Yan Lianke. Il sogno del Villaggio dei Ding

15 Novembre 2011

Negli anni ‘90 in Cina c’è stata una grande campagna per raccogliere sangue per gli ospedali che ha provocato danni infinitamente maggiori dei benefici auspicati. La raccolta, infatti, era spesso demandata all’iniziativa privata di persone senza scrupoli che, oltre a sottopagare i donatori, contadini poverissimi attratti dal guadagno apparentemente facile e inesauribile, non usavano la minima precauzione igienica, con il risultato che nella sola regione di Henan più di un milione di persone sono state contagiate dall’Aids.

Yan Lianke, scrittore cinquantenne già tradotto da noi con il romanzo satirico Servire il popolo (Einaudi, 2006) fortemente osteggiato e poi proibito in patria, è originario di questa regione e ha voluto rendere testimonianza dello strazio e delle conseguenze che questa tragedia ha prodotto sul suo popolo.

 

Lo ha fatto in Il sogno del Villaggio dei Ding (trad. it. Lucia Regola, Nottetempo, 2011, p. 450, € 20), concentrando il proprio sguardo sulle vicende di un piccolo villaggio e della famiglia che di questo immondo mercato era stata la principale promotrice: dal patriarca, bidello della scuola ma autorità culturale del villaggio e come tale ascoltato, che aveva convinto in totale buona fede i compaesani a aderire alla campagna; ai suoi due figli, uno contagiato, che darà poi vita a una struggente e trasgressiva storia d’amore adulterina con una giovane pure malata, e l’altro che della raccolta si farà cinico profittatore fino a raggiungere posizioni di ricchezza e potere anche nel capoluogo, non importa se pagando l’ascesa con la perdita del figlio maschio dodicenne, avvelenato dai compaesani per vendetta.

Proprio da questo ragazzino la storia viene raccontata, scandita come in un controcanto visionario dai sogni del nonno, che prefigurano nel dettaglio gran parte degli eventi che sconvolgeranno pian piano non solo l’unità della famiglia, ma tutte le usanze e le regole millenarie del villaggio, dove la coesistenza in apparenza pacifica della cultura tradizionale con i cambiamenti storici portati dal comunismo viene completamente dissolta dalla diffusione del contagio e dalla logica sfrenata del mercato che vi è sottesa.

 

Non c’è nemmeno bisogno che Lianke insista esplicitamente sulla portata simbolica di ogni azione o evento tanto è forte questa potenzialità già nella lettera del discorso. Il passaggio dall’immobile mondo rurale del villaggio agli sconvolgimenti che la Cina sta vivendo, con l’irruzione dell’Occidente e del denaro, e con la diffusione della corruzione e la mercificazione di ogni cosa e relazione e valore; la proiezione di ogni evento fin nelle sue minime implicazioni dal livello aneddotico a quello storico e da locale a sovranazionale; il ribaltamento del mondo dei vivi in quello dei morti e viceversa, fino alla loro sovrapposizione e confusione (la vendita delle bare, la speculazione edilizia dei cimiteri e la corsa all’accaparramento delle postazioni più panoramiche e salubri per la vita eterna e le dimore dei morti, il loro lusso sfrenato, da antichi imperi...), avvengono spontaneamente anche per il lettore occidentale.

 

Ciò che invece viene perso da questi è altro: e si tratta di una perdita difficile da valutare, ma che è facile presumere grande se la si rapporta alla misura e all’intensità di ciò che la lettura riesce comunque a trasmettere.

Dubbi di cui è difficile venire a capo. Per esempio: nella descrizione dei luoghi e delle cose riesce impossibile non intravedere (intuire, ma non percepire) una convenzionalità che comunque non soffoca, per noi, la semplicità e si traduce in incanto (quello di un’ingenuità riconquistata: che non è poco), mentre per un cinese la sua eventuale bellezza è più facile che derivi dalla stratificazione: di evocazioni, citazioni magari esatte e quasi rituali, differenze, scarti o addirittura sorprendenti innovazioni.

 

Ignota la lingua originale, che le traduzioni da quelle occidentali a volte lasciano invece trasparire, e con essa persi i ritmi, confuse le forme e incerti persino molti dei riferimenti più prossimi, a volte intuibili ma sfrondati di sfumature e implicazioni, e comunque poco assimilati, restano solo ripetizioni, variazioni, pause e cambi di ritmo, molto efficaci peraltro: richiami evidenti a cadenze della narrazione orale; ma a quale tra le tante possibili formule e forme, è impossibile dirlo. Come è difficile decidere quale significato e valore formale e strutturale attribuire ai numerosi passaggi che a noi richiamano un realismo di stampo quasi ottocentesco.

 

E infine: quanto l’espediente del narratore morto e il particolare ruolo dei sogni sono personali creazioni di Lianke, e quanto invece si raccorda a modalità di narrazione consolidate o plausibili nella stratificata e millenaria tradizione cinese? Confesso che a me appaiono un po’ forzati, soprattutto il primo.

 

Quanto del tono complessivo di distanza e insieme di partecipazione, d’ingenuità che si trasforma spesso in saggezza, deriva dal fatto che la voce narrante è di un ragazzino, perdi più morto? Che lo fosse, non mi sembra necessario, anche se per certi aspetti la parte finale del libro lo giustifica. Non del tutto, però. Resta un sospetto di arbitrarietà eccessiva (o forse sono io che non ne posso più del ricorso alla voce infantile per abborracciare una prospettiva inedita e presunto-poetica; ma anche qui: forse in Cina non è lo stesso).

 

Non è troppo intelligente, colto e smaliziato (e peggio: finto-ingenuo) per essere un dodicenne? Oppure è la morte a rendere intelligentissimi?

Difficile saperlo. I morti, secondo me, sono così intelligenti che non hanno nemmeno bisogno di farlo sapere. Si accontentano di esserlo. E i vivi? Che si arrangino!

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