Oum Khaltoum, ti ho amata per la tua voce

27 Aprile 2024

È lecito presumere, anche solo per romanzesca ipotesi, che nel primo incontro fra un uomo e una donna tutto sia scritto. Quel che potrebbe accadere e quanto non succederà. Chi conduce il gioco e chi sarà chiamato a inseguire. Chi ama e chi manovra, tradisce, o più banalmente non corrisponde quell’amore. Lei è una contadina arrivata da poco al Cairo. Lo accoglie a capo scoperto, accarezzandosi le trecce con aria innocente. Per prima cosa gli dice: “mi hanno detto di non fidarmi dei poeti”. Lui, guardingo o soltanto colto di sorpresa, risponde: “e perché?”. La replica è divertita, forse ha già intuito che quell’uomo non potrà più fare a meno di lei: “hanno l’aria sognante e pura…”; e poi: “gli uomini, non so, credo che se non fossero esistiti, sarei stata perfettamente felice. I poeti, è diverso, hanno qualcosa di femminile… Forse non nel corpo, ma nell’anima. Con lei, mi sento in pace…”.

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È tornato da poco in libreria, per le edizioni e/o, il romanzo Ti ho amata per la tua voce dello scrittore libanese Sélim Nassib, pubblicato in Francia nel 1994 e apparso per la prima volta in versione italiana due anni dopo. Il libro racconta della relazione fra la più grande cantante araba di sempre, l’egiziana Oum Khaltoum, e uno dei suoi parolieri, il poeta Ahmad Rami. Dire Oum Khaltoum, o più semplicemente Oum come recita il titolo originale del romanzo, nei paesi arabi equivale a dire Elvis nel mondo occidentale. Basta il nome. Chiamata anche la Stella d’Oriente, Oum Khaltoum incantò la nazione araba tutta, non soltanto l’amato Egitto, quello di re Faruk prima e quello di Nasser poi, e ci riuscì grazie a una voce che incarnava la speranza di un Egitto pronto a scrollarsi di dosso il colonialismo: “un paese giovane come noi, sul punto di spezzare le catene”, scrive Nassib dando voce all’io narrante, Ahmad Rami.

Il libro di Nassib non è una biografia in senso stretto. È piuttosto un romanzo che fotografa da un originale punto di vista le figure di Oum Khaltoum e di Ahmad Rami, narrando sì di un amore impossibile, un amore non corrisposto durato mezzo secolo, ma intrecciando quella storia ai rivolgimenti sociali e politici che per decenni hanno animato il paese, in particolare la guerra del canale di Suez, un conflitto che portò alla cocente disfatta egiziana. Rami ci viene presentato come un poeta incapace di sottrarsi alla sua musa, un uomo che desiderò una donna che sapeva non avrebbe mai avuto, una relazione che oggi definiremmo malata o forse tossica, paradigmatica però dello struggimento amoroso, oltre che capace di elevarsi a metafora del destino di un popolo: “abbiamo teso le mani all’infinito per richiuderle su un puro desiderio, un centro vuoto. L’arte, forse, non è altro che la traccia lasciata da questo assurdo tentativo, questo fallimento assicurato. Khayyam l’aveva detto, l’unica strada è un perpetuo stato di ebbrezza”.

La vicenda artistica di Oum Khaltoum si svolge all’epoca in cui, fra chi si augura un avvicinamento all’Occidente e chi invece anela a trovare nella cultura araba le basi di un modernismo orientale, l’Egitto cerca un’identità che si lasci infine alle spalle il colonialismo britannico. Ahmad Rami ha studiato in Francia, alla Sorbona, e a ventitré anni torna al Cairo. Veste all’occidentale ma porta il fez. Quella che gli si presenta è una città diversa dalla città che ha lasciato pochi anni prima. I soldati inglesi sono scomparsi. Il Cairo, all’inizio del romanzo, è una città popolata da “contadini che si erano portati dietro il villaggio”. Rami sta traducendo le Rub’ayyāt di Omar Khayyam per quella che sarà la prima traduzione diretta dal persiano (la traduzione allora in circolazione in Egitto era tratta dalla prima traduzione in lingua inglese di Edward FitzGerald: “era per lei che facevo questa traduzione” si legge nel romanzo di Nassib, “nella sua gola, le quartine sarebbero diventate arabo. Ciò che fermentava, io, il Paese, tutto si sarebbe potuto misteriosamente unificare nella sua voce”. Rami conosce Oum nel 1925, quando la ragazza ancora si esibisce travestita da maschio, un fazzoletto a cingerle il capo ed i capelli. La miccia s’accende al primo incontro: lui s’innamora di lei; lei delle sue poesie. Dopo quel fatale incontro lui scrive una poesia intitolata Ho paura che il tuo amore. Quando si rivedranno, in una seconda occasione, gliela reciterà per intero:

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I tuoi occhi mi hanno parlato, e le tue mani
Il mio cuore anche, ma può sbagliarsi
Il tuo amore forse non è altro che pietà.

Lei ripete i versi sulle labbra, come una preghiera, dondolando il capo: “avevo visto quell’espressione magica solo nei dervisci dell’Alto Egitto, quando la trance del dhikr è sul punto di iniziare” riflette Rami. Cinque giorni dopo la canzone viene presentata al Teatro del Bosforo su musica di Ahmed Sabry El Nagredy, un compositore che fa il dentista a Tanta. Alla fine del brano il teatro erompe in un applauso scrosciante. Oum abbassa il capo e sorride. Poi lo rialza e riattacca la stessa melodia: “rallentamenti, modulazioni, esitazioni, anche le leggere raucedini su alcune sillabe. (…) Il canto usciva come dettato dalla più libera ispirazione, le parole diventavano trasparenti. (…) Una piccola contadina, niente di più, ma una medium”.

Ahmad Rami finirà con lo scrivere, da innamorato, centotrentasette canzoni per Oum Khaltoum. La prima incisa dalla cantante fu proprio quella in cui Rami già articolava il suo struggimento amoroso affidandolo a dei versi che colei che non gli si sarebbe mai concessa avrebbe reso immortali: Ho paura che il tuo amore. Fu pubblicata in formato 78 giri, un formato che mal si attagliava ai tempi distesi della musica araba. In copertina Oum vi appariva ancora con l’acconciatura da beduino. Ahmad Rami e Oum Khaltoum cominciarono a frequentarsi per decidere quali poesie avrebbero potuto entrare nel suo repertorio, sempre a casa del padre di lei e sempre in presenza della fedele Sa’adiyya, la “seconda madre” di Oum e la prima da quando la ragazza s’era trasferita al Cairo, la quale vegliava i due dalla stuoia di controllo. Rami non le leggeva soltanto le sue liriche ma “tutta la poesia del mondo”: Ibn al-Farid, Umar ibn Abi Rabi’a, Abu al-Atahia, Hafiz Ibrahim, Ahmad Shawqi, Racine, Shelley, Byron e, ovviamente, Omar Khayyam. Oum imparava le poesie a memoria e al successivo incontro i due le recitavano assieme. Rami le presentava soltanto poesie d’amore, e poteva farlo “purché fosse mantenuto un velo di pudore”. Affidava alla poesia di al-Rumi il compito di illustrare il suo destino: “il più bel grido d’amore è quello dell’amore impossibile”.

Un giorno un giornalista chiese a Oum Khaltoum chi fosse Ahmad Rami per lei, e la cantante rispose: “è il mio poeta. Arde per illuminare la mia voce”. All’epoca Oum aveva già abbandonato il travestimento da beduino. Il gesto di liberare i capelli davanti al pubblico, sciogliere il fazzoletto per dichiararsi infine donna, lo compì dopo aver cantato la poesia Il mio beneamato è venuto, scritta proprio da Rami:

C’è stata una tenerezza per il mio cuore
Ho colto la rosa sulle sue guance
E bevuto la dolcezza dalle sue labbra

Il pubblico del Teatro del Bosforo festeggiò la canzone con un boato: “la vidi toccare e sciogliere, con un gesto forzato, il nodo del fazzoletto. La sala segnò una battuta d’arresto e applaudì ancora più forte. Rialzò la testa. I lembi del fazzoletto pendevano, scoprendo un’abbondante capigliatura. Ricominciò a cantare. Quella notte, il pubblico del Cairo finì la canzone, la prese tra le braccia e la mise al mondo. C’era stata una fusione, la folla l’aveva capito, ma soprattutto lei, che aveva nella voce una nuova canzone, più che una canzone”. Fu così che Oum Khaltoum si trasformò in donna agli occhi dell’Egitto: cantando con abbandono i versi che Ahmad Rami aveva scritto per lei.

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“Da sempre”, scrive Sélim Nassib, “il mondo arabo è convinto che la vita reale sia al di fuori delle donne”. Uno dei grandi meriti di Oum Khaltoum fu quello di aver capito che la gente comune non necessitava di inni patriottici, ma di canzoni d’amore. Il fatto che a cantarle, quelle canzoni, fosse una donna il cui nome, Oum, in arabo sta per madre, e dove oumma, vocabolo che ne deriva, sta per comunità, nazione, risvegliò nel mondo arabo il sentimento, per dirla sempre con Nassib, di “appartenere a uno stesso ventre impossibile da lasciare”. Oum Khaltoum ha incarnato la possibilità dell’unione del mondo arabo, di un avvicinamento fra Oriente e Occidente, di una fusione fra uomo e donna, fra principio maschile e femminile. Il romanzo racconta di questo anelito. L’amore mancato fra il poeta e la cantante è la storia della mancata unione del mondo arabo e quella del perdurante conflitto fra Occidente e Oriente, fra i figli di Israele e il mondo arabo. Il poeta ha amato lei per la sua voce, ma ciò non è bastato a suggellare la passione. Quando Oum decise infine di cantare le quartine di Khayyam, Rami la mise in guardia: “i Fratelli Mussulmani non accetteranno che tu canti l’ebbrezza, ti accuseranno di indebolire i sentimenti di sottomissione, e la sottomissione è l’Islam”. Lei interpretò Khayyam, e il Palazzo le fece capire che non avrebbe più cantato alla radio. A salvarla dalla censura intervenne direttamente Nasser: “il Nilo e le Piramidi esistevano anche durante il vecchio governo, non si è mai parlato di proibirle”. Il Nilo, le Piramidi e Oum Khaltoum… La forza di Oum risiedeva anche in questo: l’essere interamente araba, una diva che l’Occidente non avrebbe potuto carpire. Oum Khaltoum resta essenzialmente inavvicinabile per noi, non ha mercato in Occidente perché parla al cuore in un modo che non riusciamo ad afferrare se non, in minima parte, con l’intelletto. Nell’Egitto dell’indipendenza, nessuno meglio di lei segnò questa conquista, una conquista che parlava sì al cuore della nazione araba, ma nel farlo insinuava anche la consapevolezza che nessun colonizzatore sarebbe riuscito a cogliere quel fiore.

Dopo la disfatta nella guerra del canale di Suez, molti giornali attribuirono agli artisti e agli intellettuali la responsabilità della sconfitta: “cantavano l’amore invece di preparare la nazione araba alla guerra”. Un dirigente della sinistra egiziana formulò un j’accuse diretto a Oum Khaltoum: “accuso la Stella d’Oriente d’essere stata l’oppio dei popoli”. S’aprì per Oum l’ultima fase della sua vita artistica, la decisione di andare a cantare lì dove la sconfitta era stata più dolorosa, città dopo città, paese dopo paese, una tournée interminabile per mostrare agli egiziani che lei era sempre al loro fianco: “la voce che come dite fa assopire il popolo, lo risveglierà, vedrete”. E dopo l’Egitto vennero le capitali del mondo arabo: Khartum, Tripoli, Fez, Rabat, Tunisi, Amman, la Giordania, il Libano, il Kuwait… La stella d’Oriente abbandonò le scene con un ultimo giro di danza per abbracciarli tutti.

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“Aprì gli occhi e il loro nero entrò in me. Le labbra che pronunciavano i miei versi accennarono un sorriso così significativo che ebbi improvvisamente l’impressione di essere un amante catturato da occhi che dicevano, al colmo dell’amore, guarda cosa mi fai e cosa ti lascio vedere”. Sono molte le pagine in cui il sentimento che Sélim Nassib attribuisce a Ahmad Rami lascia il lettore ammaliato. La raffinatezza con cui enuncia il desiderio di Rami per Oum Khaltoum fa di questo romanzo un manifesto di sensualità e di pudore. Proprio come la musica araba, che a differenza di quella occidentale conosce un’infinità di formule modali, così la sfera intima nelle parole di Nassib pare alludere a un’armonia capace di una sottigliezza che la nostra cultura, se mai ha conosciuto, ha completamente rimosso o semplificato a modo maggiore e modo minore.

 

Il libro, infine, si chiude all’epoca dell’assassinio del presidente Muhammad Anwar al-Sādāt da parte della Jihad islamica egiziana. Nassib mette in bocca a Rami delle parole che lette nel contesto di un romanzo che racconta di un amore non corrisposto, spiccano come un monito oltre che come l’ammissione di un fallimento: “con loro non c’è speranza, sono la fine, il divorzio dal mondo”. Altrove li definisce “degli oscurantisti che si nascondono dietro la religione per uccidere, dei reazionari pagati dalle monarchie arabe e dal colonialismo”. È chiaro che Rami appartiene a una generazione di egiziani che s’immaginava un futuro diverso, per sé e per il paese. Nell’amore per Oum Khaltoum stava una promessa mai davvero sbocciata: “il rinnovamento del pensiero, dell’Islam, della letteratura, della politica, niente. La rinascita che doveva scuotere la nostra cultura, sbatterla come un vecchio tappeto per ravvivarne gli incomparabili colori non ha avuto seguito, ecco la verità. Abbiamo arso intensamente senza partorire nulla. Quei soldati che hanno aperto il fuoco gridando “Dio è il più grande!” sono i figli del nostro fallimento, i nostri unici figli. Non ci sarà modernismo orientale, non ci sarà. (…) Ma Dio sa che abbiamo provato a farlo brillare questo mondo, a portarlo fino al sole”.

Se perdono (più di un quarto di milione di copie vendute, il primo enorme successo di Oum Khaltoum)

Sei la mia vita (in concerto all’Olympia di Parigi nel 1967)

In copertina, fotografia di Bruno Barbey.

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