La falena di Cuba / Urania

17 Aprile 2016

Quella fu una giornata indimenticabile che cominciò di primo mattino con un lungo giro a cavallo di un vecchio stallone che si chiamava “Machado” per via di una grande e irregolare macchia bianca sul muso bruno. Avevo percorso un tragitto di qualche chilometro nel verde lussureggiante della valle dei mogotes tra campi coltivati a mais e tabacco che si alternavano a terreni incolti dove volavano decine di Phoebis sennae gialle e bianche e dove gli avvoltoi ti giravano sulla testa con quel volo circolare e l’obbiettivo dichiarato di avvistare qualche carcassa maleodorante su cui avventarsi. Il sole caldissimo era ormai diritto sull’apice del mio cranio e

mi stava aggredendo un certo appetito. 

 

 

 

 

A cavallo raggiunsi il mercato rurale dei contadini della piana di Viñales ove ero solito passare per la frutta e qualche patata a buon prezzo. Qui, nella parte più occidentale della lunga isola di Cuba, la vita scorreva inalterata da secoli nel silenzio della campagna che profumava di umido e di sterco di vacca, specie al mattino, quando il sole sorgeva tra i primi mogotes all’orizzonte. 

 

 

 

 

Al mercato, quel giorno, trovai solo qualche contadino con i suoi prodotti sparpagliati sui banconi: banane di varia taglia e forma, enormi plantani verdi, una sorta di tubero allungato, e molti avocado. Comprai per pochi spiccioli qualche avocado, una manciata di piccoli lime verdi e tondi, e delle piccole banane, le più gustose di tutte, e mi avviai verso il piccolo locale affittato dove pernottavo in quei giorni di luglio. La mia era una stanza sobria, di pochi metri quadri, dipinta di un colore arancio vivo, con due finestre dotate di zanzariere che davano verso un giardino solo in parte coltivato e nel quale due grandi piante di ficus raggiungevano facilmente il tetto della casa con i loro lunghi e contorti rami. Uscii per cucinare i miei avocado tagliandoli a fettine sottili, salandoli un po’ e innaffiandoli con del succo di lime. Sbucciai le banane e mi accinsi a pasteggiare sul mio rozzo tavolo di legno sotto al ficus come facevo spesso in queste ore caldissime, bevendo dell’acqua fresca appena tolta dal piccolo frigorifero. Al solito, senza essere viste, le piccole zanzare Aedes cominciarono a punzecchiarmi alle gambe provocandomi dei ponfi estremamente pruriginosi. Io non sopporto queste bestie infernali che si nascondono nell’erba e volano appena sopra di essa a cercare sangue fresco da suggere con avidità. Non potevo farci granché se non usare il mio spray repellente, ma quel giorno lo avevo dimenticato e fui punito con una decina di morsi prima ancora che me ne rendessi conto. Cosparsomi di repellente, ripresi a mangiare le mie banane e l’avocado salato e acidulo per via del lime, un piatto che avevo appreso a cucinare in Africa anni prima.

 

 

Mi asciugai il sudore che colava vistosamente sulle tempie e mi ricordai di quando, trovandomi in Swaziland, una ragazza locale di nome Sibungile che faceva l’infermiera nella missione in cui stavo mi aveva insegnato a gustare gli avocado che raccoglieva nella grande pianta dietro al lungo edificio dove stavano i dormitori. Sibungile li consumava salandoli e spremendovi sopra mezzo lime profumato e stranamente dolciastro nella sua acidità. Intanto una bella e infuocata Adelfa si era posata lì vicino su di una foglia gigantesca riposandosi alla penombra del ficus. 

 

 

 

 

Mangiavo sentendo il grido di alcune rondini che piroettavano in tutte le direzioni con quel loro volo che tagliava l’aria con facilità impensabile. Alzai lo sguardo e ne vidi una mezza dozzina divertirsi a sfiorare i rami più alti di alcune piante poco distanti. Andavano e venivano senza sosta. Ma notai anche qualcosa di diverso sotto di loro. Mi parve subito una sorta di uccelletto timido planante lentamente, ma il volo era strano, veleggiante e abbastanza lento per un uccello. Quando si avvicinò mi resi conto che era una farfalla, grande e appuntita per via di due lunghe e spesse code che partivano dall’ala posteriore e si allungavano talmente da formare una sorta di aquilone. Abbagliato dal sole di mezzogiorno mi sfuggivano quei dettagli cromatici che permettono il riconoscimento della specie o, almeno, della famiglia. “È un papilionide” dissi tra me e me con certezza “con quelle code non può essere altro”. Lasciai perdere l’avocado, mi alzai di botto dal mio tavolaccio e mi precipitai in casa dove tenevo il mio retino, lo agguantai con vigore e uscii in giardino con lo sguardo puntato in alto. Vidi qualcosa che non mi attendevo: il mio presunto papilionide, andando contro ogni legge della catena alimentare ora stava inseguendo le rondini che erano di taglia quasi identica. Subito dopo ne comparve un secondo dalla cima di uno degli alberi vicini, e anche questo, quando captava una rondine nei dintorni accelerava improvvisamente il volo per inseguirla per una decina di metri. Non avevo mai osservato un comportamento del genere, malgrado mi vantassi di conoscere a menadito l’etologia delle farfalle. Ricordai che solamente le Apatura ilia che vivono sui pioppi in riva al fiume Sesia, dalle nostre parti, tendevano a fare una cosa simile con altre farfalle o libellule che si avvicinavano alle foglie su cui erano posate in alto sul pioppo.

 

È un comportamento che intende definire il territorio e allontanare ogni intruso. L’amico Piscopo, che è scaltro, utilizzava questa abitudine delle Ilia per attrarle verso terra: prendeva una lunga canna, ci legava un filo lungo un metro con appeso un foglietto di carta, e lo agitava vicino al luogo in cui scorgevamo la Ilia posata. Questa, disturbata dall’oggetto in volo apparente, tendeva a inseguirlo per breve tratto scendendo verso di noi dove la si attendeva con il retino pronto. Capitava a volte di riuscire a catturarla con questa tecnica un poco rudimentale ma che era anche un passatempo piacevole, ma qui, a Viñales, si trattava di cosa ben diversa e straordinaria: la farfalla inseguiva le rondini anziché temerle come si conviene, essendo queste abili sterminatrici di insetti. Le rincorreva per tratti abbastanza lunghi e poi, come per divertimento, si staccava dalla loro scia e, percorrendo una traiettoria parabolica scendeva un poco in basso sino a ritrovare o un’altra rondine con cui ripetere l’esercizio oppure un rifugio in alto sugli alberi. Una scese sino quasi al suolo e si posò sulle foglie di un cespo oltre la cinta del giardino. Anche se era distante una ventina di metri, potei finalmente vederla senza essere abbagliato dal sole. Notai un colore di fondo scurissimo, nero, di quello che davvero assorbe la luce e che alcune specie di farfalle sfoggiano con eleganza, e delle strie verdi luminose al sole. Ero convinto fosse un papilionide ma non potevo identificare la specie di appartenenza, considerato che non mi risultava che a Cuba ci fossero delle specie con questi colori.  

 

 

 

 

I papilionidi di quei luoghi, quali il comune Papilio andraemon, sono solitamente marrone scuro o nerastri con macchie gialle ben evidenti, tanto da apparire al volo giallastri. Non feci in tempo ad avvicinarmi poiché la farfalla s’involò e sparì oltre gli alberi. Frustrato per non averci capito nulla, tornai in casa per consultare il mio manuale sulle farfalle dei Caraibi: come sospettavo, qui non c’erano specie di papilionidi con quei colori che invece si trovano in Yucatan, ad esempio, dove in un marzo lontano vedemmo centinaia di magnifici Papilio philolaus in pieno sfarfallamento tanto da immolarsi a decine alle auto di passaggio lungo le strade che portano alle piramidi degli antichi Maya.

 

Ma torniamo alla nostra specie misteriosa. Di che si trattava non ne avevo idea dato che nessuna farfalla diurna a Cuba presenta quella livrea. Cominciai a sospettare si trattasse di una falena, ma questa volava di giorno e la cosa non mi convinceva. Intanto, fuori, sentii il tuono che precede i violenti temporali dei Caraibi. Si era rannuvolato improvvisamente e tra poco avremmo avuto acqua a catinelle visto che scorgevo a est una massa grigio-scura che non prometteva altro che pioggia a dirotto. Il sole se n’era andato e il cielo era grigio. Quella calma ipocrita che precede il temporale sembrava aver paralizzato del tutto la brezza del mattino. Le rondini non c’erano più, ma la farfalla misteriosa era ancora in volo, planante, regolare, a dieci metri d’altezza. Ora scorgevo bene la sua forma allungata a triangolo rovesciato. Intanto, il vento si era levato improvviso precedendo un acquazzone formidabile che scaraventò al suolo secchi di acqua fresca. Durò poco, come è tipico qui ai tropici, ma abbastanza da rinfrescare piacevolmente l’atmosfera lasciando quell’odore umido che significa ripresa del volo delle farfalle dopo la bufera. Ancora prima che spuntasse il sole attraverso la retroguardia di nuvole grigie, ecco il misterioso insetto riprendere il volo prima di ogni altro e sicuramente prima di ogni farfalla che di solito abbisogna del calore del sole per poter volare. E tornarono le rondini e gli inseguimenti ripresero senza sosta. Ma nessuna scendeva al suolo e pensai che non sarebbe mai stato possibile catturarla. Passai il pomeriggio con gli occhi in alto a cercare di comprendere cosa fosse quella specie e sperando di poterne avvicinare una. Finalmente, verso il tramonto, una di queste farfalle scese verso di me forse attratta dai movimenti del retino che agitavo verso l’alto e che certo scambiò per un intruso. Mi fu sopra la testa rapidamente; mossi il retino veloce verso di essa e quasi senza accorgermene me la trovai dentro che si agitava per liberarsi dalla trappola. Con il fiato sospeso e una emozione fanciullesca, mi appoggiai a terra, e guardai cosa era finito dentro alla rete: subito apparve alla vista una creatura meravigliosa color nero opaco e con ampie strie verdi e turchesi iridescenti. “Ecco dunque di cosa si tratta: una falena, non un papilionide”, dissi ad alta voce, una falena di rimarchevoli dimensioni e dalla colorazione magnifica. Riconobbi ora al volo la famiglia: era un Uranide, come quelli ben noti del Madagascar e della jungla brasiliana. La falena era robusta e vivace malgrado l’avessi compressa un poco al torace per immobilizzarla. La presi tra le dita e la guardai a lungo: una specie magnifica, pensai, una falena straordinaria.

 

 

 

 

Aveva quella iridescenza fuori del comune a formare delle lunghe strie e anche piccolissime macchie che emergevano dal nero opaco di fondo come si vede sul viso incipriato delle donne quando si cospargono le guance di quella polverina luminescente. Le antenne erano filiformi e il grande corpo da falena a sua volta nero e con scaglie iridescenti a formare una sottile stria lungo l’asse dal capo sino alla punta dell’addome. Il colore delle strie iridescenti era di un bel verde smeraldo con sfumature turchesi al bordo superiore dell’ala anteriore e, più estese, all’ala posteriore dove le grandi e spesse code iniziavano appunto con un paio di macchie turchesi come il mare di Cuba. Andai a letto felice quella sera. Il giorno successivo ne vidi altre in volo e una seconda si infilò nel retino librato in aria quasi senza che me ne rendessi conto, facendomi così nascere il sospetto che l’agitazione della rete fosse intrepretata dalla bella Urania come un intruso da inseguire e scacciare dal proprio territorio di volo. Incuriosito da questa esperienza straordinaria, volli vederci chiaro e capire di che specie si trattasse. Mi recai allora nella piccola biblioteca della cittadina a consultare consunti testi della fauna di insetti di Cuba scoprendo così che si trattava di una delle due specie di Urania endemiche dell’isola, ovvero Urania boisduvalii

 

Lasciato Viñales, prosegui il mio viaggio solitario verso ovest. Nel pomeriggio, immerso nella lussureggiante e verdissima vegetazione tropicale degli ultimi mogotes, mentre le Urania volavano in alto come grandi uccelli, presi la via per Puerto Esperanza dove passai la notte ad ammirare il calmo mare che guarda a nord.

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