealtà. Si tratta di ragionamenti contrari ai fatti che prendono avvio da descrizioni di stati di cose che non si sono verificati, ma che aiutano ad esercitare il pensiero, non diversamente dagli esperimenti mentali ai quali ricorreva Galilei, che immaginava piani perfettamente levigati o movimenti nel vuoto senza che fosse ancora possibile produrli realmente. La formazione degli studenti si avvantaggerebbe se a simili temi fosse dato adeguato spazio.
Un ulteriore argomento al quale ricorre Mugnai per motivare la necessità di rivedere l’insegnamento della filosofia, poggia sulla convinzione che essa costituisca “una disciplina che ammette progresso”. Tema controverso, naturalmente, e di certo “non si può intendere il progresso in filosofia allo stesso modo in cui viene inteso nelle scienze naturali”. Ma come affermato da Michael Dummett, uno dei massimi studiosi di logica e filosofia del linguaggio del Novecento, “la filosofia progredisce”. Avverrà a piccoli passi, lungo sentieri tortuosi che tornano su sé stessi, ma la filosofia avanza raggiungendo risultati stabili in molti ambiti, perfino nel campo controverso dell’etica, dove la nozione di progresso appare più sfumata, e dove “sembra difficile che esistano proposizioni sulle quali tutti, o la stragrande maggioranza dei ricercatori concordano”. Eppure anche in questo caso vi sono assunti sui quali il consenso è talmente ampio da farne veri e propri principi, sostiene Mugnai, come nel caso del no harm principle, che risale a John Stuart Mill, secondo cui, la limitazione alla libertà di un individuo contro il suo volere è legittima solo se il fatto di non limitarla reca danno ad altri.
Altrettanto vale per la cosiddetta “prova ontologica”. Da Anselmo d’Aosta in poi, molti filosofi hanno tentato di fornire una dimostrazione “a priori” dell’esistenza di Dio. Si tratta di un tentativo dalle molteplici implicazioni perché coinvolge l’insieme delle credenze e dei valori che orientano la vita spirituale di ciascuno. Ma riconoscere la differenza fra conoscenza e opinione, ed evitare che la credenza interferisca in un processo di conoscenza, dovrebbe risultare un punto ormai acquisito, come già Kant aveva messo in chiaro: non è possibile ricavare l’esistenza di un oggetto dal solo concetto, si tratta “un meccanismo argomentativo che ormai sappiamo non essere in grado di funzionare”.
Dunque, al posto dell’attuale insegnamento, basato sulla successione di decine di filosofi, andrebbe introdotta una parte istituzionale, costituita da un insieme di nozioni e principi che chiunque intenda praticare la filosofia dovrebbe conoscere. Una simile parte, organizzata sistematicamente, si potrebbe articolare in ambiti ben precisi: logica, etica, epistemologia, estetica. Il libro di Mugnai contiene non solo una pars destruens rivolta contro l’impostazione storicista dell’insegnamento filosofico, ma anche un’articolata pars construens; e per quanti dubbi possa suscitare nel lettore, è un prezioso invito a prendere coscienza delle opportunità che offrirebbe un rinnovamento dell’insegnamento filosofico.