Intervista al Premio Nobel / Venki Ramakrishnan: io e i geni

17 Ottobre 2021

Con l’occasione della lettura magistrale dal titolo “My adventures in the Ribosome: Nature’s Amazing Nanomachine” nell’ambito di Nanoinnovation 2021, presso l’Università la Sapienza, abbiamo incontrato a Roma Venki Ramakrishnan, Premio Nobel 2009 per la Chimica, autore di La macchina del gene recentemente pubblicato da Adelphi, di cui abbiamo parlato su queste pagine lo scorso maggio.

 

Professor Ramakrisnan, nel suo affascinante resoconto della “gara per decifrare i segreti del Ribosoma”, la nano-macchina cellulare che trasforma l’informazione genetica in tutte le proteine di cui abbiamo bisogno nel corso della nostra esistenza, lei racconta molti dietro le quinte della ricerca scientifica insieme alle tappe, ai viaggi, ai successi, ai fallimenti, alle nuove scoperte che infine hanno permesso a lei e ai suoi collaboratori di comprendere la struttura atomica di quello che viene definito “il crocevia della vita” e, particolare non secondario, di conquistare il Premio Nobel per la Chimica. Qual è la sua nuova corsa, oggi, dopo aver raggiunto un traguardo così prestigioso, a cosa sta lavorando?

Come ha avuto la gentilezza di ricordare appena ora, ho lavorato alla decifrazione del Ribosoma per circa quarant’anni e devo dirle che credo che continuerò a farlo, almeno fino al momento in cui deciderò di abbandonare la ricerca attiva.

 

Nel lavoro scientifico, l’eventualità per cui si riesca finalmente a trovare un insieme di risposte ad uno o più specifici quesiti, porta necessariamente a un nuovo insieme di domande, che si pongono a un livello superiore o comunque diverso. Noi oggi, è vero, possiamo dire di avere un’idea abbastanza precisa di come sia fatto il Ribosoma, conosciamo la struttura atomica di alcuni di loro e non di quelli meno importanti: sappiamo come si presenta in molti batteri, negli esseri umani, in alcuni organelli come il mitocondrio. Il prossimo avanzamento, le domande a cui facevo riferimento, riguardano i modi della loro regolazione, com’è che un Ribosoma può avviare la sintesi delle proteine ma anche quand’è che la può interrompere, per quali ragioni “decide” di non farlo più. Si tratta di un lavoro di regolazione continua.

 

Le faccio un esempio assai attuale: un virus è in grado di bloccare il lavoro dei miei ribosomi o dei suoi, impedendo la produzione di proteine nel nostro organismo, nello stesso momento in cui lo dirotta – proprio come un dirottamento aereo – così da produrre quelle di cui lui ha bisogno. È la prima cosa che fa Covid-19: spegne la produzione delle proteine a noi utili legandosi ai nostri ribosomi mentre riesce a fargli sintetizzare le sue. Al momento, non a caso, stiamo cercando di capire come fa.

Tutti gli aspetti che riguardano la regolazione e il processo di traduzione delle informazioni genetiche sono di fenomenale importanza, com’è che il Ribosoma avvii questi processi. Fino a non molto tempo fa era un interesse per pochi addetti, quando parlavo in pubblico di mRNA dovevo sempre spiegare preventivamente cosa fosse e come funzionava. Ora, grazie alla corsa ai vaccini, in molti ne conoscono almeno l’esistenza e ne intuiscono l’importante funzionalità. C’è molto lavoro da fare, e il mio è sempre concentrato su questa incredibilmente efficace macchina cellulare.

 

Ricordavo il riconoscimento del Nobel per la Chimica che lei ha condiviso con Tom Steitz e Ada Yonath nel 2009: se il suo interesse di ricerca, come ci ha appena confermato, verte sempre sul ribosoma, in che modo aver vinto quella che, nel sottotitolo del suo libro, definisce “la gara per decifrare i segreti del ribosoma” ha cambiato il suo approccio alla ricerca, come si continua a fare ricerca dopo aver ottenuto il Nobel?

 

Non a caso qualcuno lo chiama “il bacio della morte”! Lo racconto nell’ultima parte del mio libro: molti inviti, tante interviste, distrazioni, qualche lusinga di troppo e la tentazione di dire la tua su questioni dove forse sarebbe meglio tacere. La verità, una almeno, è che molti scienziati ricevono il Nobel decenni dopo la pubblicazione dei risultati di ricerca che lo hanno motivato, quando hanno già smesso l’attività di ricerca da diversi anni e magari, nel frattempo, il loro lavoro è stato dimenticato, almeno da tutti quelli che non sono attivi in quello specifico campo e non approfittano ogni giorno dei grandi avanzamenti che quelle ricerche hanno permesso. Ma poi, quando magari non te l’aspettavi più, ecco che arriva la telefonata da Stoccolma e improvvisamente ti trovi di nuovo sotto le luci della ribalta, sei ricercato a tua volta, oggetto addirittura di adulazione e cominci a passare il tempo da un aeroporto all’altro, rispondendo a un’infinità di inviti, concedendo interviste, aprendo convegni internazionali… nel mio libro l’ho definita la post-nobelite, una patologia che si può manifestare a seguito dell’ottenimento di quello che si può considerare il massimo premio scientifico cui ambire.

 

Può non essere facile… guarire intendo!

Ma io sono stato fortunato anche in questo. Ho ricevuto il premio che avevo appena cinquantasette anni, quando ero ancora un ricercatore molto attivo e infatti, in quello stesso 2009 dell’assegnazione, il mio gruppo ha pubblicato quattro lavori su Nature, Science e Cell: un anno eccezionalmente produttivo, oltre che fortunato. La mia attitudine non è cambiata affatto, almeno così mi pare, ho pensato che avevo ricevuto il premio per aver fatto un buon lavoro e che potevo continuare allo stesso modo, cercando di fare il meglio che mi era concesso e, a dodici anni di distanza, credo di poter dire che sono e siamo stati all’altezza del riconoscimento. Se si guarda alla nostra produttività nei cinque anni dopo il conseguimento del premio e la si confronta con i cinque che lo hanno preceduto, si contano altrettante prestigiose pubblicazioni, se non di più. Dopodiché ognuno, ovviamente, reagisce a suo modo.

 

La domanda che personalmente mi sono fatto è: perché mai dovrei smettere di fare ciò che ancora mi dà molto gioia fare, perché dovrei occuparmi di qualcos’altro? Per i premiati che hanno atteso molto più tempo è comprensibile la scelta di lanciarsi in una carriera pubblica, magari riuscendo a ottenere diversi quanto altrettanto prestigiosi risultati, e anche grazie alla reputazione conquistata. Harold Varmus, per esempio, fu nominato a capo dell’NIH, ed è riuscito a fare un sacco di cose buonissime per la ricerca bio-medica. Peraltro io stesso, accettando parte della responsabilità che consegue dal ricevere il Nobel, ho dato la mia disponibilità come presidente della Royal Society, un impegno che mi ha costretto a impiegare molto tempo che altrimenti avrei dedicato a quello di laboratorio, ma mi è sembrato un dovere civile cui assolvere. 

 

Sicché volevo anche chiederle se, comunque, quella “gara” cui fa riferimento nel suo libro, la corsa a pubblicare prima dei gruppi rivali, le preoccupazioni e le ansie che accompagnano quella che lei, a tutti gli effetti, racconta come una competizione anche molto dura, con l’ottenimento del massimo premio conseguibile e il riconoscimento di tutta la comunità scientifica cambia di percezione, se si modifica il modo di fare ricerca, magari permettendo un approccio meno stressante. 

 

Non è detto, dipende. Io penso che gli scienziati si possano dividere tra archeologi e ingegneri. Gli ingegneri inventano cose e nell’invenzione non c’è gara, almeno non sempre, e questo perché quando inventi, “architetti” – e poi magari brevetti – qualcosa che ancora non esiste. Gli archeologi invece cercano di scoprire qualcosa, e quando cerchi di scoprire qualcosa non è che lo puoi scoprire di nuovo se è già stata scoperta. In altre parole, ci sono campi dove è necessario arrivare “per primi”, e lì c’è oggettivamente molto stress. Più in generale poi, lo stress del lavoro scientifico dipende dal fatto che non necessariamente a un grande e onesto sforzo di ricerca corrisponde un risultato altrettanto grande e significativo. In questo senso, almeno, credo che l’attività scientifica si apparenti ad altre imprese creative, dove parimenti il successo non è garantito. Sì, è vero, ci può essere molto stress ma anche molto eccitamento.

 

Uno degli aspetti più piacevoli che regala la lettura di La macchina del gene, almeno questa è stata la mia esperienza, consegue dal seguire il suo nomadico viaggiare tra gli Sati dell’Unione, spesso caricando casa e famiglia su un furgone, dapprincipio arrivando dall’India, quindi attraversando l’Atlantico per e da Cambridge, in Inghilterra, dove oramai risiede da molti anni. Quanto è importante per uno scienziato viaggiare, è un’attitudine o addirittura una necessità che raccomanderebbe ai più giovani colleghi? 

 

 

Anche in questo caso risponderei con riserva. Molto del mio viaggiare, a ben vedere, è dipeso dal fatto che, o non avevo ben chiaro quello che volevo fare o proprio perché ho sbagliato a farlo. Sono partito dall’India per gli Sati Uniti convinto di voler diventare un fisico ma poi ho capito che dovevo muovermi – e quindi anche fisicamente – verso la biologia e poi ancora cercando di diventare un buon cristallografo. Forse, se l’avessi imbroccata giusta fin dall’inizio, o comunque meglio, mi sarei risparmiato qualche trasferimento e anche di dover ricominciare ogni volta quasi da capo. Sono stato un gran viaggiatore a misura della scarsa qualità del mio buon giudizio. Ciò detto, credo che viaggiare sia importante e anche aldilà dell’ovvia ragione per cui ti apre la mente.

 

Io, in particolare, raccomando ai giovani ricercatori che studiano e lavorano in nord America di venire in Europa e a quelli che sono in Europa di andare in Nord America. Ovviamente si tratta di fare esperienza, di conoscere le culture, capendo come si fanno le cose, con quali attitudini anche marginalmente diverse. In Europa, forse un po’ generalizzando, si osserva una grande cautela prima di provare una strada non precedentemente battuta, si segue l’implicito invito a considerare con molta attenzione le possibili conseguenze, le opportunità e i rischi, e mi pare un’attitudine comprensibile; d’altra parte, in nord America, si è fortemente incoraggiati a non pensare troppo prima di tentare qualcosa di nuovo, giacché se non si sa cosa stai per trovare è anche difficile intuire il grado di cautela opportuno: l’idea è che comunque imparerai qualcosa, anche da un completo fallimento, un’attitudine che definirei positivamente pragmatica. C’è da aggiungere che nelle attuali società iperconnesse il fare scientifico, come molte altre attività, si omologa piuttosto evidentemente, la differenza con cento o solo trenta anni fa è lampante. Pure qualche differenza permane e conoscerle, oltre ad aprirti la mente, come già dicevo, credo sia in grado di fare di te una persona migliore.

 

Oltre quelli geografici, la corsa a decifrare il ribosoma l’ha costretta a superare anche molti confini disciplinari. Quanto è importante il confronto tra i diversi ambiti e linguaggi della scienza?

 

L’interdisciplinarietà è spesso condizione di utile confronto e condivisione di obiettivi e risultati ma è anche una parola molto di moda e io penso sia una disposizione che non si debba forzare. Ci sono scienziati che lavorano in ambiti di ricerca molto specifici, ottenendo risultati importanti e dove quel confronto non si rende necessario. Ma se invece si dà il caso, un aspetto non secondario è la freschezza dello sguardo: chi entra in un campo che non è il suo tende a osservarlo senza pregiudizi, e anche riuscendo a non farsi condizionare da alcuni dogmi della disciplina verso la quale si affaccia, sovente ottenendo risultati che non era facile attendersi.

 

Il segreto, però, è avvicinarsi con la necessaria umiltà, con modestia e rispetto, capire quali sono le domande rilevanti, come i colleghi pensano, addirittura cosa può essere considerato un “buon esperimento”, una conoscenza che non puoi dare per scontata venendo dal tuo campo. Ci sono buone ragioni, in sostanza, tanto nel concentrarsi sulla propria disciplina che nello scambio e il confronto interdisciplinare. In questo secondo caso, però, è necessario essere aperti e disponibili, non si può pregiudizialmente pensare “oh, questo è un fisico, sicuramente non può aiutarmi!”. Nel mio libro ricordo la figura di Max Perutz, che ho conosciuto all’inizio degli anni ’90 al MRC Laboratory of Molecular Biology a Cambridge, e che non aveva seguito alcun training come biologo; Perutz faceva sempre un sacco di domande, alcune oggettivamente elementari, ma anche se sei un brillantissimo fisico, come era certamente Perutz, puoi non sapere un sacco di cose della biologia. E così è importante chiedere, fare domande, capire quali sono quelle buone, non preoccuparsi di non sapere: si è ricercatori perché si vuole sapere, non per confermare quello che si sa già. 

 

Una domanda sul periodo che stiamo vivendo è inevitabile, magari proprio quella sui vaccini e i timori che una parte dell’opinione pubblica manifesta. Il chiacchiericcio social e la dimensione complottistica sono ambiti di interesse sociologico, ma c’è almeno una questione che viene sollevata per la quale uno scienziato come lei può fornire un’utile risposta, e riguarda i tempi della ricerca scientifica. Nel suo libro e anche all’inizio di questa nostra chiacchierata ricordava come la scoperta della struttura del Ribosoma l’abbia accompagnata per quasi quarant’anni; dal suo primo incontro con Ada Yonath fino alla pubblicazione dei lavori che le frutteranno il Nobel, ne passano almeno venti, venticinque; chi lavora in ambito farmaceutico sa che la registrazione di un nuovo farmaco può impegnare un team di ricerca per diversi anni, anche dieci; la domanda è conseguente: come è stato possibile, si chiedono in molti, ottenere non uno ma più vaccini in dieci o anche dodici mesi? 

 

Sarebbe una domanda molto appropriata, se ne capirebbe la ragione, ma è la premessa ad essere sbagliata. Parte dell’opinione pubblica pensa, come lei ricordava, che il o i vaccini siano stati ottenuti in un anno, addirittura meno. Ma non è vero. Se si guarda con cognizione di causa alla tecnologia che c’è dietro questi vaccini si scopre che ci sono almeno dieci anni di lavoro alle spalle. Il gruppo di Oxford che ha sviluppato il vaccino Astrazeneca, per esempio, ha usato la sua piattaforma tecnologica per molte altre malattie, avevano già grande familiarità con la maggior parte dei processi, con i trials sui dosaggi, c’era una considerevole expertise alle spalle, con investimenti importanti già da molti anni. Certo, si occupavano di rare disease, magari di malattie tropicali, argomenti che non trovavano spazio sui media. E, c’è anche da aggiungere, quando un problema non riguarda l’occidente… nobody cares: a chi interessa? Su tutto ciò scontiamo un gigantesco equivoco, una percezione distorta che si è perpetrata per anni. Chi ha lavorato negli ultimi quindici mesi allo sviluppo dei vaccini anti Covid, su questi temi lavorava in realtà già da molti anni: quello che ha fatto ultimamente è stato solo di identificare Covid-19 come il target per una piattaforma tecnologica che era già più che matura.

 

Ha contribuito anche un diverso livello di collaborazione? Nel suo libro lei argomenta come non sempre la competizione sia problematica e la collaborazione positiva.

 

La collaborazione, in qualche suo aspetto, sconta un problema di eccessiva burocratizzazione. Bisogna decidere chi fa cosa, e la gestione manageriale di grandi collaborazioni tra molti, diversi e importanti gruppi può ritardare i processi: accennavo alla divisione dei compiti ma c’è anche un problema di comunicazione verso l’esterno e di corretta attribuzione dei meriti e dei crediti. La collaborazione, va da sé, è un bene ma funziona al meglio quando i diversi team hanno compiti molto ben definiti, svolgono mansioni complementari, mentre ognuno è consapevole di ciò che sta facendo l’altro, in questo caso la collaborazione si traduce in grande efficacia. Poi, certo, c’è la collaborazione amicale, che è un po’ come dire che mangiare in buona compagnia è più divertente che da soli. In compagnia, in buona compagnia, è più divertente anche fare scienza, specialmente quando sei un po’ depresso, l’esperimento non funziona e un amico riesce a tirarti su, magari invitandoti a bere qualcosa, scambiando idee, e se te ne viene una particolarmente fessa, il fatto che sia un amico a fartelo notare aiuta. Ne possono nascere discussioni molto positive. Direi che ci sono molti tipi di collaborazione, quella che chiamo transazionale, o pragmatica, altre di tipo più emotivo, quando veramente provi piacere a collaborare con certe persone. Ma può anche capitare, invece, che la collaborazione non si presenti sufficientemente interessante, addirittura utile, e quando hai l’impressione che potresti andare più rapidamente da solo, perché dovresti per forza collaborare?

 

Quanto allo specifico di ciò che è accaduto e sta ancora succedendo nella lotta al Coronavirus – credo fosse questa la sua domanda – a mio avviso i ricercatori, le aziende e i laboratori sono stati forzati a collaborare quanto a competere: l’eventualità di arrivare per primi non è senza importanti conseguenze. Ci sono in ballo interessi di mercato come di personale prestigio. E c’è un banalissimo vantaggio di posizione da sfruttare: se sei il first moover che oggi ha già vaccinato centinaia di milioni di individui, prima di tutto puoi contare su un effetto di “accettazione” più che motivato, e poi conosci molto di più sulla safety. Per tutti quelli che si affacciano ora sul mercato, invece, è un percorso da iniziare e una posizione oggettivamente più difficile. C’è stata tanto collaborazione che competizione. Direi molta collaborazione all’interno delle aziende, questo sicuramente, ed è un risultato che altrimenti non si può dare per scontato e siccome la tecnologia è complicata, richiede diversi expertise, una competizione all’interno dello stesso gruppo industriale o di ricerca sarebbe stata veramente poco comprensibile. Ma tra aziende diverse, la competizione è stata molto dura, anche in questo frangente.

Ma, ripeto, la collaborazione è un fattore assolutamente positivo, ma la competizione ti forza a pensare più velocemente, a volte in maniera più determinata, anche meglio, e tutto questo arricchisce il progresso scientifico, ne aumenta la frequenza ritmica, si potrebbe dire. 

 

Sicuramente c’è bisogno di collaborazione a livello globale, i paesi più poveri non possono essere dimenticati.

 

Non c’è dubbio, sicché l’occidente ha il monopolio sulla ricerca e la produzione dei vaccini e la percentuale di vaccinazione, comparata con quella nei paesi africani, per fare il confronto più ovvio, è a dir poco marginale. Ascolto molti parlare e invocare una dimensione di “global vaccination”, ma quando si annuncia l’invio di un milione di vaccini in un continente che conta miliardi di abitanti… direi che è quasi insultante. 

 

La macchina del gene dimostra che, oltre che un grandissimo scienziato lei è anche un ottimo scrittore: ha qualche altro progetto editoriale che ci può anticipare?

 

Sì, sto scrivendo un libro il cui titolo provvisorio è: Is death necessary: how and why we age and die. Un libro in tre parti, nella prima analizzo come la cultura vede la morte, com’è che se ne ha paura, quando si è diventati consapevoli della finitudine, come hanno influito la religione, i processi di civilizzazione: le piramidi egizie sono una grande testimonianza della paura della morte, della necessità di pensare un Aldilà, un qualche processo trasformativo. La seconda parte è squisitamente biologica e si interroga sul perché della morte. Noi sappiamo, per esempio, che alcuni batteri, alcune cellule potremmo continuare a coltivarle per sempre, mentre come individui moriamo, e conosciamo buona parte dei fattori coinvolti nell’invecchiamento delle cellule, degli organismi, degli individui. Ma, e arrivo alla terza parte, contando già su tutta questa conoscenza, cosa ci facciamo, cosa dovremmo farci? Vorremmo veramente che ognuno di noi possa vivere per sempre? O magari, che so, 200 anni? Quali obiettivi abbiamo e su cosa possiamo contare per ottenerli? Sono domande per la scienza, ma ovviamente per la cultura e la società.

Per tornare a una delle due prime domande, quando la mia carriera imboccherà decisamente la sua fase finale, credo che mi dedicherò alla scrittura, mi piace, mi diverte e forse risponde anche a un dovere di chi fa scienza. Noi, noi scienziati intendo, non riceviamo tavole della legge in cima a qualche montagna. Il fare scientifico è un progresso di acquisizione continuo, con un orizzonte che ci mette davanti nuove domande appena dopo essere riusciti a trovare alcune risposte. Non è frustrante, lo trovo affascinante.

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