Fabio Camilletti / Italia lunare: gli anni sessanta e l’occulto
Questo saggio denso e molto ricco racconta di un viaggio fatto in Italia. Ma non è la solita Italia del sole e del mare, del buon cibo, dei mandolini e della dolce vita. È invece un’Italia infestata da vampiri, da fantasmi, da indemoniati, piena di posseduti, di medium, ricca di trame occulte e di complotti tessuti nell’ombra. Tutto il contrario del luogo comune intorno al Bel Paese, dunque.
L’arco temporale del racconto va sostanzialmente dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta del secolo scorso.
L’autore intraprende questa ricognizione dell’“occultura” (termine reso celebre da Christopher Partridge) italica di fine secolo – ventesimo – consapevole che essa può rivelarsi come una cartina di tornasole delle tensioni e dei desideri di un paese in trasformazione.
Del resto anche all’epoca della Rivoluzione francese mesmeristi e magnetizzatori avevano avuto un ruolo non inferiore a quello esercitato dai teorici dell’Encyclopédie.
Il discorso relativo all’occulto è come un prisma che riflette e incorpora tensioni sociali e politiche di un paese e però le ricodifica al di fuori dei regimi discorsivi di provenienza. Insomma, studiando le figure dei vampiri di certi cosiddetti b-movie italiani o di certi romanzi e romanzacci a base di spettri e indemoniati, tipo “I libri dell’ossessione” dell’editore Gino Sansoni, si può capire meglio la società italiana di quegli anni, meglio di quanto non possano farlo saggi sociologici o storici.
Il percorso si articola in quattro parti.
La prima è dedicata specificatamente ai vampiri. Sono vampiri cha-cha-cha, sulla falsariga di una canzone di Bruno Martino, Dracula cha-cha-cha, uno dei successi estivi dell’anno 1959. Perché la voga vampirica italica data da quell’anno, che è quello in cui Cristopher Lee, il nuovo Dracula della Hammer film, viene inseguito dai paparazzi per le strade di Roma. E da quella fortunatissima pellicola nasce tutta una serie, perfino parodistica, di altri film, i cui registi sono Mario Bava, Anton Giulio Majano, Roberto Mauri, Camillo Mastrocinque e altri.
Ma chi è veramente il Vampiro? E perché un’arcaica leggenda balcanica esercita tanta presa sulla società dell’era atomica, ancorché nella sua variante peninsulare?
Il Vampiro è molto semplicemente l’Altro, anche in senso lacaniano. È la minaccia oscura che l’Oriente lancia verso l’Occidente modernizzato. È il Capitale, “lavoro morto che si ravviva… succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia” (Marx).
Oppure, ancor più semplicemente, è lo schermo sotto il quale veicolare contenuti, quali morte sangue e seduzione, che altrimenti non avrebbero modo di superare il vaglio di un’occhiuta censura.
Non è solo il cinema a essere interessato da questa figura. La nascente industria editoriale dell’Italia del boom, allorché anche il pizzicagnolo sotto casa aveva l’agio di fondare una casa editrice, s’impadronisce del tema. Vengono sfornati volumi e volumetti, riviste e rivistine, con pochi scrupoli verso il diritto d’autore e molta compiacenza verso il denaro che arriva a fiotti.
In questo panorama brulicante di pubblicazioni si stagliano due profili di scrittori, opposti e complementari. Ornella Volta, una raffinata intellettuale cosmopolita, e Emilio De Rossignoli, un esule dalmata anticomunista, giornalista e critico cinematografico. Sono loro a firmare due importantissimi volumi sull’argomento, usciti a breve distanza di tempo. La fortunata antologia I vampiri tra noi, del 1960, di cui Ornella Volta è coautrice insieme a Valerio Riva per Feltrinelli e il saggio Io credo nei vampiri, uscito nel 1961 per i tipi di Ferriani.
Per la Volta (cui fra l’altro risale anche l’espressione Italia lunare) il vampiro incarna una forza eversiva e liberatrice, che simboleggia il possibile nell’impossibile, ossia la vita che riesce a oltrepassare l’estinzione. Il vampiro realizza il sogno più profondo dell’umanità intera: sopravvivere alla propria morte.
Per De Rossignoli, al contrario, il vampiro è il male. Esso si riverbera nell’infame uomo politico che specula sui poveri, nella teppaglia che aggredisce gratuitamente la notte, nei pirati della strada che uccidono e fuggono, nella donna (“vamp” per l'appunto) che manda in rovina gli amanti con il suo fascino perverso. Egli, De Rossignoli, che nutre una sfiducia inappellabile nei confronti del genere umano, vede nella figura transilvanica il concentrato di tutte le efferatezze di cui l’uomo può essere capace e che richiedono, per essere giustamente represse, l’uso di un inflessibile apparato coercitivo-poliziesco, secondo la miglior tradizione conservatrice, quando non francamente reazionaria.
Ma questo scrittore di origine dalmata è significativo anche per un altro motivo. Molti dei suoi testi non sono firmati da lui col suo nome, ma con una pletora di pseudonimi, quali Martin Brown o Emil Ross o Jarma Lewis o Tim Dalton e altri ancora.
Si ritrova qui, in quest’autore sfortunato e marginale, qualcosa che la critica va delineando dal punto di vista teorico più o meno negli stessi anni, ossia “l’autorialità come costrutto, maschera e performance”. E, parallelamente, il concetto della scrittura come menzogna e prassi combinatoria, secondo tesi enunciate dal nostro Manganelli in Letteratura come menzogna (del 1967).
Del resto anche altri procedimenti impiegati da De Rossignoli, come l’uso di cosiddetti “pseudobiblia”, ossia opere inventate di autori inesistenti (che verrà ripreso, per esempio, da Dario Argento in Profondo rosso), paiono anticipare la mescolanza inestricabile di vero e falso (così come di alto e basso), ritenuta tipica del Postmoderno.
La seconda tappa del viaggio di Camilletti si occupa di spettri.
Anche qui c’è in ballo un’antologia, quella che nel 1960 pubblicano per Einaudi Fruttero e Lucentini, Storie di fantasmi.
Nel fantasma, secondo Simon Hay, si ha sempre a che fare con un trauma irrisolto di carattere storico. Nel caso delle celebri storie di fantasmi della Gran Bretagna è in gioco il transito dall’aristocrazia rurale alla borghesia metropolitana. Ecco il perché delle dimore di campagna infestate, dei nobili che non vogliono scomparire dalle loro antiche magioni in cui si stanno insediando persone indegne.
Anche per i due letterati italiani il racconto di fantasmi tematizza qualcosa d’altro, di distante e alieno, sia nel tempo che nello spazio.
Fruttero e Lucentini non assemblano solo racconti noti di autori anglosassoni, ma ne producono anche di propri, servendosi però, esattamente come il De Rossignoli, di maschere di autori inesistenti, come il (è proprio il caso di dirlo) fantomatico P. Kettridge, autore di un “Ghosts don’t kill”, in realtà di Lucentini. Se poi si considera che questo falso Kettridge sarà usato, ma senza menzione, da Mario Bava per il terzo episodio dei suoi Tre volti della paura, dove figurerà come tratto da un inesistente racconto di Cechov, ci si accorge di essere in un’atmosfera labirintica che più postmoderna non si può.
Torino è ancora al centro dell’attenzione in questa tappa metapsichica, dato che l’altro volume preso in esame nel capitolo è Storie di spettri di Mario Soldati, uscito nel 1962.
Anche in questi racconti, come nella ghost story definita da Fruttero, c’è un’irruzione impercettibile dell’alterità in un ambiente di grigia banalità, altrimenti perfettamente “normale”. Anche qui, come nei testi inglesi, c’è l’espressione di una mutazione antropologica, una trasformazione del territorio. A volte si tratta proprio del riemergere di un’Italia tramontata, borghese e sabauda, all’interno di un modernissimo contesto industriale. Il fantasma è spaesante, e spaesato.
Opportunamente è citato qui il Perturbante freudiano. Anche nella sua declinazione francese, di De Certeau, di “familière etrangeté”.
Al proposito ci viene in mente come anche in Baudelaire, per esempio nel celebre sonetto delle Correspondances ma non solo, l’aggettivo familier abbia risonanze negative, o comunque inquietanti (come voleva Macchia).
Eppure i racconti di Soldati, e anche di altri, pur trattando di fantasmi si differenziano dagli analoghi di area anglosassone. La ragione è religiosa e storico-culturale. C’è, nei testi italiani, un’aria, un’atmosfera, un’aura che non si potrebbe definire altrimenti che: purgatoriale.
Più che inquietanti, gli spettri italiani sono malinconici, languidi. Non atterriscono. Non spaventano. Tuttalpiù trasmettono un senso di rassegnazione e di rimorso costante, ma non violento.
L’oltremondo italico pare essere tornato ai toni del grigio Sheol dei testi ebraici antichi. Il Purgatorio cattolico è l’elemento che distingue nettamente l’area culturale italiana (e mediterranea) da quella protestante e anglicana, dove si è assistito alla violenta estirpazione del Purgatorio da quell’immaginario.
Se possiamo aggiungere anche qui una notazione: è lo stesso fenomeno che si rileva nei testi coevi di poeti come Sereni e Luzi, per cui, giustamente, Enzo Siciliano, ci pare, coniò il termine di “condizione purgatoriale”.
Assai interessante, per finire con questo secondo capitolo mediante un’osservazione estemporanea, è la rilettura di celebri testi di Guido Gozzano in chiave parapsicologica, dove le famose “buone cose di pessimo gusto” vengono presentate alla stregua di “oggetti induttori” e tutta la rievocazione gozzaniana si potrebbe definire come “retrocognizione”.
Dietro questo Mario Soldati metapsichico sta dunque un antenato illustre come Guido Gozzano.
Il terzo capitolo s’intitola Comizi d’orrore ed è un palmare richiamo ai pasoliniani Comizi d’amore. Se in quel film lo scrittore bolognese perlustrava l’Italia in lungo e in largo sondando i costumi sessuali degli anni Sessanta, qui la ricerca è volta a quei fatti che Charles Fort chiamava i “dannati”, e quarant’anni dopo Fanon avrebbe impiegato lo stesso termine per indicare i senza nome del Terzo Mondo, dannati della terra. I dannati o “forteana” (termine giornalistico inglese) sono tutti quei fatti per i quali non c’è spiegazione razionale: piogge rosse, piogge di fango, piogge di rane, dischi volanti, macchine nel cielo, iscrizioni su meteoriti, sparizioni misteriose eccetera, tutta roba degna di Voyager insomma.
Ebbene, esiste un’Italia, soprattutto provinciale, periferica, ricchissima di fenomeni di tal genere. E in questi anni, tra i Sessanta e i Settanta, si stampano fior di guide a tale Italia leggendaria misteriosa insolita e fantastica, come quella, monumentale, a cura di Mario Spagnol e Giovenale Santi, uscita nel 1966.
Pertengono all’argomento misteriose apparizioni avvenute nel cimitero abbandonato di Lanzago di Silea in provincia di Treviso, così come le esperienze di geometri medium anch’essi veneti, di funzionari del dazio siciliani che intrattengono rapporti con intelligenze aliene, guaritrici lucane e così via. Anche questi sono in qualche modo, a ben guardare, dannati della terra, lasciati indietro dal miracolo economico, o forse suoi necessari accompagnatori, in quanto collettori di tutte quelle tensioni, zone d’ombra, lati bui che normalmente non riescono a emergere nella cronaca (o storia) quotidiana.
Il quarto e ultimo capitolo si occupa del film Tre passi nel delirio, coproduzione italo-francese del 1968. In particolare dell’episodio intitolato Toby Dammit, diretto da Federico Fellini e liberamente tratto da Poe (come gli altri due episodi, del resto) e precisamente dal racconto Non bisogna scommettere la testa con il Diavolo.
In realtà è una ricodificazione di Poe in termini contemporanei, ambientata in una “swinging Rome”, molto pop e molto provincialmente esterofila.
Il protagonista (Terence Stamp, reduce dal pasoliniano Teorema) è un attore britannico, venuto a Roma per interpretare un western cattolico. La sua passione per le auto da corsa, in particolare la Ferrari, gli giocherà un brutto tiro. Anzi gli costerà senz’altro la testa.
Il film di Fellini, più che un horror, è una riflessione meta-cinematografica sulla possibilità stessa di un horror nell’Italia di quegli anni.
Non possiamo dire quanto risolta, quella riflessione.
Ma ciò non conta poi molto.
Ciò che conta è che di lì a poco, i fantasmi, i mostri, i vampiri, usciranno dai libri e dai film e si daranno convegno nelle piazze e nelle strade d’Italia. Le trame non saranno più quelle, fondamentalmente innocue, tessute da velleitari occultisti dilettanti, quali i protagonisti dello sceneggiato Il segno del comando, che viene citato da Camilletti all’inizio e alla fine del suo libro (Ringkomposition), ma quelle effettive degli stragisti, dei depistatori, degli affiliati alle logge segrete. I revenant saranno l’anarchico Pinelli o, pochi anni dopo, l’onorevole Moro. È avvenuto, purtroppo, il deprecato passaggio dall’innocente Italia dei Misteri ai terribili e sanguinosi Misteri d’Italia.
Fabio Camilletti. Italia lunare: gli anni sessanta e l’occulto, Ed. Peter Lang, 2018, p. 258.