Un libro fotografico di Matt Black / American Geography: povertà e bellezza

24 Novembre 2021

Qual è il limite estremo della povertà? E quello del male? E quello dell’orrore? Non è nell’azione che conduce a uno status ma oltre, quando appunto la soglia del limite è superata da tempo. L’orrore inizia quando non c’è più niente da fare, quando è troppo tardi. Nessuno ne saprà niente perché non c’è nessuno che guardi, in quell’incrocio disperato di strade deserte, dove anche le insegne cadono a pezzi, dove non c’è nessuno e niente da condividere. Il freddo, scelto da Matt Black come stagione di fondo, è anch’esso un limite. Devi stare più che puoi accanto a una fonte di calore. Una vecchia stufa, che appare sopraffatta dal freddo, soltanto una scintilla nel gelo. Il materasso gelato sotto la neve, abbandonato sul marciapiede, sembra un giaciglio per fantasmi, per gente già morta da tempo. Sfogliando queste magnifiche fotografie mi sono tornate in mente certe notti nordiche, quando uscivo per lavoro e il termometro diceva meno 36. Il freddo non lo puoi dimenticare. Per chi vive all’aperto è come una malattia: se si diffonde dentro di te sei spacciato. Perché il freddo ti prende e poi non ti lascia neppure se lo bruci. È il freddo stesso che brucia. 

 

El Paso, Texas © 2021 Matt Black.

 

Una prima considerazione: Matt Black con le sue immagini riesce a trasmettere sensazioni complesse, profonde, direi addirittura antiche. Senza alcuna enfasi, senza gridare, perché non serve a niente gridare. Qualcuno dirà: che bellezza ci può essere in tutto questo? Ma la bellezza c’è. E non è tanto nella sapienza tecnica (naturalmente notevole) del fotografo e dello stampatore, ma nel voler essere lì al posto nostro, come un esploratore in un mondo che ci è prossimo ma che non vediamo. Il freddo disegna con la precisione di un bulino, il bianco è bianco e il nero è veramente nero. Il grigio non è scomparso, ma è implicito in entrambi, è la luce in cui sprofondano. Una mano magra, di un nero credo anziano, si aggrappa a un ramo tagliato prendendone la forma, nella sua assoluta magrezza. La mano è come un albero nudo che si staglia nel bianco. La mano, un albero nudo, un pacchetto vuoto di sigarette calpestato nella neve, il frammento di un santino, la pagina di un promemoria scritto a matita. Più che antropologo Black diventa archeologo del presente, che avendo perforato la normale dimensionalità entra nell’immodificabile, nell’eterno presente. 

 

 

Se cammini in una strada deserta e in fondo non stai andando da nessuna parte perché niente e nessuno ti stanno aspettando puoi benissimo appoggiare la testa a un palo della luce, così la mente si fa più leggera. Soprattutto se hai bevuto un paio di birre. Quando entri in quel territorio puoi avere pensieri così: ho bevuto due birre, appoggio la testa al palo della luce. In fondo sto usando la stessa scrittura che Black usa nel libro: non cerca frasi d’effetto, non scimmiotta nessuno scrittore di viaggi. È pulito e essenziale come nella sua fotografia. American Geography (edito splendidamente da Contrasto) è un libro pensato e vissuto. Un libro importante, anche in una carriera piena di medaglie e onorificenze, tutte meritate. Autore di memorabili reportage per le più importanti testate americane (se ne trova traccia nel suo ottimo sito o in quello della Magnum), Matt Black non necessita di troppe presentazioni. Nel suo diario di viaggio annota (16 gennaio 2016, sabato, Gallup, New Mexico): “Neve e ghiaccio. Le ferrovia di Santa Fe che attraversa la città ha tagliato di netto una donna in due ‘come un pesce’, mi racconta un uomo con il giaccone pesante e il cappuccio tirato sulla testa (…). E il titolo di prima pagina di un giornale locale, ‘la tempesta semina morte’, riporta la notizia di un uomo morto in un vicolo il cui corpo è stato ritrovato coperto di neve.

 

 

Madawaska, Maine © 2021 Matt Black.

 

La città ha assistito a 17 decessi per assideramento lo scorso anno, 130 volte la media nazionale, stando all’articolo.” Ecco dove girovaga Matt Black, nelle periferie dell’Impero. Nel suo viaggio infinito, di anni, attraversa villaggi desolati dove capiti soltanto se smarrisci la strada. Usare il servizio pubblico dei pullman è terribile: gli autisti insultano i passeggeri. La stessa violenta ostilità nei miseri hotel incontrati nel viaggio: “non portare nessuno in camera altrimenti ti butto fuori.” 

Il freddo e l’ostilità del clima si manifestano identici negli esseri umani che detengono un qualsiasi minuscolo potere (guidare un autobus, fare il portiere d’hotel). Black non costruisce scenografie: la carcassa incendiata di un’automobile appartiene a una cameriera del bar in cui è seduto. La carcassa è davanti a lui. Lei racconta com’è andata, lui fotografa. Non c’è disperazione, scomparsa insieme alla speranza, non c’è attesa, nulla cambierà. “Anything helps even prayer“ è scritto in un cartoncino. In un’altra nota, scritta a Del Rio in Texas il 22 novembre 2018: “L’attività più importante nella Main Street è una banca del plasma che dà 100 dollari a chi vende il proprio sangue.”

 

Entra nelle case di uomini e donne caduti fuori dal mondo, dimenticati da tutti. Una vecchia si difende dal freddo arrotolando i giornali attorno alle fessure di porte e finestre. Non ha più riscaldamento, telefono, elettricità, non ha acqua. È come se fosse morta, ma è viva, cerca di sopravvivere. Non c’è domani. Dietro la sua catapecchia, beffardi, ronzano nei cavi dell’alta tensione centinaia di megawatt fagocitati da Los Angeles. C’è una terra di nessuno, a questo mondo, e la si può vedere senza affrontare viaggi esotici in continenti lontani. La terra di nessuno avanza come i deserti, in silenzio. Non stupiscono note come questa (El Paso, Texas, 11 settembre 2019): “Qui il mese scorso un uomo è entrato da Walmart e ha ucciso 22 persone con un fucile d’assalto.” La morte è nel paesaggio stesso, negli oggetti abbandonati, nella ruggine, nei rottami. Il meccanico magro che vediamo in parte sotto una vecchia automobile potrebbe essere morto. Accanto a lui, inclinata in un’aiuola marcia, c’è addirittura la Vergine benedicente. Tutt’intorno solo marciume, legno morto, erbaccia. Anche in altri ritratti percepiamo esistenze in limine. La stessa mano nera avvinghiata al tronco, forse la foto più nota del libro, sembra l’apparizione di un fantasma scheletrico. 

 

Buffalo, New York © 2021 Matt Black.

 

In una chiesa di Moorhead (Mississipi, settembre 2017) ascolta la predica di un pastore: “Vogliamo ricacciare tutti i clandestini. Ma Dio mio, siamo tutti clandestini. Siamo tutti incasinati, fuori di testa, non sappiamo nulla. L’America è troppo grande per essere distrutta dal di fuori, è dall’interno che verremo distrutti!” Un discorso davvero inquietante, ma in sintonia con i nostri telegiornali: dunque il mondo del nord, dall’Europa agli Stati Uniti, si sente invaso dai clandestini, che poi sarebbero quelli del sud. Ma il deserto è anche l’economia che insensibile alla voce delle borse qui nella periferia dell’impero sembra in caduta libera: un hotel visto un anno prima ora è chiuso, sbarrato con tavole da fallimento pesante. Il negozio che espone un abito da sposa sembra un’allucinazione. C’è il sole, c’è il vento, c’è la polvere, ma non siamo in un western. Un vento caldo pieno di polvere non è meno ostile del gelo.

 

 

C’è gente che carica ferraglia su un camioncino: sono sporchi, le loro facce sono stanche, non capiscono perché questo forestiero si ostini a fotografarli. Sono di cattivo umore, fanno un lavoro da schifo, non saprebbero cos’altro fare. C’è il mondo del tasso di crescita e quello che resta fuori dall’immagine collettiva che abbiamo di noi. Non c’è un’istanza ideologica nel lavoro di Matt Black, perché lui è esattamente nel mondo rimosso, e il suo semplice “io sono qui” è la risposta a chi parla di rosee prospettive in tv. Non esiste ricchezza senza povertà. Di questo mondo rimosso raccoglie testimonianze d’ogni genere. Sono fotografie ma anche oggetti raccolti per strada, che entrano in un’elegante coreografia nel pieno della storia raccontata da Black. Anche le parole delle persone sono raccolte per strada, lungo questo infinito cammino. “Fa freddo, c’è neve a terra. Samantha e Derek vivono in un camper. I finestrini rotti sono chiusi con il compensato.

 

Eagle Butte, South Dakota © 2021 Matt Black

 

Hanno tenuto accesi i fornelli del cucinino tutta la notte, così dentro si sta caldi, ma non c’è acqua, perché i tubi sono congelati. Samantha è incinta, ha dovuto combattere con diverse infezioni allo stomaco. Le hanno prescritto antibiotici ma non può permetterseli. Non mangia da quattro giorni, non ha l’assicurazione sanitaria, (…) e ha speso i suoi ultimi nove dollari per farsi riaccompagnare a casa dall’ospedale.” Ho citato per intero una pagina del diario di Black (Lovely, Kentuky, novembre 2019) per dare un saggio della parte scritta di questo libro. Pagine di diario, non didascalie. 

 

 

Non sempre all’incontro umano segue la documentazione fotografica: si intrecciano, si compenetrano, creano una complessa tessitura narrativa. Le immagini non insistono tanto sulla miseria dei singoli ma sugli scenari che li inghiottono. Le pianure deserte, i pali della luce piegati dal vento, inutili perché i fili sono tutti strappati, la strada, i rimasugli di vecchi incidenti sull’asfalto, la pompa di benzina, vetrine di negozi prive di merci in un villaggio ormai morto, oggetti d’uso comune divorati dal tempo, forchette, grucce in fil di ferro. 26 ottobre 2018, Montpelier Idaho:”Washington street, la strada principale, è asfaltata di fresco, ma quasi ogni negozio della via è deserto. Il centro-città cerca di sorridere, ma gli manca qualche dente.” All’inizio del libro (e del lungo viaggio) Matt Black dichiara di partire con: “uno zaino con un paio di pantaloni, una maglietta a maniche lunghe (…) una fotocamera Panasonic, una XPan, sei obiettivi, trenta rullini.” Cosa significa partire con trenta rullini? L’ho chiesto a un amico fotografo. Che scelta fa un fotografo che parte con trenta rullini?

 

Nel secondo decennio del nuovo secolo! La sua risposta: “Fa una scelta di fondo, sa che scatterà soltanto quando sceglierà di farlo. Ci penserà, prima di scattare. È un fotografo che sceglie di pensare.” Aggiungerei: che sceglie anche da che parte stare. Sceglie chi è caduto fuori dalla storia, chi è stato rimosso dalla nostra coscienza. Vuole attraversare questo territorio desolato, farne parte, darne testimonianza, disegnarne una geografia. Un fotografo itinerante non può sapere che una notte incontrerà, in un villaggio sperduto, una donna che attraverserà una strada mentre cade la neve. Non sa che vedrà un materasso accanto a un lampione, mentre la nevicata si fa fitta, né una donna disperata che combatte un fantasma che non vuole andarsene dalla sua cantina, mentre la catapecchia in cui si è asserragliata cade a pezzi distrutta dalle intemperie. Questa disposizione all’attesa, all’incontro, all’ascolto, fa di Matt Black un grande narratore e di American Geography un grande romanzo americano.         

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